
Nel monastero di Santa Radegonda, nella Milano del 1736, vive una ragazza dallo straordinario talento musicale. Il suo nome è Paola Pietra, una giovane contessa in clausura per imposizione dell’illustre famiglia. La voce di contralto, scura e potente, è la sua unica ragione di vita; ma la passione per la musica rappresenta una minaccia per la badessa del convento. Oltre la grata, nel corso delle messe cantate, un diplomatico inglese in missione presso l’arciduca d’Austria nota la sua voce e non la dimentica. Nasce così, da una suggestione del canto, da profumi e immagini rubati, l’amore proibito fra la novizia e sir John Breval, a cui farà seguito la fuga dal convento e un lungo viaggio in terre straniere e in un mare pieno di insidie...
Romanzo d’amore, romanzo d’avventura, romanzo storico (e Marta Morazzoni, come scrive Pietro Citati, «possiede il dono naturale di una narratrice storica»), La nota segreta si dipana fra intrighi diplomatici e colpi di scena. Al centro, un personaggio femminile di sorprendente attualità, che rivendica il proprio diritto a vivere e amare contro ogni imposizione.
In breve
Niente canne, né spleen, né amori perduti nel crudo Nordest.
Ci sono milioni di italiani a cui questo paese piace esattamente così com’è. Sono piccoli imprenditori che hanno fatto fortuna prima della crisi, oggi alle prese con crediti in sofferenza e fatture difficili da scontare. Sono famiglie totalmente assorbite dall’impegno di mandare avanti il lavoro, l’attività, abituate a giudicare severamente il conflitto e la divagazione. Persone che credono nel denaro e nella possibilità del successo per chiunque sia disposto a sacrificarsi. Sono giovani precarie che scrutano nelle vetrine scarpe e vestiti dai prezzi esorbitanti, del tutto fuori portata per loro, oppure ragionieri quarantenni di formazione cattolica e simpatie leghiste. Sono donne animate da un’allegria costante, trascinante, un po’ robotica. Sono gli abitanti delle ville fortificate sparse ovunque nella Pianura Padana. Romolo Bugaro entra nelle loro menti e nelle loro case e racconta il vero corpo di un’Italia satura di presente e felice di esserlo.
Indice
1. Che ci faccio in questo posto? - 2. Via San Fermo - 3. Bea vita! - 4. Non proprio organici all’ordine generale delle cose - 5. Ancora via San Fermo - 6. Duemilacentoquaranta euro per quattordici mensilità - 7. La tara dei non-insediati - 8. Congedo
Ho conosciuto tanti ragazzi come Kang Zhengguo quando, negli anni Cinquanta e Sessanta, studiavo all’Università di Pechino. Non hanno scritto la loro storia come ha fatto Zhengguo, ma tutte le storie degli studenti cinesi di quegli anni per molti versi si assomigliano, per il fatto di essersi svolte sotto il segno delle varie campagne di critica o di educazione di massa che si sono succedute come ondate fino al punto di far perdere la testa, di ridurre al silenzio i testimoni, di creare alla fine una connivenza tra carnefici e vittime. E questa connivenza ancora è di ostacolo oggi, in Cina, al libero fluire della narrazione di quegli anni che non furono, come qualcuno sostiene, ‘grandi e terribili’ ma soltanto terribili. Renata Pisu
Questo è il miglior racconto di vita quotidiana durante la Cina comunista che io abbia mai letto. Perry Link, Princeton University
«Un giorno, all’inizio dell’estate del 1949, la balia impacchettò tutti i suoi gioielli in un fagotto di stoffa grezza di colore blu, mi prese per mano e fuggimmo insieme dalla Porta Dongguo di Xi’an. Molto più tardi appresi che era il giorno della liberazione di Xi’an». Il primo ricordo di Kang Zhengguo coincide con il trionfo di Mao e del Partito Comunista Cinese. Per lui, figlio di un proprietario terriero e nipote di un industriale diventato monaco buddista, crescere e studiare nel nuovo paese guidato dal Grande Condottiero non sarà uno scherzo. Mentre la Cina si sforza di compiere il ‘Grande balzo in avanti’, tra industrializzazione forzata e carestie devastanti, Zhengguo si appassiona ai romanzi cavallereschi e alla poesia epica classica. Una passione che gli costa cara, vista con sospetto da compagni e insegnanti che lo tacciano di elemento individualista e reazionario. Espulso e bollato come criminale, Zhengguo comincerà il suo ‘cammino di rieducazione’ che lo porterà ad attraversare la Cina in lungo e in largo, sperso tra masse sterminate in movimento e ciclopici progetti politici. Isolato dalla propria famiglia che lo vede come un disonore, il ‘soggetto antisociale’ Kang Zhengguo attraversa la storia del suo paese, intersecando la rivoluzione culturale con la difesa di frutteti di pere dai corvi, il fumo delle sigarette con la morte di Mao, l’amore tra templi in rovina e fiori di pesco con il controllo poliziesco e la delazione.
Questo romanzo traccia un ritratto inedito della vita di Leonardo che è anche un grande affresco del nostro Rinascimento. Partendo dall'infanzia e dalla formazione del genio di Vinci nella bottega del Verrocchio, Dann segue le tappe della biografia leonardesca con la tenacia e l'intuito di un detective. La vita artistica, culturale e politica della Firenze medicea è raccontata in queste pagine con la leggerezza e la finezza tipica dei grandi romanzieri. Le figure di Machiavelli, di Botticelli e di tutti i personaggi di spicco del Rinascimento fiorentino risaltano, nei loro rapporti con Leonardo, come caratteri sbozzati dalla mano di un raffinato scultore. Ma il cuore del libro è sicuramente nella scoperta fatta da Jack Dann di una pagina assolutamente inedita, e finora misteriosa, della vita di Leonardo. L'impiego delle sue geniali e fantasmagoriche "macchine da guerra" - quelle mirabilmente ideate e ritratte dalla mano leonardesca nei suoi libri di appunti - in una sanguinosa battaglia combattuta in Medio Oriente, dove Leonardo si trovava al servizio di un generale siriano. Il titolo del romanzo si rifà all'antica disciplina della mnemotecnica, che concepiva la mente come un complesso edificio - una cattedrale, appunto - per la "conservazione" dei ricordi e delle nozioni attraverso la memoria. Un edificio di cui occorre conoscere ogni stanza, e che bisogna imparare a percorrere: una cattedrale in cui sapersi orientare, per ritrovare i ricordi e le immagini e riconnetterli tra di loro.
Latha vive con una famiglia che non è la sua famiglia: solo persone che hanno il diritto di darle ordini. Ha una sola amica, che però non è una vera amica, ma la sua padrona. Non conta che i voti di Latha a scuola siano migliori, o che la sua bellezza sia più sfolgorante: deve sempre restare un passo indietro. Per lei, orfana e di umili origini in Sri Lanka, l’unico destino possibile è fare la serva. Ma nel suo cuore non sa rassegnarsi alla sottomissione, né rinunciare alle piccole vanità e ai desideri di un’adolescenza normale: un profumo di rose, un paio di sandali nuovi, l’amore di un ragazzo. Finché le ingiustizie subite diventano insopportabili e la ribellione di Latha si trasforma in inganno e vendetta.
Biso fugge dal marito alcolizzato e violento, l’uomo che ha ucciso il suo amante e ha minacciato di vendere come prostituta la bambina nata da quell’amore proibito. Fugge all’alba, danzando leggera sulla rugiada, ripensando a quello che la vita le ha tolto, ai sogni che ha spezzato. Fugge insieme ai tre figli, su un treno che dovrebbe condurla a un luogo che appartiene al suo passato, e dove non sa neppure se sarà la benvenuta.
Dall’intreccio di due destini apparentemente disgiunti, la storia intensa di due donne che lottano con coraggio contro una cultura che cerca di piegarle alle tradizioni. Due donne in viaggio verso un’unica meta: la libertà.
Succede un pomeriggio, al centro commerciale. È lì che Henry, tredici anni, viene avvicinato da un uomo, ferito a una gamba, che gli chiede aiuto. La madre di Henry, Adele, accetta di portare lo sconosciuto a casa con loro. Senza fare domande. In macchina l’uomo, che si chiama Frank, constata: «Oggi è il mio giorno fortunato. Forse anche il vostro». E Henry capisce che la sua vita sta per cambiare.
Fino a quel momento è stata piuttosto solitaria: sempre sua madre e lui, dai tempi del divorzio. Mentre il padre di Henry si è fatto un’altra famiglia, Adele si è a poco a poco estraniata dal mondo, costruendo con la solitudine una barriera attorno alla propria fragilità. Henry, come Adele, non ha molti amici, e ora che il suo corpo sta cambiando non sa a chi confidare le fantasie che lo ossessionano sulle ragazze, sul sesso, e il senso di inadeguatezza che lo attanaglia.
Ed ecco, improvvisamente, quell’uomo nella loro vita. Frank non nasconde la verità: è fuggito dall’ospedale del penitenziario, è un evaso. Strano, perché invece ha tutta l’aria di essere uno a posto. Lo si capisce da come si offre di cambiare le lampadine in cucina o si dà da fare ai fornelli; o forse dal modo in cui si rivolge a sua madre, chiamandola per nome, sussurrandole complimenti, facendola sorridere come Henry non l’ha più vista fare da molto, troppo tempo. Ed è un’eccitazione mai provata – paura o felicità? – quella che Henry sente quando Frank gli insegna a fare il suo primo vero lancio o gli spiega come preparare un perfetto pie.
Così, mentre fuori si scatena la caccia, in casa il tempo è come sospeso, e forse finalmente a una svolta.
Justice ama giocare a calcio, tifa per il Manchester e vive in Ghana. Ha solo quattordici anni quando lascia il villaggio dove è cresciuto per trovare un po’ di quella giustizia che porta nel nome. Non sa dove è diretto. Non lo sa quando salta su una carovana del deserto, puntando al confine algerino. Non lo sa quando attraversa lo spietato deserto del Niger, costellato dalle ossa dei tanti che non ce l’hanno fatta. Né quando apre un varco nel muro nella terribile prigione di Qatrun, per tirare fuori i suoi amici rinchiusi come clandestini. Anche in Libia, dove il suo tempo si fa attesa, dove viene arrestato e torturato, non gli è chiaro dove sta andando. E non lo diventa quando, insieme a decine di altre persone, viene stipato su una barca. Né quando i mercanti di uomini lo abbandonano in mezzo al mare. Dopo giorni e notti trascorsi attaccati alle reti per i tonni, qualcuno finalmente si decide a soccorrere chi è sopravvissuto, e dice: «Là si prenderanno cura di voi. È un’isola italiana». Ma neanche allora Justice sa dove è diretto. È partito per il suo viaggio verso la Terra Promessa, ma dove sia questa terra, non lo sa.
Il viaggio di Justice è durato quattro anni, tanti ce sono voluti per attraversare un continente, per fare a piedi o con mezzi di fortuna le migliaia di chilometri che lo separavano dalla speranza di una vita migliore. Non è che un ragazzo, con la saggezza di chi ha vissuto mille anni. Ha conosciuto la paura e la speranza, la fame e il freddo, la solidarietà e la solitudine, l’innocenza e la violenza. Ma il suo viaggio, come quello di milioni di ragazzi come lui, non è ancora finito.
Un’odissea indimenticabile e di stringente attualità, che avvince e commuove con la forza implacabile della verità.
A diciotto anni, Krystel ha tutte le ragioni di essere felice e spensierata: ha una bella famiglia, un fidanzato, tanti amici e tutta la vita davanti. Poi, un giorno, una gita in compagnia si tramuta in dramma. L’auto esce di strada. Un incidente come tanti, di quelli che non fanno notizia. Tutti se la cavano con pochi danni e molta paura. Tutti, tranne Krystel. Per lei il prezzo da pagare è più alto. È in coma, immobile, isolata dai suoi cari e dal resto del mondo, precipitata in una condizione indescrivibile: come se fosse uscita dal suo corpo, per entrare in uno strano tunnel bianco. Dal confine di quel mondo quasi extraterrestre, Krystel sente, capisce, vede tutto quello che gli altri fanno e dicono. Vede il dolore e l’amore dei suoi genitori. Ed è per loro che lentamente risale il tunnel, e ritorna nel suo corpo. Un miracolo, dicono i medici.
Ma è solo l’inizio, perché quando si sveglia, Krystel non ricorda nulla: cos’è il liceo? Cos’è l’esame di maturità? Chi sono gli adorabili estranei che si fanno chiamare mamma, papà, sorelle, fratellino? Di tutto quello che ha imparato in diciotto anni di vita non è rimasta traccia. Però Krystel non si arrende. Lei vuole vivere. E combatte, con i gesti di ogni giorno, lotta contro il mondo di fuori, che dimentica in fretta le piccole e grandi tragedie quotidiane. E scrive questo libro, per raccontare che si può sempre tornare a vivere. Sempre.
Per tutta la vita, Sara non ha fatto che fuggire, dalla sua infanzia, dal suo paese, da suo padre. È arrivata persino a cambiarsi il nome. Sara. Due sillabe facili per cancellare il suono dissonante di Afsaneh. Ha giocato a essere qualcun altro, per integrarsi ed essere accettata. Ma a forza di conformarsi, un giorno ha compreso che non sapeva più chi era.
Per questo, dopo ventisette anni, decide di tornare in Iran. Il mondo cosmopolita della sua infanzia non c’è più. Ora sull’aereo della IranAir l’altoparlante esordisce con «nel nome di Dio clemente e misericordioso» e su ogni sedile una bussola indica la direzione della Mecca. Ma poi, quello che Sara trova, è un mondo schizofrenico, che in superficie si adegua ai precetti fondamentalisti, ma sotto li trasgredisce tutti. I giovani fanno feste, bevono, guardano film proibiti, si raccontano barzellette sul presidente, e le donne sotto il velo indossano minigonne e abiti attillati, si truccano, criticano e resistono. Anche se i rischi non mancano, e può succedere che a una ragazza sorpresa a una festa durante un’irruzione di polizia, venga inflitta una pena di settanta frustate e l’umiliazione del controllo dell’imene.
Straniera nel suo paese, Sara cerca di decifrare l’Iran, e intanto va alla ricerca del suo passato. Un padre che sperava di aver dimenticato, un fratello di cui conosce a malapena il volto, la casa dell’infanzia trasformata in una scuola coranica. La sua vita e quella del suo paese sono più intrecciate di quanto voleva riconoscere.
La ricerca delle sue origini si trasforma in un viaggio tra la swinging Teheran e le cupole turchesi di Ispahan, e infine, in una nuova nascita.
In un paesino della provincia di Zamora, si scontrano (e poi diventano misteriosamente detentori di un segreto che li accomuna) il parroco, Manuel Bueno, che tutti venerano e considerano come un santo e Lazzaro, la pecora nera del paese, agnostico dalle idee progressiste, che è appena tornato dall'America dove aveva fatto fortuna.
Un ragazzino di dieci anni, insieme al fratello maggiore, intraprende nel maggio 1938 un viaggio che da Amburgo, passando per l’Italia, lo porterà in un collegio sperduto dell’Alta Savoia. I due fratelli vivranno da soli, senza genitori, «in esilio» da una guerra che minacciosa si stringe attorno a loro. Una guerra che il piccolo Jürgen-Arthur, il quale non sa nulla (non sa nemmeno di essere ebreo), tenta di spiegare a modo suo: si convince di avere una colpa, una di quelle colpe che agli occhi dei bambini sono indicibili e imperdonabili. Quel bambino è lo stesso Goldschmidt, il grande scrittore tedesco che in questa narrazione autobiografica ripercorre gli anni del passaggio dall’infanzia all’adolescenza; anni difficili e delicati, in cui l’acuta sensibilità che li caratterizza è intensificata e portata a un punto estremo di tensione dagli eventi bellici, che si insinuano anche all’interno del collegio francese, inquinandone il microcosmo in apparenza sereno. Il giovane, infatti, ritrovatosi solo, senza neanche la compagnia del fratello, sarà costretto a subire le angherie e le sevizie della Direttrice e dei compagni, diventando la vittima preferita delle loro prepotenze. Ma nel momento stesso in cui il dolore scaturisce ed esplode nel corpo torturato e martoriato, Jürgen-Arthur scopre il potere misterioso e sorprendente del piacere che proprio nel corpo dimora. Il cuore del romanzo è infatti il corpo, percepito come rifugio ma anche, specie nelle punizioni più dure, come un bastione che non può essere soggiogato né distrutto, una linea di fuga. Si creano così sottili e complesse dinamiche psicologiche, indagate e messe a nudo con abilità ed estrema lucidità da una scrittura che non esita a setacciare i percorsi più oscuri della mente. Non a caso Goldschmidt per questo romanzo si affida al tedesco, dopo aver scritto sempre in francese: decide di tornare alla lingua madre, quella che avverte come lingua del trauma, della separazione, della perdita, del dolore; e insieme lingua del corpo e della salvezza: asciutta e spietata, ma capace di toccare inaspettate vette liriche. «Non esiste un altro libro che gli sia paragonabile nella storia meravigliosamente lunga dei libri», scrive Peter Handke nella sua Prefazione. L’unicità del libro è tutt’uno con i frequenti scarti narrativi che lo percorrono, con le improvvise impennate della fantasia che permettono a Jürgen-Arthur, in un continuo trascolorare e trasformarsi delle immagini, di aprire squarci fulminei nel dolore e scoprire la libertà e il piacere della natura, le grandi montagne alpine e i fitti boschi che le ricoprono, e insieme scoprire per la prima volta se stesso, allargando lo sguardo per abbracciare una terra respirata e vissuta «come se ancora fosse il primo giorno del mondo».
IL LIBRO
All’alba di un 17 ottobre, al chilometro 17 di una strada che conduce a un aeroporto austriaco, un taxi esce di strada e precipita in un burrone. I due passeggeri, un uomo e una giovane donna, entrambi di nazionalità albanese, muoiono sul colpo. Il tassista, sopravvissuto, non riesce a spiegarsi le cause dell’incidente: l’unico particolare che ricorda (o crede di ricordare) è di aver notato qualcosa nello specchietto retrovisore, ma non è in grado di precisare cosa fosse, né di dire chi fossero i due passeggeri, dove andassero e perché, tutto essendo in loro indecifrabile.
Dalle indagini emerge che le vittime erano amanti. Il caso, dapprima archiviato come «incidente atipico», viene riesaminato dai servizi segreti serbi e albanesi, che però non approdano a nulla. Si è trattato davvero di un incidente, oppure di un omicidio a sfondo sentimentale o di un assassinio politico? Sovrapponendo la dimensione affettiva a quella storica e politica, la narrazione lascia aperto fino all’ultimo il dubbio sulla soluzione del mistero. Ciò che Ismail Kadaré, al di là dei fatti, esplora in queste pagine è una storia d’amore, una storia con molte derive. Al punto da indurre il lettore a chiedersi se l’amore esiste veramente o è solo un’illusione, una maschera...
UN BRANO
"Quando gli fu chiesto per l’ennesima volta che cosa avesse visto di preciso, il tassista non seppe rispondere. Gli interventi del medico, che aveva raccomandato di non stancare il paziente, non dissuasero il giudice dal continuare. Quale spettacolo si era offerto ai suoi occhi nello specchietto retrovisore interno... in altri termini, che cosa era successo sul sedile posteriore del taxi di così strano da farlo distrarre? Una lite tra i due passeggeri? O forse effusioni e carezze particolarmente spinte?
Il ferito fece cenno di no con la testa: nulla di tutto ciò.
E allora? quasi gli urlò l’altro. Perché hai perso la testa? Che diavolo hai visto?
Il medico stava per intervenire di nuovo quando il paziente, sempre in un tono strascicato, cominciò a raccontare. Alla fine del suo discorso, che era sembrato interminabile, il giudice e il medico si scambiarono uno sguardo perplesso. Secondo il ferito, i due passeggeri sul sedile posteriore del taxi... avevano solo... solo... cercato in tutti i modi di... baciarsi!"
L'AUTORE
Ismail Kadaré, nato nel 1936, poeta, saggista e romanziere, è il più grande autore albanese contemporaneo e uno dei più noti scrittori europei. Nel 2005 è stato il primo vincitore del Man Booker International Prize per la sua opera, spesso pervasa da un fantastico «assurdo» che evoca la solitudine disperante degli eroi di Kafka.