
A partire dagli anni sessanta del XX secolo abbiamo assistito, con la comparsa della problematiche legate alla complessità – in fisica, biologia e progressivamente in tutte le discipline – che si sono affiancate a quelle già presenti relative alla logica e ai fondamenti della matematica, all’emergere, dall’interno delle discipline scientifiche, dei loro teoremi, leggi e formulazioni, di questioni che un tempo erano riservate alla filosofia della natura e alla metafisica. Così, gradualmente, la “Filosofia della scienza” si è venuta a trasformare in una “Filosofia nella scienza”. Questo libro intende esporre sommariamente i passaggi salienti di questo percorso.
Alberto Strumia è dottore in Fisica e in Teologia fondamentale, è stato ordinario di Fisica-matematica all’Università di Bari ed è docente di Filosofia della natura, Filosofia della scienza e Logica alla Facoltà teologica dell’Emilia Romagna. Si occupa di logica formale e di teoria dei fondamenti.
Il titolo di questo libro riflette il modo sintetico e netto con cui abitualmente si distingue l’impostazione dell’etica classica, fondata sulla virtù, dall’impostazione dell’etica moderna, fondata sull’obbligo e sul dovere. Il contenuto però punta a dimostrare che questa distinzione va superata in quanto fondata su una comprensione non sufficientemente accurata della filosofia morale classica, in particolare dell’etica di Aristotele, e di quella moderna. E in questo tentativo l’autore va a minare le fondamenta stesse su cui poggia buona parte dell’attuale Virtue Ethics, con la chiara pretesa di contrastare non solo la posizione di Prichard, ma anche quella, a suo parere ancora più inesatta, della Anscombe. L’autore non si limita a realizzare un mero esercizio di analisi e dissezione di testi, antichi o moderni, fine a se stesso, ma vuole rispondere alla domanda che – malgrado Prichard – ritiene non solo ragionevole ma ineludibile per ogni filosofo etico e per ogni uomo: perché dovrei comportarmi in un determinato modo? Perché dovrei perseguire il bene? Si tratta dunque di trovare una risposta alla questione del dovere morale. Tale risposta Irwin pensa di trovarla, almeno in nuce, nell’etica aristotelica che, pur sottolineando l’importanza della virtù, non può essere ritenuta una Virtue Ethics così come alcuni oggi la intendono, ovvero fondata soltanto sulla ricerca di una felicità e di un bene esclusivamente attraenti; per Irwin, infatti, anche nell’etica aristotelica è presente il dovere ancorato a ragioni esterne, a imperativi non solo ipotetici ma categorici, detto in termini kantiani. Se questa interpretazione dell’etica aristotelica è esatta, allora la pretesa distinzione tra l’impostazione etica classica, aristotelica, e quella moderna va riveduta, perché l’etica classica può puntare sulla virtù in quanto ha il sostegno di un bene fondato su ragioni esterne al desiderio del soggetto, senza bisogno però di una legge e di un legislatore.
Il lavoro è un tema che appare sempre più attrarre gli studi filosofici. In particolare, emerge oggi la tendenza a non valutare il lavoro solo dal punto di vista del risultato e in termini di efficienza. Vi alludono già un insospettato F. Nietzsche (Così parlò Zaratustra), per il quale il lavoro può divenire un agire perfettivo (praxis teleia, in Aristotele) un bene e un fine, e non solo mezzo: «cercasi lavoro per un salario: in ciò tutti gli uomini sono uguali; per tutti il lavoro è mezzo e non fine in sé [...]. Esistono però uomini rari che preferiscono morire, piuttosto che mettersi a fare un lavoro senza piacere di lavorare: sono quegli uomini dai gusti difficili, di non facile contentatura, ai quali un buon guadagno non serve a nulla, se il lavoro stesso non è il guadagno dei guadagni». A Nietzsche si aggiunge Ch. Péguy (Il denaro): «un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice ad un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta [...]. Non occorreva fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone, ma essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura [...]. Un assoluto, un onore, esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva doveva essere lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano». È chiaro però che il fine in sé non è tanto il lavoro, in quanto ben fatto, ma il retto amore verso sé stessi, quando ci si mette in gioco, nel lavoro ben fatto al servizio degli altri. Il lavoro è formativo della persona. In occasione del 500º anniversario della Riforma protestante, il Convegno The Heart of Work (Roma, 19-20 ottobre 2017), organizzato dalla Facoltà di Teologia della Pontificia Università della Santa Croce e dal centro di ricerca Markets, Culture and Ethics, ha cercato di approfondire l'idea cristiana del lavoro professionale. Con gli scritti raccolti in questo secondo volume degli Atti del Convegno The Heart of Work si vuole offrire un contributo filosofico allo sviluppo di un'anima del lavoro professionale. In vari contributi del volume emerge la figura di san Josemaría Escrivá (1902-1975), che ha indicato nella santificazione del lavoro il cardine della santità nella vita quotidiana. Emerge la presenza della stessa theoria, nell'esercizio del lavoro, che già Aristotele preconizza, quando include la tekne tra le virtù intellettuali (dianoetiche): la possibilità di ideare e contemplare il progetto dell'opera, prima ancora della sua realizzazione. La "contemplazione" nel lavoro si può poi sviluppare ed estendere in diversi ambiti, ivi quello religioso.
Il lavoro è un aspetto costante nella vita di ogni uomo. Fonte di soddisfazione e di gioia per alcuni, di fatica per tutti. Milioni di persone ogni giorno sono affannosamente alla ricerca di lavoro. Molti, però, lo considerano soltanto uno strumento per ottenere altri beni. Spesso, il lavoro in sé non è percepito come un bene fondamentale per lo sviluppo della persona e della società.
In un discorso del 2008 al Collège de Bernardins, Benedetto XVI ha mostrato che nella tradizione cristiana si può trovare la chiave per comprendere il vero senso del lavoro. Uomini e donne sono chiamati a partecipare all’opera creatrice di Dio mediante il lavoro, assumendo il compito di perfezionare la creazione, guidati dalla sapienza e dall’amore. Lo stesso Figlio di Dio fatto uomo ha lavorato per lunghi anni a Nazareth. «Ha santificato il lavoro e gli ha conferito un peculiare valore per la nostra maturazione» (Papa Francesco, Laudato si’, 98).
In occasione del 500º anniversario della Riforma protestante, il Convegno The Heart of Work (Roma, 19-20 ottobre 2017), organizzato dalla Facoltà di Teologia della Pontificia Università della Santa Croce e dal centro di ricerca Markets, Culture and Ethics, ha cercato di approfondire l’idea cristiana del lavoro professionale. La teologia cattolica recente, d’accordo con i riformatori del XVI secolo, riconosce il lavoro professionale come vocazione dell’uomo, ma lo considera anche come un cammino per la crescita della santità del cristiano (Gaudium et spes, 34) e lo propone ai laici come mezzo di santificazione (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2427).
Con gli scritti raccolti in questo I volume degli Atti del Convegno The Heart of Work si vuole offrire un contributo allo sviluppo di un’anima del lavoro professionale: una spiritualità del lavoro inteso come attività che perfeziona l’uomo, cooperando alla sua felicità e al progresso della società, e che diventa per il cristiano luogo e materia di santificazione e di compimento della missione della Chiesa nel mondo.
Prospettive sul lavoro. Percorsi interdisciplinari è una raccolta di studi che si concentrano su un aspetto trasversale della storia, della cultura e dell’esistenza di ciascun uomo: il lavoro nella sua inesauribilità di significato e mutamento che incide sulla quotidianità e sulle trasformazioni epocali.
Esistenza e Persona riporta degli articoli su argomenti come trascendenza, libertà, amore, amicizia, religiosità, che l’Autrice ha approfondito seguendo la traccia dell’essere. Proprio da qui è nato il confronto tra i principali filosofi contemporanei presi in considerazione: Martin Heidegger e, d’ispirazione tomista, Cornelio Fabro e Carlos Cardona.
L’essere è, infatti, il punto di riferimento ulteriore dell’“esistente” heideggeriano — il Dasein — e della “persona” nella tradizione metafisica tomista.
L’ineludibile confronto viene tematizzato già nel primo capitolo, che delinea l’itinerario speculativo di Heidegger; i due successivi capitoli, s’incentrano sul gran tema della libertà. Il quarto mette in luce il silenzio heideggeriano sull’amicizia. Su questa base si sviluppa l’analisi critica presente nei capitoli cinque e sei. Infine, nell’ultimo capitolo si tratteggiano alcuni suggerimenti che mirano al superamento di uno dei componenti più caratteristici della cultura odierna: il nichilismo.
Cristina Reyes (Cile) è Laureata in Psicologia presso l’Università del Cile (Santiago del Cile) ed è Professore Incaricato di Metafisica presso la Facoltà di Filosofia della Pontificia Università della Santa Croce (Roma).
Questo libro offre una presentazione della filosofia della conoscenza e del cosmo del filosofo spagnolo Leonardo Polo. La sua tematica è l'individuazione del "limite" concettuale della nostra mente e il tentativo di trascenderlo attraverso il pensiero filosofico. Le scienze riducono le cose fisiche a oggetti intelligibili capaci di offrire una certa idea della realtà e trovano una particolare applicazione nel dominio tecnologico della natura. La metafisica del mondo fisico cerca invece d'immergersi nella sua struttura profonda, rinunciando però al suo possesso concettuale, per poter così scoprirne i principi ontologici e aprire la strada alla contemplazione dell'essere materiale nella vastità del cosmo. La proposta di Polo continua in qualche modo il progetto aristotelico della Fisica, alienandolo però dal dominio oggettivante. Questa operazione implica un radicale cambiamento della nostra mentalità, se si desidera comprendere la realtà corporea così come è, e non come viene elaborata dai nostri schemi mentali. Si profila così un mondo oscuro per noi, nel suo continuo alternarsi tra processi e arresti formali. È un mondo sostenuto da un pulsare cosmico perenne che, nei suoi livelli più alti, come la vita, s'illumina e si ordina in un modo progressivo, senza giungere a una culminazione definitiva. Soltanto in questo quadro è possibile compiere il salto oltre il limite, un salto che consente di avvertire l'essere del cosmo come un perenne incominciare persistente che ne rivela la condizione creata. Il lettore che vorrà inoltrarsi in questa lettura forse sarà sorpreso dalla novità di questa proposta filosofica. Ma potrà anche essere molto stimolato a cercare di capire il senso dell'universo al di là di quanto presentano la conoscenza ordinaria e le spiegazioni scientifiche.
Quest'opera, che rientra nell'ambito dei Cultural Studies, si sofferma su un aspetto che le teorie della narrazione spesso trascurano, ovvero il rapporto tra poetica, prassi e teoria. Il mondo della finzione è, perciò, analizzato sia nella sua costruzione poetica, sia nel suo influsso sul pubblico e sui lettori e sia nella sua apertura alla trascendenza. Il punto di collegamento fra poetica e trascendenza si trova, secondo l'autore, nel concetto di verosimiglianza, ovvero nella verità, bellezza e bontà che operano nella finzione. Essa ammette, quindi, diversi livelli di profondità: quella logica, indicata da Aristotele, che permette di introdursi nei mondi immaginari; quella metafisica della rappresentazione dell'esistenza umana; e quella gnoseologica in cui c'è il riconoscimento e il piacere estetico derivanti dalla scoperta della propria vita attraverso le vicende dei personaggi di finzione. Attraverso l'analisi di diverse opere letterarie e cinematografiche, l'autore mostra come la trascendenza sia l'autentica protagonista della finzione, mentre la riduzione postmoderna della bellezza narrativa a una sensibilità e a un'affettività autoreferenziali mostra tutta la sua contraddizione. Oltre alla sua apertura al vero, al bello e al bene, la trascendenza della finzione ha a che fare con la philia: la quasi-amicizia che si stabilisce fra l'autore/lettore e i personaggi letterari, e che porta la finzione a oltrepassare se stessa, al di là della stessa intenzione dell'autore e dell'opera. Non si tratta soltanto di una sorta di transfert emotivo con i personaggi, né di una fusione di orizzonti in grado di dare luogo a una mimesis educativa e catartica. È qualcosa di più. Qualcosa che può essere propriamente descritto come "amore", e che è alla base dell'influsso della finzione sulle nostre vite. È proprio in questo accostamento fra poetica narrativa e amicizia che si trova il contributo fondamentale di quest'opera.
Fenomenologia ed ermeneutica, filosofie del senso, sono in difficoltà a trattare la questione della forza, elemento chiave emerso in particolare dalla "scuola del sospetto" (K. Marx, S. Freud, F. Nietzsche). La filosofia riflessiva di Paul Ricoeur ha tentato di farlo, anche se questo non è il motivo prevalente del suo lungo ed articolato percorso di pensiero. I saggi qui raccolti, che si collegano tra di loro sul filo di questo importante e non molto indagato rapporto, si occupano pure di alcune altre rilevanti e in qualche modo collegate questioni: il simbolo e il soggetto, il potere e il riconoscimento, il delitto e la pena. La peculiarità del pensiero di Ricoeur appare, poi, ben più delineata se colta in dialogo con quella di altri grandi filosofi e pensatori (E. Levinas, C. Taylor, R. Girard, J. Derrida). L'atto di lettura teorizzato da Ricoeur è così in grado di guidarci anche nei punti estremi e nevralgici del religioso, del tragico e dello spirito.
"Tradimento dei chierici", si diceva nel recente passato a proposito delle simpatie degli intellettuali per totalitarismi e ideologie. Ma qual è il profilo dell'intellettuale ai nostri giorni, quale ruolo gli può essere assegnato dal pensiero? Nell'epoca del tramonto degli ideali, nell'impossibilità di consacrarsi a una causa, egli deve destreggiarsi tra le pressioni dell'industria culturale, superando le insidie dell'apparato del consumo e dello spettacolo. Oggi più che mai l'intellettuale è chiamato a salvaguardare quella condizione di finitudine in cui è custodito il compito e la missione del pensiero. "Oggi è ancora possibile pensare, finché vi saranno circostanze, finché l'immanenza non l'avrà vinta; finisca la storia, resti la circostanza: il pensare potrà ancora pensare tutt'altro". Presentazione di Massimo Marassi.
Da sempre gli uomini hanno camminato con i piedi a terra e la testa per aria, nella nostalgia di altre terre. L'Utopia non scomparirà prima che scompaia l'uomo. La sfida di prevedere il futuro, anche attraverso le Utopie e gli immaginari, continua ad appassionarci, come testimoniano la letteratura, il cinema, l'arte. I toni variano dai «paradisi terrestri», alle cupe distopie, alle visioni di paleofuturo, fino agli Stati di polizia, tutti irrealizzabili ma che non scompariranno mai. Il pensiero utopico ha iniziato con la storia dell'uomo e, senza di esso, l'uomo vivrebbe ancora nelle caverne. Affrontare il tema dell'Utopia significa quindi ripercorrere la storia dei sogni e dei successi anche dell'uomo moderno, oltre che delle sue illusioni e dei suoi fallimenti nell'immaginare il cambiamento dell'esistente e nel raggiungere nuovi mondi.
L’educazione è relazione tra persone che tentano di trarre fuori il vero Sé dell’altro, la parte più autentica, la zona intima, il cuore del talento affettivo e attitudinale. Questo libro restituisce al loro più autentico significato le parole legate al processo educativo e applicabili a qualsiasi altro ambito relazionale. Educare è scegliere di vivere nel profondo, guardando gli altri non con un buonismo sentimentalista o con rigore accademico, ma per voler andare oltre e imbattersi nella «grande bellezza» di ciascuno di noi.
E' ancora possibile una filosofia della bellezza nell'epoca del bello artificiale, del selfie e dell'esposizione ostentata sui social media? Che posto e che ruolo ha la bellezza oggi in un mondo digitale, efficientista, ordinato secondo la dittatura delle emozioni immediate? L'autore indaga queste e altre domande fondamentali parlando del bello artistico anzitutto come negazione, ferita, promessa, attesa, nascondimento, indicibilità: il bello evoca infatti il silenzio, lo sguardo e l'ascolto. Una filosofia della bellezza oggi è dunque un tentativo di resistenza, un momento dialettico che apre varchi, spezza catene, genera alternative in quanto elemento di rottura e di rivolta. Essa si nutre della testimonianza viva di artisti come Pasolini, Magritte, Fontana, Rothko, Pollock e De Chirico. In quanto tensione infinita verso il possibile, una filosofia della bellezza si presenta pertanto come una filosofia della speranza, l'intrapresa di un viaggio pieno di mistero, l'incontro con un avvenimento imprevisto e imprevedibile.

