
il contenuto
Costa Azzurra, autunno 1932. Una filosofa di trentasette anni, priva di status accademico e di notorietà, scrive a Daniel Halévy per raccontargli il suo incontro con un libro tedesco uscito nel 1927 e destinato a segnare il pensiero del Novecento: Essere e tempo. L’autore, Martin Heidegger, all’epoca è pressoché sconosciuto in Francia. La giovane lettrice va subito al cuore di quel testo denso, quasi intraducibile, e sa spiegarlo al suo interlocutore con una limpidezza che ancora oggi lascia stupefatti. Le bastano poche pagine per toccarne i punti salienti, che «rendono palpabile la presenza del nulla», e per intuire come perfino i passi più ardui non siano frutto di pura «ingegnosità verbale», bensì rispondano al bisogno di «vincere in noi l’opacità e l’impermeabilità che si oppongono alla nostra chiaroveggenza». Legge Essere e tempo anche da musicista, come se si trattasse di una partitura di Bach: un’Arte della fuga sul tema dell’Essere.
l'autore
Rachel Bespaloff (1895-1949), ebrea di origini ucraine, visse in Svizzera e in Francia, riparando negli Stati Uniti nel 1942, dove insegnò Letteratura francese presso il College di Mount Holyoke, nel Massachusetts. Morì suicida. Aveva una formazione musicale: alla filosofia arrivò solo a metà degli anni venti, quando conobbe il conterraneo Lev Šestov. In seguito fu l’interlocutrice di intellettuali francesi di spicco, tra cui Jean Wahl e Gabriel Marcel. Raccolse i suoi saggi in Cheminements et Carrefours (1938, n. ed. 2004). Di recente sono apparse le Lettres à Jean Wahl 1937-1947 (2003). In italiano è disponibile Dell’«Iliade» (2004).
Questo libro offre una sintesi del pensiero di Krishnamurti sulla condizione umana e sugli eterni problemi della vita. Le sue parole sono tratte da più di cento discorsi, che risalgono all'anno più produttivo della sua vita. Fu lo stesso Krishnamurti a chiedere a Mary Lutyens, sua grande amica e autrice dell'unica sua biografia completa (La vita e la morte di Krishnamurti, Ubaldini, Roma 1990), di compilare per lui questo libro suggerendone il titolo. Le parole sono sue, inalterate; la disposizione, intesa per facilitare la comprensione del lettore, è di Mary Lutyens. Secondo Krishnamurti è possibile cambiare noi stessi radicalmente a qualunque età, non in un lungo periodo di tempo ma istantaneamente, e, cambiando noi stessi, è possibile cambiare tutta la struttura della società e dei nostri rapporti. Il bisogno vitale del cambiamento e la sua necessità sono l'essenza di ciò che Krishnamurti vuol comunicare. Non si può parlare di insegnamento di Krishnamurti perché egli stesso non si pone come un maestro; non si può parlare di una sua filosofia perché egli non vuole essere detto filosofo. Krishnamurti stesso dice che le sue parole sono soltanto uno specchio in cui rimirarci. Chi sa guardare intrepidamente se stesso nello specchio delle sue parole non sarà mai più lo stesso, ma se lo specchio è appannato dal caldo alito della discordia non si potrà vedere assolutamente nulla.
Jiddu?Krishnamurti (1895-1986) è stato uno degli uomini più profondi e illuminati, che ha ispirato migliaia di persone in ogni parte del mondo.?Purtuttavia è sempre vissuto rifiutando l'etichetta di guru, per incoraggiare la ricerca della libertà e della comprensione interiore.?Si incontrava con la gente non per insegnare, ma per capire, per esplorare insieme il significato dell'esistenza dell'uomo e del mondo. Ciò su cui più insisteva era che la verità è una "terra senza sentieri" e non la si può raggiungere attraverso un sistema istituzionalizzato, sia questo una religione, una filosofia o un partito politico.?Le sue parole aiutavano a esplorare le questioni più cruciali: la morte, la malattia, la libertà, l'amore, la meditazione, la paura, dio, la natura. Restano di lui, oltre a molti libri pubblicati in vita, pagine e pagine di trascrizioni di discorsi tenuti in Europa, India e America, oltre che diari, lettere e altro ancora.?È?per lo più da questo materiale inedito che è stata tratta questa collana di volumi monografici intitolata "Krishnamurti su"; ogni testo è dedicato a un tema particolarmente caratteristico del suo insegnamento e rilevante nella vita quotidiana.
Non è possibile dubitare che le cose del mondo nel quale abitiamo – le pietre, i monti, i laghi, le stelle, le piante, gli animali, il sangue... – ci si mostrino, ci si manifestino. Le distinguiamo, infatti, le osserviamo, ne parliamo in continuazione, le usiamo, le trattiamo in modo diverso a seconda di come esse, appunto, diversamente si manifestano.
Ma, d’altra parte, non è possibile neppure dubitare che tutte queste cose, prese sia singolarmente sia collettivamente, in un certo modo sfuggano alla nostra osservazione e alla nostra conoscenza. Molte strutture da cui esse sono costituite e molte leggi da cui sono guidate nei loro comportamenti rimangono ignote. Quanto più la scienza attraverso i secoli è riuscita a manifestarle, tanto più si è accorta e ha dimostrato, soprattutto in questi ultimi tempi, che vi sono dei limiti invalicabili in questa radicale impresa.
Nasce allora il fondamentale problema: questa mancanza di manifestazione, che accompagna tutte le cose e tutti i viventi a cui esse si manifestano, è una loro mancanza di essere o è soltanto il nascondimento di parte del loro essere? L’analisi condotta in questo libro del modo nel quale avvengono questa manifestazione e questa perdita porta decisamente alla seconda alternativa. Manifestazione e nascondimento delle cose e dei viventi appaiono allora come i problemi che stanno alla base della loro vita e della loro morte, avvolti però in una nuova luce. E in una nuova luce si presentano anche gli strumenti sovrani che accompagnano e promuovono il cammino verso la loro soluzione: la scienza, la filosofia, la religione.
Angelo Crescini, dopo la laurea in Matematica-fisica e in Filosofia, e la licenza in Teologia, ha conseguito la libera docenza in Filosofia teoretica e in Storia della scienza.
Dal 1954 al 1968 ha insegnato matematica e fisica al liceo scientifico Gaspare Bertoni di Udine. Dal 1968 al 1990 ha insegnato Filosofia della scienza all’Università di Trieste.
L’intento principale delle sue numerose pubblicazioni è stato l’avvicinamento e la mutua comprensione e integrazione delle tre dimensioni fondamentali della cultura umana: scientifica, filosofica e religiosa.
La metafisica sembra non trovare casa nelle coscienze e nelle società moderne, che la vedono come un’eterea e inattuale sovrastruttura sovrapposta alla sola vera realtà, quella di cui le scienze ci forniscono una conoscenza sempre più esatta. L’unica base reale, si dice, è la natura, sulla quale è possibile edificare un’unica struttura: la società umana, cioè l’associazione degli uomini secondo regole che permettano lo sviluppo di tutti. Il resto è solo sovrastruttura di pensiero.
Questa convinzione diffusa, che si vanta di aver fatto pulizia di tanto sterile ragionare, viene qui affrontata e smentita dal filosofo francese Rémi Brague, il quale dimostra che al contrario, oggi più che mai, l’uomo è, per dirla con Schopenhauer, un «animale metafisico». Argo - menta infatti Brague che tanto la conoscenza della natura quanto l’organizzazione degli uomini in una società vitale e vivibile presuppongono l’esistenza stessa della collettività umana. E questa esistenza non è affatto scontata, soprattutto oggi che gli uomini sono sempre più in grado, per le conquiste scientifiche e tecnologiche, di scegliere di essere o di non essere, e anche di dare o non dare la vita.
Perché si deve volere l’essere? Perché scegliere la vita, il benessere sociale, il progresso? Queste sono, senza dubbio, domande cruciali per l’uomo moderno, e la risposta ad esse è squisitamente metafisica. Amare la vita, battersi per un’esistenza equa vuol dire, alla radice, pensare che l’essere è bene: l’equazione metafisica fondamentale. Da essa, ci ricorda Brague, dipende tutto quello che più ci sta a cuore: la costruzione di una società giusta, la conservazione di un ambiente vivibile, la volontà di dare la vita. In una parola, la convinzione che il futuro dell’umanità vale la pena.
La metafisica, dunque, non è affatto un’inutile costruzione ormai in disarmo, ma la radice stessa delle nostre scelte concrete; non una sovrastruttura superflua, ma l’infrastruttura indispensabile alla continuazione della vita degli uomini.
Queste le illuminanti parole con cui Brague chiude il suo scritto: «In un dialogo di Platone un personaggio dice che l’uomo è come un albero capovolto le cui radici stanno in alto. Forse come lontana eco di quest’immagine di Platone, più di due millenni dopo di lui, Antoine de Rivarol ha scritto: “Ogni Stato è un vascello misterioso le cui ancore sono in cielo”. Poco importa il contesto, in questo caso una difesa degli antichi regimi e del principio religioso della loro legittimazione. Oltrepas - siamo il limite dell’ambito politico. E arrischiamo: per ogni uomo, le ancore sono nel cielo. È in alto che bisogna cercare quello che ci salva dal naufragio».
Rémi Brague, membro dell’Institut de France, insegna Filosofia alla Sorbona di Parigi e all’Università Ludwig-Maximilians di Monaco. Autore di numerosi saggi, in Italia è noto soprattutto per il volume Il futuro dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa (1998). Tra le altre sue opere tradotte: La saggezza del mondo. Storia dell’esperienza umana dell’universo (2005); Il Dio dei cristiani: l’unico Dio? (2009)
Anziani considerati ormai 'vecchi', fuori dal ciclo produttivo e soprattutto da quello del consumo. Giovani che non hanno più il diritto di essere giovani, ma sono inseriti da subito nella giostra delle competenze da acquisire, dei risultati da conseguire, con l'imperativo di essere 'imprenditori di se stessi'. Fragilità umane di tutti noi che vengono stigmatizzate come intoppi nella realizzazione di una felicità del qui e ora, col risultato di impregnarci di angoscia e paura del futuro. Non è lo scenario distopico di un libro di fantascienza, ma il panorama della nostra situazione attuale. Come ci siamo arrivati? Quando abbiamo abdicato alla nostra irriducibilità a una modellizzazione meccanica? Perché abbiamo accettato di diventare un mero 'bilancio di competenze' governato da un algoritmo ottimista, e perché ci siamo lasciati convincere che saremo migliori e più felici se ci lasceremo 'aumentare' dalle macchine? Ma soprattutto: c'è una via di resistenza a tutto questo? Miguel Benasayag, che da sempre si muove all'incrocio tra psicanalisi, biologia e filosofia e che per il suo essere un resistente ha anche pagato un prezzo personale, come racconta più volte in questo libro, raccoglie l'appello di una società impaurita e le propone una scommessa per un futuro diverso: un futuro di persone singolari, ricche delle proprie diversità, delle proprie qualità e incrinature, che vivono in relazione tra loro. Solo accettando di andare al di là del semplice 'funzionamento' della macchina e riguadagnando invece la complessità piena di senso dell'umano, si può tornare a considerare senza angoscia la morte come parte dell'esperienza sapida della vita, a guardare la fragilità del corpo e delle emozioni come ricchezza della relazione con gli altri. E recuperare così uno sguardo aperto verso un futuro che sia sempre meno un risultato e sempre più un cammino, a volte facile e a volte difficile come la vita vera.
Uno dei maggiori filosofi italiani riflette sul desiderio, tema molto in voga nella recente saggistica italiana. Questo fondamentale tratto antropologico viene letto paradossalmente nella sua valenza positiva, come segno di una mancanza radicale dell'essere umano. È lo spazio dove si manifesta l'alterità a cui è costitutivamente aperto l'uomo, la cui identità dipende dall'altro da sé (come nel bisogno del cibo, ma anche e soprattutto nella relazione). Questa mancanza non può mai essere saturata, come vorrebbe l'inganno della società dei consumi, che infatti si ingegna a contornare le merci di un'aura di desiderabilità estetica sempre nuova. Questa mancanza è piuttosto la radice di un'identità sempre aperta e in movimento, dove l'altro non rappresenta una minaccia, ma la sorprendente possibilità della libertà di realizzare se stessa attraverso l'esperienza. Il saggio termina con un'efficace è inusuale riflessione sul rapporto tra desiderio umano e Dio. Dio non è il compimento del desiderio, a modo di un tappabuchi: sarebbe come una proiezione dell'uomo. Dio è invece la fonte del desiderio, che dilata lo spirito umano nell'incessante è felice rapporto con l'oltre della realtà.
L’antropologia è oggi al centro del dibattito filosofico. Questioni come quelle dell’unità dell’uomo, della corporeità umana nel suo rapporto con la coscienza, vengono continuamente riprese e discusse. Il presente volume offre, in una sua prima parte, una lucida e densa illustrazione delle più importanti prospettive antropologiche moderne, da Cartesio, La Mettrie, Kant, su su fino a Kierkegaard, Marx, Freud, Nietzsche, Husserl, Heidegger, Sartre, Ryle e altri pensatori ancora. In una seconda parte, l’autrice mostra come la concezione classica dell’uomo, lungi dall’essere ormai solo oggetto da museo, offra la possibilità di superare i monismi riduttivi, o i dualismi esasperati in cui sono insabbiate tante concezioni moderne. La prospettiva difesa dall’autrice consente peraltro di inserire in una visione di insieme coerente anche gli elementi di verità che talune analisi antropologiche contemporanee pur possiedono.