
Nelle sue pagine, Arendt intende offrire un volto alternativo della condizione ebraica nella modernità, attraverso le figure di Heinrich Heine, Bernard Lazare, Charlie Chaplin e Franz Kafka. Esse costituiscono, in maniera paradigmatica, la "tradizione nascosta" di quegli ebrei che avrebbero preferito restare degli emarginati, degli Aussenseiter, o, per riprendere la categoria di Max Weber che offre il titolo al saggio, dei paria - più o meno consapevoli - piuttosto che diventare dei "nuovi ricchi" integrati e conformi ai dettami della società, ovverosia dei parvenus. Paria e parvenus rappresentano, nella teorizzazione proposta da Arendt, due poli contrapposti e sovente confliggenti dell'emancipazione e dell'assimilazione ebraica - reperibili, nella fattispecie, nella storia dello Stato prussiano, e nel suo concedere (e quindi sottrarre) diritti "umani" all'ebreo, a patto che questi rinunci al proprio ebraismo. Rifiutando una simile offerta, il paria vive una libertà irriverente e paradossale. Essenzialmente "fuori luogo", posto ai margini della società, egli non accetta di abiurare e di rendersi così indistinguibile dalla medesima, testimoniando in tal modo la propria insuperabile alterità ebraica.
Nel semplice incontro di un uomo con l’altro uomo si gioca, secondo Lévinas, l’essenziale, l’assoluto: nella manifestazione, nell’“epifania” del volto dell’altro scopro che il mondo è mio nella misura in cui lo posso condividere con l’altro. E l’assoluto si gioca nella prossimità, alla portata del mio sguardo, alla portata di un gesto di complicità o di aggressività, di accoglienza o di rifiuto.
Qual è l'importanza del gesto di trasmettere nella vita umana? Questo atto profondo si esplicita in varie situazioni: filiazione, iniziazione, educazione... Ma trasmettere non significa solo educare o insegnare; è qualcos'altro: è passare l'essenza dell'esistenza, come si passa una palla da rugby, come si condivide una ricetta per cucinare. La trasmissione diventa lo spazio vitale di un incontro al di là di culture e generazioni, un'esperienza che apre alla conoscenza di se stessi e degli altri. Un libro brillante e profondo sull'eredità, necessaria ma a volte terribilmente ingombrante oppure assente, un libro che è anche testimonianza intima sulla connessione tra generazioni, famiglie e comunità.
Occorre comprendere e fondare la dignità della persona umana, cogliendone lo spessore metafisico e la ricchezza fenomenologico-esistenziale. La dignità della persona non è solo un'onoreficenza di cui fregiarsi, poiché implica il compito di realizzare con libertà e consapevolezza un'esistenza autenticamente umana. L'autorealizzazione che ogni uomo deve perseguire non è una faccenda privata, ma richiede la presa di coscienza che la propria esistenza è costitutivamente in relazione con gli altri.
Le tesi filosofiche sostenute da Karl Popper sono state da lui stesso etichettate con la formula realismo critico ed esposte come "completamento del criticismo kantiano". Popper, inoltre, si è presentato anche come il teorico del fallibilismo. Il fallibilismo, ha scritto, "non è nient'altro che il non-sapere socratico". Infine, egli ha affermato di essere "sempre stato un filosofo del senso comune". I meriti del senso comune, secondo Popper, sono molteplici. Infatti, ad esempio, ha privilegiato il realismo, l'indeterminismo e la teoria e la teoria della verità come corrispondenza. "Il senso comune egli scrive - è in tutte le situazioni problematiche il consigliere più valido e più affidabile. Esso però non è sempre affidabile; e qualora si affrontino problemi di teoria della conoscenza è allora della massima importanza fronteggiarlo in modo seriamente critico". In breve, secondo Popper, la scienza e la filosofia hanno il loro punto di partenza nel senso comune e lo strumento di progresso è la critica. È la critica che consente, in ultima analisi, di passare dai pregiudizi del senso comune ai giudizi della filosofia e della scienza. Il punto di arrivo, dunque, è un senso comune più raffinato, più sofisticato.
L'interesse scientifico per le questioni sociali o politiche, scrive Popper, è "di pochissimo posteriore a quello per la fisica. Vi furono anzi periodi dell'antichità (penso alla teoria politica di Platone e alla raccolta delle Costituzioni di Aristotele) nei quali la scienza della società poteva sembrare più progredita della scienza della natura". Tuttavia, mentre le scienze della natura si sono sviluppate negli ultimi secoli con grande rapidità, la stessa cosa non può dirsi delle scienze sociali. E tale ritardo va attribuito, tra l'altro, al fatto che tra gli studiosi non c'è un accordo unanime sullo statuto epistemologico della sociologia e sui compiti che sono propri di questa disciplina. La tesi di fondo di Popper è che le scienze naturali e quelle sociali seguono lo stesso metodo. Tutte partono da problemi e avanzano sul sentiero delle congetture e delle critiche. Inoltre, il compito della sociologia non è, a detta di Popper, quello di predire direzioni o tendenze dello sviluppo sociale o, se si preferisce, di profetizzare gli sviluppi storici e politici, ma, più modestamente, di studiare le conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali.
Tutti gli uomini, secondo Karl R. Popper, sono dei filosofi. Tutti hanno se non dei giudizi almeno dei pregiudizi filosofici. Tuttavia a questa fame di filosofia non sempre i filosofi accademici hanno dato risposte adeguate. Essi, infatti, si sono ammalati di specialismo e di scolasticismo, hanno peccato di immodestia e di oscurità. Nelle opere di Popper sono contenuti giudizi severi nei confronti di molti filosofi del Novecento e anche dei secoli precedenti. Da Platone a Marx, da Hegel a Wittgenstein, da Eraclito ai francofortesi, da La Mettrie a Fichte. Ma ci si imbatte pure in dichiarazioni di sostanziale consonanza con le tesi di un nutrito gruppo di filosofi, per lo più dei secoli passati: da Senofane a Locke, da Antistene a Montaigne, da Hume a Kant, da Erasmo e Peirce, da Epicuro e Lucrezio a Russel. Nel presente volume sono raccolti alcuni saggi popperiani che aiutano a ricostruire, in modo sufficientemente dettagliato, il panorama delle sue amicizie e delle sue inimicizie nel campo della filosofia. Da queste pagine Popper si presenta come un indeterminista, un realista, un empirista, un razionalista critico e, quindi, come un filosofo che non ama esistenzialisti, e marxisti, nichilisti e relativisti, fenomenologi e idealisti, deterministi e utopisti, scientismi e storicismi, statalisti e filosofi del linguaggio.

