
Le passioni, a lungo condannate come fattori di turbamento, oggi si puntano a controllare dal punto di vista dell'individuo, mentre si mirano a forgiare come strumenti di dominio politico, dal punto di vista sociale. L'opposizione tra ragione e passione fa parte di una costellazione di senso culturalmente condizionata.
Quello del 1984 è l'ultimo corso tenuto da Michel Foucault al Collège de France. Già malato, comincia le lezioni solo a febbraio per terminarle alla fine di marzo. Muore pochi mesi dopo, il 25 giugno. Queste circostanze gettano una luce particolare sul corso, che si è portati a leggere come una sorta di testamento spirituale, dove il tema della morte ricorre frequentemente. Il corso prosegue e radicalizza le analisi condotte l'anno precedente. Anche qui, la domanda centrale ruota intorno alla funzione del "dire-il-vero" e al ruolo che la verità riveste nell'ambito della politica e dei rapporti di potere. Si tratta in sostanza di stabilire, nell'ambito della democrazia, un certo numero di condizioni etiche che sono irriducibili alle regole formali del consenso ma che fanno appello alla dimensione morale individuale: il coraggio di fronte al pericolo e la coerenza. Foucault ritorna alle radici della filosofia greca, rivalutandone l'idea di democrazia contrapposta a ogni forma di tirannia, antica e moderna. Nella morte di Socrate non emerge la paura di morire, ma l'angoscia di non poter portare a compimento la propria "missione essenziale", il compito che dà senso a una vita. Attraverso una rivalutazione del pensiero dei cinici viene sottolineata sia l'importanza di un radicale ritorno all'elementarità dell'esistenza sia lo "scandalo della vita vera": al tempo stesso provocazione pubblica e pratica filosofica, che comporta un accoglimento dell'essenzialità delle cose.
Mobilità, flussi e accelerazione sono elementi essenzialmente urbani e moderni. È inevitabile che le avanguardie e il progresso, le mode e le nuove tendenze muovano dal vissuto urbano, siano da esso irradiate e con esso in qualche modo coincidano. Dietro la crescente e diffusa omologazione dei linguaggi e oltre l'universalizzazione delle mode e dei mercati, la diseguaglianza delle condizioni di vita progredisce in maniera evidente e preoccupante. L'urbano è un teatro particolarmente esposto ai sommovimenti diversificanti che imprimono solchi di disparità nel campo della socialità globale. Più volte negli ultimi decenni le Chiese si sono interrogate sul ruolo che intendono assumere di fronte alle trasformazioni territoriali e sociali delle grandi città. L'urbanizzazione non è un processo che inizia sulla soglia o ai bordi delle chiese, ma fluisce in tutti gli ambiti della vita cristiana. Una pastorale urbana credibile e incisiva non offre semplicemente servizi e non si esaurisce nell'itineranza o nell'uscita. Come «l'essere nel mondo» è per i cristiani un gesto costitutivo, così «l'essere nella città» è un radicamento credibile nel terreno della prossimità a Dio e agli uomini.
L'idea di Dio sembra essere scomparsa dall'orizzonte di noi occidentali, sempre più ossessionati da miti effimeri e ormai disposti a vendere al miglior offerente persino la nostra libertà. La sua assenza ci ha lasciati orfani di una guida in grado di orientare l'esistenza verso il bene e la giustizia, e per questo diventa necessario riflettere oggi sulla questione del divino. Ma quale Dio? Come possiamo ancora immaginarlo? E quale destino gli è riservato? Nelle pagine ambiziose di questo libro, Vito Mancuso conduce il lettore in un viaggio tra le problematiche raffigurazioni della divinità che nei secoli hanno accompagnato la nostra storia. E con coraggio ci sfida a liberarci dall'immagine tradizionale del Padre onnipotente assiso nell'alto dei cieli che ci viene ancora offerta da una Chiesa cattolica che sembra aver modificato il suo linguaggio ma non la sua rigida dottrina. Si riscopre così il valore di una divinità completamente partecipe nel processo umano, capace di comprendere i principi dell'impersonale e del femminile. Come ha scritto Agostino: "Sebbene non possa esistere alcunché senza Dio, nulla coincide con lui". Soltanto in questa consapevolezza risiede la possibilità di salvare dall'estinzione la spiritualità e la fede, e di far risorgere quella speranza e quella fiducia nella vita senza le quali non può esserci futuro per nessuna civiltà.
Questo libro nasce da una domanda cui né la religione né la filosofia hanno mai saputo trovare una risposta convincente: se la vita viene da Dio, a chi o a che cosa si può ricondurre la malattia che si manifesta in un bambino mentre ancora si trova nel grembo materno? In altre parole: se l'esistenza è un dono di Dio, perché alcuni bambini nascono così - così gravati da un handicap, così fragili, così inermi di fronte a un destino già segnato dalla sofferenza? «Negli occhi dei teologi e degli uomini di Chiesa ai quali rivolgevo questa domanda», scrive l'autore, «scorgevo imbarazzo e paura, la medesima inquietante miscela che sentivo muoversi dentro di me.» Avvertendo il peso insostenibile di questo silenzio, Vito Mancuso decide di guardare dritto in faccia il bene e il male della vita e, con la ferma speranza in una giustizia più alta che dia ragione del meraviglioso e drammatico processo che ci mette al mondo, traccia un cammino spirituale inedito, riformulando in modo inatteso e rivoluzionario la ragione e il senso del nostro essere umani.
Chi ha detto che il segreto della felicità è il successo? Queste pagine liberatorie dimostrano il contrario: non c'è storia di vera crescita che non sia stata costruita attraverso errori, sconfitte, delusioni. Tutti conosciamo la parabola di Steve Jobs, licenziato in un primo momento dall'azienda che poi egli stesso trasformò in un colosso, ma anche grandi uomini politici come Lincoln e De Gaulle, artisti come Ray Charles, scrittori come J.K. Rowling e campioni come Rafa Nadal sono diventati sé stessi accettando la sconfitta. Charles Pépin racconta con estro di narratore storie di cadute e risurrezioni, e per farlo ci guida alla scoperta del pensiero di san Paolo, Nietzsche, Freud e Sartre. Il suo messaggio è profondo: per diventare quelli che siamo ed esprimere il nostro potenziale dobbiamo accettare l'esperienza del rischio e non limitarci a scegliere tra alternative note e rassicuranti. Ma soprattutto ci riguarda come cittadini e genitori, chiama in causa il nostro modo di lavorare e di stare con gli altri, e ci apre gli occhi sulla ricchezza delle opportunità e delle scoperte che la varietà del mondo ci può offrire.
Questa introduzione fornisce gli elementi-chiave per comprendere l'estetica e i compiti che essa si propone. Pur organizzati intorno a una serie di nozioni centrali per lo studio della disciplina, i diversi capitoli non trascurano di affrontare tutte le maggiori correnti dell'estetica - estetica filosofica classica, estetica come storia dell'arte, estetica analitica contemporanea né di evocare l'apporto degli autori classici, da Platone a Goodman, passando per Kant e Hegel. In modo innovativo l'autore sceglie inoltre di riferirsi, nella misura del possibile, a tutte le arti e non solo a quelle tradizionalmente privilegiate come poesia e pittura.
La moderna riflessione filosofica sul tragico presuppone una presa di distanza dal suo oggetto specifico: la tragedia. Si può anzi dire che la cultura moderna ha elaborato il «tragico» come idea filosofica, mentre all’epoca antica e premoderna si deve l’elaborazione della «tragedia» come forma letteraria, canonizzatasi ben presto in un genere. Sulla base di questa distinzione fondamentale, gli autori propongono una ricostruzione storico-concettuale che, muovendo dal decisivo contributo nietzschiano, rilegge sia il tragico premoderno sia la vicenda della «filosofia del tragico» vera e propria, dai suoi esordi in età idealistica fino ai più recenti sviluppi novecenteschi.
Carlo Gentili è professore ordinario di Estetica nell’Università di Bologna. Fa parte del consiglio scientifico delle Nietzsche-Studien e della Nietzsche Gesellschaft. Per il Mulino ha pubblicato «Nietzsche» (2001). Gianluca Garelli è ricercatore confermato e docente di Storia dell’estetica nell’Università di Firenze. Per il Mulino ha pubblicato «Storia dell’estetica moderna e contemporanea» (2003) e «Lineamenti di storia dell’estetica» (2008), entrambi con F. Vercellone e A. Bertinetto.
E’ il peccato di Lucifero invidioso dell’uomo, quello di Caino verso Abele, quello di Jago nei confronti di Otello, ma anche quello di Grimilde verso Biancaneve. Se è vero che ogni vizio comporta piacere, ciò non vale per l’invidia, veleno dell’anima che genera tormento e sofferenza: si soffre di fronte al bene e alla felicità altrui, vissuti come diminuzione del proprio essere e segno del proprio fallimento. L’invidia nasce sempre dal confronto. Perché lui/lei sì e io no?, ci si chiede dirigendo sull’altro uno sguardo maligno. Una domanda che deve restare segreta, perché rivela la nostra inferiorità. Dall’antichità alle società moderne e democratiche, dove l’invidia trova la sua humus ideale, dalla fiaba sino alle veline dei nostri giorni, l’autrice racconta le metamorfosi di questa passione "triste", ma non priva di violenza, quando si trasforma in risentimento che inquina le relazioni, depotenzia l’Io, paralizza le energie.
Elena Pulcini insegna Filosofia sociale nell’Università di Firenze. Tra le sue pubblicazioni "Amour-passion e amore coniugale" (Marsilio, 1990), nonché, edite da Bollati Boringhieri: "L’individuo senza passioni"( II ed.(2002), "Il potere di unire" (2003), "La cura del mondo" (2009).
La coscienza è la parte più evanescente dell'essere umano e il cuore della vita interiore di ciascuno. Nel tempo, la filosofia e la religione cristiana hanno creato un deposito di idee sulla coscienza che ha finito con il formare il senso comune occidentale sui tratti più caratteristici della nostra specie. Oggi la scienza della mente promette di rendere conto di tale fenomeno alla luce delle nuove conoscenze, in un quadro sperimentale e coerente con le scienze naturali. Interpellando insieme la riflessione filosofica e la scienza contemporanea, l'autore ci mostra che la coscienza è un fenomeno genuino, introspettivamente saldo e fondato nella costituzione del nostro corpo. La coscienza non è un mistero, né qualcosa di sacro, ma una facoltà naturale, che condividiamo con altre specie animali e che forse in futuro potremo osservare nei robot.
Pietro Perconti insegna Filosofia della mente nell'Università di Messina. Fra i suoi libri, "Leggere le menti" (Bruno Mondadori, 2003), "E-mail filosofiche. Di grandi idee e problemi quotidiani" (con S. Morini, Cortina, 2006) e "L'autocoscienza. Cosa è, come funziona, a cosa serve" (Laterza, 2008). Per il Mulino ha curato anche "Le scienze cognitive del linguaggio" (con A. Pennisi, 2006).
L'autore ripercorre la storia millenaria del concetto di "Uguaglianza", una storia che si svolge tra luminose speranze e contraddizioni cocenti. Nel mondo antico l'uguaglianza è limitata dalla differenza gerarchica, fino al paradosso di Atene, culla della democrazia europea e, insieme, luogo di schiavitù. Più tardi, proprio dall'uguaglianza la cultura cristiano-medievale muove nei termini di una fratellanza universale, salvo ricavarne la necessità della subordinazione dell'uomo nella vita terrena. E ancora la filosofia politica moderna costruisce lo Stato partendo dall'assioma di un'uguaglianza naturale tra gli individui, che però nella realtà si trova a fare i conti con coppie dialettiche quali cittadino straniero, proprietario-proletario, padrone-schiavo, uomo-donna. Infine, l'oggi: un tempo incerto, caratterizzato dai fenomeni globali che sfidano l'uguaglianza sul terreno della sua contraddittoria universalità.
Heidegger ha sempre concepito il suo pensiero come un vero e proprio destino, presentando i problemi filosofici come strutture fondamentali dell'esistenza umana e insieme interpretando le soluzioni date a quei problemi nel corso della tradizione occidentale come eventi epocali nella storia dell'essere. Questo libro, pensato come una nuova e completa introduzione all'opera heideggeriana - dalla sua genesi alla fine degli anni Dieci sino agli ultimi esiti agli inizi dei Settanta -, mostra che in realtà tale "destino" è dipeso da scelte precise compiute dal filosofo e invita ad attraversare ancora una volta una riflessione senza la quale non si potrebbe capire a fondo la sfida del nostro tempo.