
Canale Mussolini è l'asse portante su cui si regge la bonifica delle Paludi Pontine. I suoi argini sono scanditi da eucalypti immensi che assorbono l'acqua e prosciugano i campi, alle sue cascatelle i ragazzini fanno il bagno e aironi bianchissimi trovano rifugio. Su questa terra nuova di zecca, bonificata dai progetti ambiziosi del Duce e punteggiata di città appena fondate, vengono fatte insediare migliaia di persone arrivate dal Nord. Un vero e proprio esodo. Contadini emiliani, veneti e friulani lasciano le proprie terre, dove non rimaneva altro che stare a "puzzarsi di fame" e diventano i primi attori del nuovo sogno italico di grandezza. A migrare sono famiglie intere, con nonne che sanno guidare un carretto e governare le bestie, uomini forti come tori, donne spavalde che alle feste della mietitura ballano e ridono con tutti i maschi, truppe di bambini di ogni età. Sono i "cispadani" scesi dal Nord, e i "marocchini" del Lazio li guardano con sospetto, spiano le loro abitudini disinvolte, le loro donne in gonne corte e sgargianti, allegre.
Tra queste migliaia di coloni ci sono i Peruzzi, gli eroi di questa saga straordinaria. A farli scendere dalle pianure padane sono il carisma e il coraggio di zio Pericle, che dentro il Fascio conta qualcosa perché ha meriti di audacia e valore, ma che dal Fascio non si fa dettare ordini. Con lui scendono i vecchi genitori, tutti i fratelli, le nuore. E poi la nonna, dolce ma inflessibile nello stabilire le regole di casa cui i figli obbediscono senza fiatare. Il vanitoso Adelchi, più adatto a comandare che a lavorare, il cocco di mamma. Iseo e Temistocle, Treves e Turati, fratelli legati da un affetto profondo fatto di poche parole e gesti assoluti, promesse dette a voce strozzata sui campi di lavoro o nelle trincee sanguinanti della guerra. E una schiera di sorelle, a volte buone e compassionevoli, a volte perfide e velenose come serpenti.
E poi c'è lei, l'Armida, la moglie di Pericle, la più bella, andata in sposa al più valoroso. La più generosa, capace di amare senza riserve e senza paura anche il più tragico degli amori. La più strana, una strega forse, sempre circondata dalle sue api che le parlano e in volo sibilano ammonimenti e preveggenze che, come i sogni oscuri della nonna, non basteranno a salvarla dalla sorte che l'aspetta. E Paride, il nipote prediletto, buono e giusto, ma destinato, come l'eroe di cui porta il nome, a essere causa della sfortuna che colpirà i Peruzzi e li travolgerà.
Un poema grandioso che, con il respiro delle grandi narrazioni, intreccia le vicende drammatiche e sorprendenti dei suoi protagonisti a quelle, non meno travagliate, di mezzo secolo di storia italiana. Antonio Pennacchi rievoca il passato controverso e insieme epico della nazione, animando ricordi e fantasmi con uno sguardo sempre lucido, ironico e spiazzante, ma soprattutto carico di pietas e profonda commozione per i propri personaggi, per quelle tre generazioni di Peruzzi che combattono con glorioso accanimento contro le sferzate del destino che sembra non concedergli tregua. Un'autentica epopea, un grande romanzo italiano.
Quando Joachim, un economista di trent'anni con buone prospettive di carriera e dalla vita sentimentale travagliata, la salva da uno scippo e le restituisce la borsa ricamata di perline, l'anziana signora con la veletta bianca lo ringrazia solo con un cenno del capo. Poi però per sdebitarsi lo invita a prendere un tè e lui accetta di buon grado. La grande villa che lo attende al numero 12 della Kastanienallee ha visto tempi migliori: l'intonaco si sfalda, le persiane stanno su per miracolo, l'arredamento, ridotto all'essenziale, non può nascondere i segni dell'usura. La padrona di casa, Josefine K., però non intende assolutamente rinunciare a un certo decoro: all'epoca del nazismo è stata una cantante lirica molto famosa e ancora oggi è una grande dame piena di verve, che vive e pensa fuori dagli schemi, arrogante, sempre pronta a giudicare il prossimo, a mettere in discussione antiche certezze, a esprimere opinioni che si esiterebbe a definire politicamente corrette. Affascinato non da ultimo dal suo passato e dall'alone di mistero che la avvolge, per otto mesi Joachim passerà quasi ogni martedì pomeriggio in quel vetusto salotto discutendo - e molto spesso litigando - degli argomenti più disparati: dal femminismo alla recentissima riunificazione tedesca, dal Terzo Mondo all'Olocausto, dai difetti della democrazia alla deprecabile moda del fitness; ne nasce - temperato dal rispetto, dalla discrezione e dalla differenza di età - un sentimento di vicinanza che consente al giovane di penetrare i tanti segreti della sua interlocutrice e di registrarli meticolosamente in un diario.
«Ecco, intanto che scrivevo I malcontenti mi è venuto da pensare che io stavo cercando di raccontare la storia della relazione tra due quasi trentenni che provano a entrare, come si dice, nel mondo, e che questo tentativo, che ha a che fare con un festival strampalato, viene raccontato da uno che abita sotto di loro, uno che di questo tentativo vede in un certo senso solo i riflessi, i raggi che partono da quell'appartamento e arrivano fino a lui in forma di suoni, confessioni, reticenze e richieste d'aiuto.
E m'è tornata in mente la scena centrale di un film di Lubitsch, che è una scena in cui il protagonista maschile, innamorato di una donna misteriosamente scomparsa, invitato a pranzo da un amico, scopre che la moglie del suo amico è la donna di cui lui è innamorato. Questo pranzo viene raccontato da Lubitsch senza riprendere i protagonisti né la sala da pranzo: viene raccontato dalla cucina, in modo perfettamente esaustivo, attraverso i commenti di cuoco, cameriere e maggiordomo sullo stato in cui tornano indietro le varie pietanze, e lo spettatore ha l'impressione di essere davanti a un triplo salto mortale molto ben eseguito.
Ecco, intanto che scrivevo I malcontenti mi è venuto da pensare che la relazione tra Nina e Giovanni, a esser capaci, bisognava raccontarla come quel pranzo di Lubitsch.
Il mondo in cui si muovono Nina, Giovanni e gli altri personaggi che ci son nel romanzo è un mondo stranissimo, un mondo nel quale il compito di chi ha meno di quarantacinque anni non è di contribuire a un perfezionamento del mondo stesso, né (ci mancherebbe) a un ribaltamento o a un qualsivoglia cambiamento di rotta.
In questo mondo, quello che da venticinque anni si chiede a chi a questo mondo si affaccia, è di mettersi lì e di non rompere troppo i maroni.
E loro, bravissimi, si mettono lì e non rompono troppo i maroni».
La storia di un amore che frana raccontata da un vicino di casa.
La storia di una generazione viva e irrisolta.
La storia di un festival meraviglioso e impossibile: il festival dei Malcontenti.
«Si ricordava che era occupato a pensare a una cosa alla quale non aveva mai pensato, che camminare con una finestra sottobraccio ti toglie tutto l'imbarazzo che uno ha di solito nel camminare. È come se tu avessi una guida, - diceva Giovanni, - avendo una finestra sottobraccio, è come se il tuo andare avesse un senso».
"Della mia supponenza, senz’altro criticabilissima,chiedo scusa a chi di dovere, ma, nello scrivere questo libro, mi si è rivelato più congeniale tornare a confondere, in una comune identità, la Maddalena, protagonista della scena che andavo contemplando, e la peccatrice di cui racconta Luca.
Questo, per la ragione, anche piuttosto banale, che una prostituta – donna spudorata e infame quasi per statuto - mi è parsa tanto più capace di parlare d'amore quanto meno lo possiede. E di amare in profondità molto più di quanto non le sia dato di esprimere gratuitamente in superficie. Una prostituta, per farla breve, mi è parso che potesse evangelizzare l’amore quando e quanto più esso è lontano e non è trovato. Lei è la donna aperta a tutte le relazioni che mette a guadagno patrimoni di malessere, ingiustizie, violenza, ma anche compassione. È la donna che si presta a tutti gli incontri e si gioca in tutti i compromessi: è la mondana, la donna del mondo per antonomasia."
Dall’introduzione dell’autrice
GLI AUTORI
Rosetta Stella si è dedicata allo studio del pensiero della differenza sessuale incrociato alle forme della spiritualità cristiana. Già collaboratrice del quotidiano "L'Unità" per la pagina delle religioni, collabora attualmente a "Il Manifesto" e a diverse riviste tra cui "Noidonne", "Bailamme", "Liberal", "Religiosi in Italia", "Prospettiva Persona". E' stata dirigente nazionale dell'UDI (Unione Donne Italiane) e docente presso il centro culturale Virginia Woolf di Roma. Ha contribuito alla fondazione della rivista “Via Dogana” della Libreria delle donne di Milano.
Per Marietti ha ideato e curato nel 2000 il volume Sul Magnificat, che raccoglie il commento di autori diversi ad ogni singola riga del Magnificat.
Malalai era ancora tra le braccia della mamma quando i russi hanno invaso l’Afghanistan. E aveva solo quattro anni quando la sua famiglia si è rifugiata in Pakistan. Poi sono venuti la guerra civile negli anni Novanta, la presa del potere dei talebani, la “guerra al terrore” degli americani. Oggi che è una giovane donna, Malalai Joya non ha conosciuto un solo giorno di pace in vita sua. Forse per questo, perché nel suo paese ha visto alternarsi gli oppressori mentre restava identica la più brutale violenza, ha deciso da subito che avrebbe lottato per la propria libertà e per la libertà negata delle donne afgane.
Quando, dopo il crollo del regime talebano, Malalai ha la possibilità di entrare a far parte dei delegati della Loya Jirga, il gran consiglio afgano che dovrebbe governare il nuovo corso, si ritrova in realtà seduta a fianco degli aguzzini di sempre. Lo sgomento non dura che un attimo. Poi Malalai decide, consapevole che ci sono scelte che segnano una vita per sempre. Decide di non piegarsi alla legge del silenzio. Osa dare voce a chi non ha voce. Si alza. Chiede la parola. E proprio lei, una donna, dice le verità che nessuno aveva mai detto. In aula scoppia il putiferio. «Infedele», gridano le lunghe barbe. «Prostituta». Solo l’intervento di altre delegate evita il peggio.
Dal giorno del suo intervento, Malalai è oggetto di continue minacce di morte e di continui tentativi di attentati. Ormai vive una vita blindata, cambia casa ogni giorno, è costretta a girare con il burqa, proprio lei che lo combatte da sempre. E il giorno del suo matrimonio ha dovuto controllare in ogni mazzo di fiori che non ci fossero bombe.
Però la sua battaglia non si ferma, niente può far tacere la sua voce, che rivela le verità più scomode e taciute, i silenzi sulle connivenze internazionali, la natura fondamentalista del regime Karzai, in cui si intensifica la presenza di trafficanti di armi, di droga, di violatori dei diritti umani.
La sua storia e quella tormentata del suo paese si intrecciano.
Dopo le cupe meditazioni sulla mortalità e la fine in Everyman e Il fantasma esce di scena, e l'amara ironia di uno sguardo retrospettivo sulla giovinezza in Indignazione, Roth aggiunge un altro inquietante tassello all'opera dei suoi ultimi anni.
Tutto è finito per Simon Axler, il protagonista del nuovo conturbante libro di Philip Roth. Simon, uno dei più grandi attori teatrali della sua generazione, ha superato i sessant'anni e ha perso la sua magia, il suo talento e la sua sicurezza. Quando sale sul palcoscenico si sente un pazzo e si vede un idiota. La sua fiducia nelle proprie capacità è evaporata; s'immagina che la gente rida di lui; non riesce più a fingere di essere qualcun altro. «È scomparso qualcosa di fondamentale». La moglie se n'è andata, il pubblico l'ha abbandonato, il suo agente non sa come convincerlo a tornare in scena.
In questo atroce resoconto di un'inspiegabile e terrificante autodistruzione, emerge il contraltare di un insolito desiderio erotico, certo una consolazione in quella vita spogliata di tutto, ma tanto rischiosa e aberrante da frustrare ogni speranza di conforto e gratificazione per puntare dritto verso un finale ancora più cupo e rovinoso. In questo lungo viaggio verso la notte, raccontato da Roth con l'inimitabile urgenza, bravura e serietà di sempre, tutti i mezzi che usiamo per convincerci della nostra solidità, tutte le rappresentazioni che nella vita diamo di noi stessi - talento, amore, sesso, speranza, energia, reputazione - vengono messi a nudo.
La Germania secondo Fabrizia Ramondino ovvero diario di un “viaggio esteriore e interiore”, scandito dal ritmo di una meditazione poetica: nelle pagine di questo taccuino, l’autrice narra di sé e della sua lunga frequentazione delle “terre tedesche”, ricostruendo, dal dopoguerra sino a oggi, l’instabile profilo di un Paese segnato dai traumi e dalle crisi ripetute del Novecento. Immagini di città – Heidelberg, Francoforte, Monaco, Wuppertal, Weimar, Berlino – si intrecciano a riflessioni sulla Storia e sulla cultura tedesca, sollecitando via via, accanto alla memoria del passato, un tentativo di decifrare gli scenari del presente scaturiti dalla svolta del 1989. Ne deriva un singolare itinerario attraverso lo spazio e il tempo, che è insieme un bilancio di vita e di scrittura: l’esperienza del viaggio coinvolge di rimando la nozione delle origini e il rapporto con Napoli, “città balia” piú che “madre”, oggetto di un amore difficile e radice di un senso irrimediabilmente precario dello star di casa e nel mondo. Accompagnano il testo tre lettere inedite di Gesualdo Bufalino, Anna Maria Ortese e Karsten Witte riferite alla prima versione del Taccuino tedesco (La Tartaruga, 1987).
Matilde ha dodici anni. Non sopporta i guanti spaiati e compie piccoli, bizzarri rituali per addomesticare la realtà, per darle un ordine.
È un dicembre torinese, pieno di neve e di ombre. Pochi giorni prima di Natale, il padre di Matilde, il magistrato Giovanni Corrias, è chiamato a indagare sul caso di un bambino morto in circostanze misteriose. Mentre avvia i primi accertamenti e formula le prime ipotesi sua moglie viene investita da un’auto, ed è come se la sorte disegnasse una sua geometrica contemporaneità. Al colpo durissimo il magistrato risponde facendo leva sul senso del dovere e della professione, aggrappandosi alle indagini in corso. Violaine, una giovane poliziotta laureata in psicologia, lo aiuta a ricostruire la sequenza dei fatti.
Matilde, intanto, osserva gli adulti e il loro dibattersi alle prese con la fragilità dell’esistenza. Con ostinata tenerezza si domanda in che maniera curare il dolore del padre e delle sorelle, nella convinzione che spetti a lei tentare di aggiustare quello che si è improvvisamente rotto, e alla geometria oscura della morte se ne sovrappone un’altra, luminosa e impalpabile.
Marco ha fatto carriera in una multinazionale, organizza le sue giornate secondo le esigenze del lavoro, gira l’Europa e non ha nessuna intimità con se stesso. Suo fratello Domenico è fermo a Porto San Giorgio, dove gestisce un negozio di infissi, e cerca tenerezza in una relazione con una giovane donna. I loro incontri non sono facili, ciascuno coglie nell’altro l’immagine distorta di sé, un’ipotesi mancata della propria esistenza.
Ma all’improvviso la morte spariglia le carte. Nell’atmosfera provinciale di Porto San Giorgio, Marco conquista attraverso il dolore un nuovo sguardo, è preda di una malia che lo attira verso il piccolo mondo del fratello, fino a scoprire che le loro anime sono più vicine di quanto pensasse. Da quella cittadina di mare, distante dal suo universo di soldi e potere, anche le leggi del capitalismo, anche l’incombere della crisi finanziaria, gli appaiono in una luce più chiara.
È solo un’illusione prospettica? C’è davvero la possibilità di cambiare, di vivere una vita più libera?
Il corpo esangue di Emin Kemal, celebre scrittore turco, giace a terra cadavere nel suo appartamento. Sul petto un libro: una raccolta di racconti di René Kunheim, dedicati dall’autore alla moglie dello stesso Kemal. René è uno scrittore frustrato ma di grande talento e soprattutto il traduttore di tutti i libri in spagnolo dell’autore turco. Il ritrovamento, che svela inequivocabilmente la tresca che lo legava alla moglie, sembra incastrarlo.
A ritroso, Luis Leante ricostruisce abilmente l’intrigo e racconta la storia di Emin Kemal e René Kunheim, tra Alicante, Monaco e Istanbul, in un continuo gioco di specchi, incastri, collegamenti e coincidenze che potrebbero sembrare incredibili se non fossero magistralmente raccontati. La vita dell’autore turco e quella suo traduttore sono il bianco e il nero di una stessa fotografia, due esistenze legate da una sola donna, sposa e amante: Derya.
In breve
“Di fronte a montagne pericolanti, a precipizi ignoti, sopra lo spazio abbagliante del ghiacciaio, Annetta era un nulla, figurina labile disegnata a margine di un foglio. Insignificante vita nascosta nella distanza da quel mondo che solo poche ore prima l’aveva applaudita. Eppure, lo sapeva, ce l’avrebbe fatta. Bastava partire, senza pensarci.” La vera storia dell’aeronauta Giuseppe Charbonnet e della sua giovane sposa che il giorno del loro matrimonio spiccarono il volo a bordo di un aerostato. Un viaggio che fu un’odissea, tra tempeste e manovre azzardate, e un rovinoso atterraggio su una montagna sconosciuta.
Il libro
Torino, domenica 8 ottobre 1893. È il giorno della vita per Anna Demichelis, diciott’anni, bellissima, di umili origini. Si sposa con l’“ammiraglio dell’aria” Giuseppe Charbonnet, grande appassionato di aerostatica che ha promesso a tutta la cittadinanza uno spettacolo sensazionale: dopo la cerimonia spiccherà il volo con la moglie a bordo dell’aerostato Stella. Al grido di “Viva gli sposi aeronauti!”, il pallone si alza, diventa sempre più piccolo fino a sparire nel cielo. Sarà un’odissea, tra tempeste, manovre azzardate, un rovinoso atterraggio su una montagna che nessuno conosce. E poi la discesa lungo ghiacciai inondati di sole e minati da invisibili crepacci. Finché – qualcuno sostiene – interverrà una mano celeste a indicare la via. Il filo di questa storia vera, che occupò le cronache dei giornali per settimane, oggi si unisce con quello lasciato dall’autore durante le ricerche nei luoghi più remoti delle Alpi Graie, dove si svolsero i fatti e si condensò il mistero finale.
Ne esce un intreccio narrativo fulgido, sorprendente. Il romanzo di chi la montagna l’ha vissuta, scalata e raccontata.
Il protagonista è immobile, sembra privo di coscienza, è inerte, ma questo è un romanzo pieno di vita, quella che sta per nascere, quella che agita i pensieri di chi sembra non poter pensare... "L'uomo immobile" è una storia d'amore ai confini tra la vita e la morte, ma anche una riflessione su un tema di controversa e scottante attualità. L'autrice si è ispirata a un fatto vero raccontatole da un primario neurologo, direttore scientifico di un istituto che accoglie pazienti in stato vegetativo. Dieci anni fa diventò un breve racconto, sviluppato e approfondito ora in questo romanzo che è anche una inaspettata fonte di conoscenza su un tema così attuale. Un libro che riesce a coniugare le emozioni con le informazioni, alcune forse sorprendenti, ma tutte verificabili: i rimandi scientifici che si possono trovare in queste pagine sono stati vagliati da esperti clinici del settore, che hanno considerato qualche imperfezione nel "protocollo ospedaliero" ininfluente per l'attendibilità del percorso clinico, tanto da approvare e affiancare con convinzione le tesi che l'autrice interseca nella più classica storia d'amore fra lui, lei e l'altra...