
Questo volume raccoglie tutti i romanzi della «più grande scrittrice d’avanguardia del Novecento europeo»: dalle prime prove ancora influenzate dalle forme del romanzo storico d’impianto ottocentesco, fino alle opere della maturità, il lettore può seguire l’evoluzione di una personalità, di uno stile e di un pensiero inconfondibili. Parallelamente e insieme all’imporsi dell’indagine nell’interiorità del personaggio, si fa strada nella narratrice inglese la conquista stilistica del “monologo interiore”, del “flusso di coscienza”, mentre il superamento dell’esteriorità dei modelli tradizionali di scrittura si accompagna alla precoce e dolorosa presa di coscienza della necessità di combattere il ruolo subalterno delle donne. Raggiungendo nelle sue pagine migliori la profondità di Proust e Joyce, la Woolf è oggi uno dei capisaldi della letteratura mondiale e la massima rappresentante della scrittura al femminile.
"Lo storico non ha il diritto di interrompere il racconto nel punto culminante di interesse. Avevo il dovere assoluto di proseguirlo, e di descrivere, per lo meno, ciò che il resto dell’esercito pensò di quell’atto prettamente anticostituzionale compiuto dalla Guardia di Palazzo; e ciò che ne pensò dal canto suo il Senato."
Claudio è un uomo affabile, un uomo mite, è uno studioso la cui vita cambia improvvisamente e inaspettatamente quando viene acclamato imperatore dai pretoriani. Circondato ma non travolto dagli intrighi di corte, dalle passioni, dai tradimenti che falcidiano sia la sua famiglia sia i suoi avversari, riuscendo quasi involontariamente a rimanere a margine delle lotte di potere, Claudio giunge a passo regolare e misurato verso l’apice del successo. Ma la sua vita, sino a ora e da ora in poi, non è una vita facile, non è neppure felice, né tantomento gloriosa: è la vita di un riformatore prudente, calunniato e temuto come tiranno capriccioso e sanguinario. Attorno a lui si muovono le ambizioni sfrenate delle "sue". donne, come Messalina, sua giovanissima e sfrenatamente ambiziosa moglie, o Agrippina, che, forse, fu responsabile della sua morte prematura.
Il 27 giugno 1970 i due fratelli altoatesini Reinhold e Günther Messner realizzano la prima salita della parete Rupal del Nanga Parbat, la parete di roccia e ghiaccio che con i suoi 4500 metri di altezza è la più imponente della Terra. Ma la discesa lungo l’altro versante, sconosciuto, che finisce nella valle Diamir, ha un epilogo tragico: la morte di Günther, travolto da una slavina. Il capo spedizione si adopera affinché vengano taciute le circostanze reali in cui si è verificata la catastrofe. Il resoconto di Reinhold Messner sulla drammatica odissea, concepito come una sceneggiatura, viene vietato, poiché il capo spedizione aveva fatto firmare a tutti i partecipanti un documento in cui si impegnavano a non pubblicare nulla sulla spedizione. Il titolo era Die rote Rakete (Il razzo rosso), proprio come l’ingannevole segnale luminoso che avrebbe dovuto segnalare ai fratelli Messner l’evoluzione prevista delle condizioni meteorologice.
Per decenni Reinhold Messner è stato vittima di campagne denigratorie, viene accusato di aver sacrificato il fratello minore in nome della sua ambizione personale, accuse che incredibilmente non si placano nemmeno nel momento in cui il Nanga Parbat restituisce i resti mortali di Günther dove Messner aveva detto che dovevano essere, e la versione di Reinhold Messner viene confermata in sede giudiziaria. Oggi, a quarant’anni dall’eroica e tragica impresa, Razzo rosso sul Nanga Parbat vede finalmente la luce, con una nuova prefazione dell’autore e splendide fotografie.
Un giovane inquieto, che conquista i cuori di chi lo incontra, ma che è incapace di sottostare alle catene dell’amore e vive costantemente in fuga dagli altri e da se stesso, percorrendo il mondo come un vagabondo senza pace e senza affetti; un maestro, logorato dalla vita e da un lavoro ingrato, che in una notte di tempesta ritrova la donna che non aveva saputo amare da giovane e non può dirle nemmeno una parola; un ufficiale postale che non sa decifrare l’affetto che nutre per lui la piccola orfanella affidatagli: sono tanti i protagonisti di queste storie che s’intrecciano lungo il corso del Gange.
Ma più ancora degli uomini, spesso soli, a volte meschini e altre sfuggenti, sono le donne le vere protagoniste di quest’India povera e forse ormai scomparsa, che nessuno come Rabindranath Tagore ha saputo così efficacemente raccontare: donne che tradiscono, ma anche che sacrificano tutto sull’altare dell’amore, donne ferite e che vorrebbero ferire, donne rifiutate e donne capaci di intuire il senso dei movimenti impercettibili del cuore. Un universo femminile misterioso e affascinante come l’India, ancora immersa in una tradizione all’apparenza immortale, e invece così fragile nei riti e nei valori, già sull’orlo di una modernità che la travolgerà e ne muterà drammaticamente i connotati.
Radindranath Tagore nasce a Jorasanko (Calcutta) il 6 maggio 1861 da una famiglia dell’alta aristocrazia del Bengala. A diciassette anni compie il suo primo viaggio in Europa: va in Inghilterra a studiare legge e letteratura e vi resta un anno e mezzo. Quando torna si fa conoscere come poeta, pubblicando due raccolte di versi: I canti della sera e I canti del mattino, di forte impronta romantica, che gli valgono l’appellativo di «Shelley del Bengala». Nel 1883 sposa la giovanissima Mrinalini Debi, con la quale un anno dopo si ritira a Ghazipur dove si dedica a nuovi drammi e saggi letterari. Nel 1890 è di nuovo in Europa: visita l’Italia, la Francia e ancora l’Inghilterra. Al suo ritorno s’impegna nell’attività politica con il movimento nazionale del Bengala, e poi soprattutto in quella educativa, fondando una scuola sperimentale a Santiniketan. Il campo dei suoi interessi è vastissimo: è musicista (scrive lui stesso la musica delle sue poesie), pensatore, drammaturgo, narratore (più avanti negli anni si avvicinerà anche alla pittura). Gli anni tra il 1907 e il 1913 sono decisivi per Tagore, anche per la sua notorietà internazionale. Lavora alle poesie che comporranno la raccolta Gitanjali (1912, Canti d’offerta) e che, tradotte in inglese – Tagore pur scrivendo in bengali traduce quasi tutta la sua produzione – gli varranno il Premio Nobel nel 1913. Nel 1915 incontra per la prima volta Gandhi col quale, nonostante le divergenze politiche, stringe un’amicizia profonda e duratura. Il suo impegno culturale e pedagogico, frattanto, s’intensifica: nel 1921 fonda l’università internazionale di Vishva Bharati e, spinto dall’esigenza di un incontro tra cultura orientale e occidentale, intraprende viaggi in tutto il mondo. Negli ultimi anni della sua vita, colpito da una grave malattia, si ritira a Santiniketan, dove si dedica totalmente all’attività letteraria. La produzione di questo periodo è vastissima, e comprende, oltre a numerose raccolte poetiche, drammi, novelle, riflessioni, aforismi e saggi di critica letteraria. Si spegne nella sua casa natale di Jorasanko il 7 agosto 1941.
"C'è voluto un inverno per riordinare questi quaderni di appunti, così come scorrono, rivivendoli in un calendario, gli impegni e i problemi rimandati e non risolti dell'anno passato. Gli appunti si inseguono senza alcuna pretesa sistematica, ma, nonostante possano talvolta apparire tra loro slegati, rimandano in negativo, come una radiografia l'immagine del corpo, l'immagine dell'esistenza umana: fanno vedere tutto ciò che non si vede mai, ma che quotidianamente, invisibilmente, inconsciamente, ci portiamo appresso svegli o nel sonno". Così l'autore presenta gli appunti raccolti in questo libro che, partendo da uno spunto di attualità, da una ricorrenza liturgica, da un ricordo, da un sogno sollevano domande e suggeriscono risposte ai grandi temi del dolore, dell'amore, della solitudine, della gioia. Un avvincente romanzo di parole e di pensieri. Il diario in pubblico di un inconfondibile scrittore.
Ogni viaggiatore fugge segretamente dall'angoscia di essere colui che attraversa il mondo senza conoscere nessun luogo. Ogni viaggiatore lo sa. I luoghi sono profondi. Se non ne conosci le storie, le parole e le cose, le storie annidate dentro le cose e le parole, stai solo calpestando un suolo.
La Riviera che trovi in queste pagine è un viaggio più nel tempo che nello spazio. Dalle sue profondità arrivano fino a te che leggi Portofino, dall'epoca di Landless John a quella di Rita Hayworth, e Bordighera, Rapallo, dai giorni di Ezra Pound a quelli di Marcello Mastroianni, e la Genova dei Doria e dei marinai senza nome, Camogli, i caruggi e Portovenere, i leudi, che possono arrivare fino a Buenos Aires, i gozzi che scintillano - gialli, celesti, bianchi, verdemare - al sole, le case, le finestre e i capitani, che abbandonavano la paura appena levate le ancore e che sapevano uscire da ogni mare. E la buridda di pesce, il vermentino, il macramé, il camallo e il bacàn, parole e cose che nel tempo non hanno esitato ad attraversare l'oceano per suonare differenti eppure uguali anche agli antipodi.
Accanto a cose, luoghi e parole ti trovi dentro alla storia del Saraceno, che viveva con i figli e i soldati in una torre a picco sul mare, a quella della bellissima polena naufraga al largo delle Azzorre, o a quella del Cristo miracoloso di Varazze. Ciò che ti porta su questa via lungo l'acqua, luogo circoscritto e a un tempo universale, non è mai nostalgia, non è in alcun modo un dolore del ritorno, ma al contrario la ricerca di un senso essenziale dell'esistere che l'autore insegue nelle storie del mondo sul filo di una scrittura avventurosa ed esatta. Sette milioni di anni fa, racconta Giorgio Ficara, migrando dall'Africa sul fondo di un Mediterraneo ancora senz'acqua, sono arrivati sul monte di Portofino i convolvoli rosa che ora ci sembrano così nostri. Come dire, se sei di queste parti, trovi te stesso solo se ti riconosci fatto di lontananze.
«A sedici anni, nei versi di Majakovskij, lessi una storia che mi segnò per sempre. La ditta Van Houten, che produceva dell'eccellente cacao, ebbe una trovata macabra e geniale: comprare l'ultimo desiderio di un condannato a morte per pubblicizzare la sua polvere scura. L'uomo davanti alla folla curiosa avrebbe dovuto gridare come ultimo desiderio lo slogan: Bevete cacao Van Houten! In compenso, la sua famiglia avrebbe ricevuto una somma di denaro sufficiente a vivere con tranquillità almeno per un paio d'anni.
L'uomo gridò. La mia anima di sedicenne anche».
Quando si nasce nella «prigione chiamata Albania», esistono solo due modi di orientare lo sguardo. C¿è quello del pittore Petraq, che cammina chino sull¿asfalto e sembra rimpicciolire ogni giorno di più: è lo sguardo basso della colpa, di chi si vergogna della propria vecchiaia, ma anche della propria bellezza, o di un marito che ha troppa voglia di fare l¿amore. E poi ci sono gli occhi puntati dritti verso formidabili orizzonti: è lo sguardo di Gazi che attraversa l¿Adriatico e sogna di portare la sua musica in Italia, in Francia, negli Stati Uniti. Sono gli occhi di Teuta mentre stropiccia il foglietto su cui è segnato l¿indirizzo che dovrebbe accoglierla a Roma, quelli di Sabrina inghiottita dal mare, e di Lumturi che si nutre delle pagine di Proust e Stendhal.
Complice un tempo che sembra eterno, l¿Albania smette di essere prigione per diventare limbo, uno stato transitorio nel quale si sopravvive coltivando «promesse d¿altrove», fino al giorno in cui si parte davvero. Ed eccolo, finalmente, «il paese dei miracoli», un luogo in cui la bellezza femminile non è più dannazione ma fortuna, il pesce non ha le lische e le scatole di tè racchiudono prodigi mai sentiti.
Ma l¿autrice di questi quattordici racconti, che ha lasciato Tirana a ventidue anni e ha scelto di scrivere in italiano, di sguardo ne ha inventato un altro: obliquo, che gioca a ribaltare le ovvietà della lingua e dell¿esistenza.
Coniugando crudeltà e tenerezza, Ornela Vorpsi riesce a ritrarre quell¿essere meraviglioso e fragile che è l¿umano, capace di vendersi al prezzo di un sogno, persino nel momento del respiro ultimo. Una scrittura spietata e intrisa di ironia, animata da una lingua unica, ricca di potenza simbolica, che fa dell¿assenza di radici la sua forza e trasforma lo spaesamento in strumento di conoscenza.
J. M. Coetzee è morto. Un giovane accademico inglese decide di scrivere la biografia del premio Nobel sudafricano: si soffermerà in particolare sulla prima metà degli anni Settanta quando lo scrittore, appena tornato dagli Stati Uniti e ancora ben lontano dalla fama letteraria, viveva al limite dell'indigenza insieme al padre in una modesta villetta. Per farlo, intervista alcune persone che lo conobbero - tra cui due donne che ebbero una relazione con lui - e che gli furono vicine durante quei difficili anni di apprendistato alla vita. Perché, sebbene abbia più di trent'anni, John Coetzee appare un uomo inadatto alla vita adulta, bloccato nella condizione di figlio, incapace di mantenere una relazione con le donne, un solitario chiuso in se stesso, un amante freddo e maldestro («uno stoccafisso»), un insegnante controvoglia, uno scrittore tutt'altro che talentuoso («non aveva una sensibilità speciale, almeno che io potessi individuare, nessuna intuizione originale sulla condizione umana»). Ma la caratteristica che più di tutte emerge dai racconti dei testimoni è la profonda sfiducia che il futuro autore di Aspettando i barbari sembra nutrire verso il linguaggio e la capacità degli uomini di comunicare - e di conoscere se stessi - attraverso le parole.
Per queste sue «memorie d'oltretomba», terzo momento (dopo Infanzia e Gioventù) dell'affresco autobiografico delle Scene di vita di provincia, Coetzee scompagina le carte: non solo perché immagina la propria morte e ne affida il racconto a testimoni forse non così affidabili (veramente Coetzee era scapolo in quegli anni? Veramente la madre era morta?), ma perché spinge fino al punto di non ritorno le categorie stesse di autobiografia e finzione, di identità e realismo.
«E se fossimo tutti fabbricatori di storie, come lei dice di Coetzee? E se tutti continuamente inventassimo la storia della nostra vita?» Solo il romanzo - è la scelta di Coetzee -, con le sue ambiguità e le sue infinite complicazioni, resiste alla tentazione di dare risposte facili a domande complesse.
New England, intorno alla metà del XIX secolo. Cattolico tra i protestanti, orfano accolto appena nato nel convento di Saint Anthony, a undici anni Ren è ancora in attesa di qualcuno che lo adotti, risparmiandogli così l'arruolamento forzato nell'esercito. Ma come sperarci, con quella sua diversità tanto lampante? Ren, in compenso, ha già scoperto di possedere un innegabile talento: quello per il furto. Quando il misterioso Benjamin Nab, sedicente ex soldato e avventuriero dal sorriso irresistibile, viene a reclamarlo sostenendo di essere suo fratello, per Ren avrà inizio una serie di peripezie travolgenti in cui mettere a frutto il suo «dono». Benjamin, in compagnia di Tom, maestro in disgrazia e alcolizzato, lo coinvolgerà in una sfilza di affari loschi infarciti di tonici miracolosi, esibizioni pietose per abbindolare i gonzi, fino ad arrivare all'esumazione di cadaveri da rivendere agli ospedali per le autopsie. Sarà proprio in una di queste sortite che Ren farà amicizia con il gigantesco e «frankesteiniano» Dolly, assassino letteralmente risorto dalla tomba. E il ragazzo avrà bisogno di tutti loro per andare incontro al suo destino, nella città ferita di North Umbrage, sotto l'ombra dell'enorme e tetra ciminiera della fabbrica di trappole per topi del temibile contrabbandiere McGinty e dei suoi scagnozzi in cappello e guanti rossi.
Con una ricostruzione storica vivida e puntuale senza mai essere invasiva, tra echi di Dickens, Mark Twain e Stevenson, la storia di Ren ci porta alla scoperta di un mondo marginale e picaresco, dove ciascun individuo ha una storia inattesa alle spalle e dove un «piccolo ladrone» può davvero aver modo di dimostrare tutto il suo buon cuore. In un alternarsi di episodi commoventi e situazioni esilaranti, Ren andrà alla ricerca della famiglia che ha sempre desiderato e scoprirà - oltre alle storie edificanti delle Vite dei santi e alle avventure del Cacciatore di cervi - nei momenti in cui lui e Benjamin avranno bisogno di trarsi d'impaccio, il potere inarrestabile e il fascino irresistibile di una storia raccontata bene.
«Oscuro e trascinante... Nel Buon ladro il lettore trova un romanzo ricco di virtù tradizionali: struttura solida, estrema lucidità, un impeto viscerale e una totale assenza di manierismi stilistici. Hannah Tinti ambienta in America un racconto dickensiano con tratti di humour e fantasia alla Harry Potter, e un tocco macabro d'inquietante storia del New England».
The New York Times
«Davvero un bel libro... Ti fa ricordare perché ti sei innamorato della lettura tanto tempo fa... L'immaginazione fervida della Tinti... ci fa riscoprire la nostra. È un dono da tenere caro...».
Boston Globe
A Bombay, Pinky, tredici anni, vive con la nonna Maji, che l’ha adottata dopo la morte della madre, e la sua famiglia. Nonostante l’amore della nonna, Pinky non riesce a superare un senso di emarginazione. Però ama quella casa con il giardino tropicale, i suoi alberi di mango, il profumo di sandalo e di cumino fritto. E poi c’è Nimish, il bel ragazzo da cui vorrebbe ricevere le stesse attenzioni che gli uomini dedicano alle donne.
Ma quando, una notte, Pinky sorprende Nimish con la sua migliore amica, la sensazione di solitudine si fa ancora più esasperata. Pinky piange nel silenzio della casa, mentre strani tintinnii e fruscii d’acqua la raggiungono da dietro una porta. Una porta misteriosa, che Maji spranga ogni sera per riaprirla al mattino, vietando ai bambini anche solo di toccarla. Pinky non ha mai saputo che cosa ci fosse là dentro e ora il desiderio di trasgredire al divieto le sembra l’unico modo per trovare sollievo. In fondo, che altro potrebbe accaderle di peggio? Invece il peggio è proprio dietro quella porta. Perché Pinky, tirando quel chiavistello, libera un fantasma imprigionato da tredici anni. Lo spirito di una neonata uccisa, che prende a ossessionarla, insieme a tutti gli altri della casa, scardinando l’apparente pace della famiglia con la stessa violenza di un monsone. Nessun rituale potrà fermare la forza della verità, e non ci sarà altra strada per Maji che accettare il passato per allontanare gli spiriti, ombre esterne dei fantasmi che vivono in lei.
«Sono una donna bambina. Una donna segnata da un’infanzia e un’adolescenza trascorse in istituti per orfani. Io che orfana non sono. Nel chiuso di quelle stanze, mi è stata rubata la bellezza dei primi anni, la meraviglia della crescita, lo stupore per il mondo. E ho avuto in cambio dolore, umiliazione, ignoranza. Della famiglia, degli uomini, dei sentimenti, della vita.
Per questo, quando la porta di quelle stanze si è spalancata, ho dovuto imparare ogni cosa, mentre gli altri sapevano già. E ho scontato la mia inferiorità con enormi sofferenze. Marchiando la mia carne con le dure lezioni che il destino voleva impartirmi.
Un mattino di maggio, il giorno successivo ai miei diciotto anni, vengo espulsa dall’istituto. Buttata in mezzo a una strada, letteralmente. È una legge atroce che nessuno mi aveva mai comunicato. La suora apre la porta senza dire una parola, e senza dire una parola la richiude.
Mi ritrovo sola su una panchina, senza un soldo, senza una destinazione possibile. Tutti i miei averi sono un diario, un libro di scuola e gli abiti che porto addosso. Con quelli inizierò a percorrere la mia strada, senza sapere quale sia, senza sapere nemmeno se c’è per me, da qualche parte, una strada. Non so nulla, neppure il significato delle cose più naturali della vita. Le imparerò tutte sulla mia pelle».
Una catena di efferati delitti si snoda a Coyoacán, un quartiere di Città del Messico. Dopo una misteriosa strage familiare, nella chiesa del Gesù viene profanata la tomba di Hernán Cortés, e le ossa del celebre conquistador scompaiono nel nulla. Segue, a breve distanza, l’assassinio del parroco, pugnalato e privato del cuore secondo il barbaro rituale dei sacrifici umani praticati dagli Aztechi. La scia di sangue si allunga e sembra scorrere intorno a un documento d’inestimabile valore che testimonierebbe la storicità dell’apparizione della Madonna di Guadalupe, avversata dalla potente loggia segreta dei “guadalupes”. Sulle tracce dell’assassino si muove, anticipando la polizia, un bizzarro studioso spagnolo, il señor Mendieta. Lo affiancano Carmen Villalba, una simpatica libraia, e Dolores Miranda, un’attraente ricercatrice dell’Università. Con una vertiginosa accelerazione, passato e presente finiranno per saldarsi nella soluzione dell’enigma legato al “codice Juan Diego”..

