
È notte e il silenzio avvolge la baia di Salem. Zee Finch è ferma sul molo e fissa il mare. Il tempo pare essersi fermato. Aveva tredici anni e la notte usciva di nascosto in mare aperto su barche rubate, ma trovava sempre la strada di casa grazie alle stelle. Eppure, un giorno, aveva perso quella rotta, e aveva giurato a sé stessa di non percorrerla più. Perché quel giorno sua madre si era suicidata, all'improvviso. Zee era fuggita da tutto e da tutti, dedicandosi agli studi in psicologia. Sono passati quindici anni da allora. Ma adesso è venuto il momento di ripercorrere quella rotta perduta. Il suicidio di Lilly Braedon, una delle pazienti più difficili di Zee, che ora fa la psicoterapeuta, la costringe a fare ritorno. Le analogie fra il caso della donna e quello della madre sono troppe. Zee è sconvolta, ma non ha altra scelta: l'unico modo per fare luce sulla morte di Lilly è capire la verità sul suo passato irrisolto. Zee non si può fidare di nessuno. Forse nemmeno di suo padre, ormai un uomo vecchio e malato. Non le resta che fare affidamento su se stessa, rimettere tutto in discussione. Ma deve fare in fretta. Perché una nuova spirale di violenza rischia di rendere ogni sforzo vano. La verità corre su un'unica strada, che Zee ha dimenticato per troppo tempo ma che, se troverà il coraggio di ripercorrerla, la porterà a casa. Qui potrà finalmente realizzarsi il destino che le spetta.
Hassan Haji, secondogenito di sei figli, è nato sopra il ristorante di suo nonno, in Napean Sea Road a Bombay, vent'anni prima che fosse ribattezzata Mumbai. Ed è cresciuto guardando la figura esile di sua nonna che sfrecciava a piedi nudi sul pavimento di terra battuta della cucina, passava svelta le fettine di melanzana nella farina di ceci, dava uno scappellotto al cuoco, gli allungava un croccante di mandorle e rimproverava a gran voce la zia. Tutto nel giro di pochi secondi. E ha capito infine come va il mondo osservando suo padre, il grande Abbas, girare tutto il giorno per il suo locale a Bombay come un produttore di Bollywood, gridando ordini, mollando scappellotti sulla testa degli sciatti camerieri e accogliendo col sorriso sulle labbra gli ospiti. Naturale che quando l'intera famiglia Haji si trasferisce, dopo la tragica scomparsa della madre di Hassan, prima a Londra e poi a Lumière, nel cuore della Francia, sia proprio lui, il piccolo Hassan, a prendere il posto della nonna Ammi ai fornelli della Maison Mumbai, il ristorante aperto a Villa Dufour dal grande Abbas. Un locale magnifico per gli Haji, con un'imponente insegna a grandi lettere dorate su uno sfondo verde Islam, e la musica tradizionale indostana che riecheggia dagli altoparlanti di fortuna che zio Mayur ha montato in giardino. Peccato che abbia di fronte un albergo a diverse stelle, Le Saule Pleureur, la cui proprietaria, una certa Madame Mallory, sia andata a protestare dal sindaco per la presenza di un bistrò indiano...
È una gelida notte d'inverno del 1874 quando Honoré Bourret, rinomato medico di St Andrews East, ridente cittadina del Quebec vicina alla foce del fiume Ottawa, entra nella camera di Agnès, la sua bambina di cinque anni, la bacia, esce, poi raccoglie nella sua stanza qualche vestito e i soldi messi da parte per il battesimo di Laure, l'altra figlia di cui sua moglie è in attesa, e scappa. Una fuga generata da un'accusa orribile: aver percosso e affogato sulla riva dell'Ottawa Marie, sua sorella, una ragazza storpia e muta, diventata, a detta degli abitanti di St Andrews East, un peso insopportabile per lui e la sua carriera dopo la scomparsa dei loro genitori. Da quella notte d'inverno, un pensiero ossessivo si insinua nella mente di Agnès: ritrovare suo padre, "quell'uomo triste e tenebroso", e riconquistarlo. Alla morte della madre, incapace di sopravvivere agli eventi, Agnès, la pelle scura come quella di una zingara, viene accudita dalla nonna assieme a sua sorella Laure, bella come un angelo coi suoi capelli setosi e color del grano. Mentre Laure si rifugia nel suo mondo protetto e incantato di bambina dalla salute cagionevole, Agnès coltiva con ostinazione un sogno apparentemente irrealizzabile per una ragazzina del XIX secolo: percorrere le stesse orme del padre, diventare medico, nella speranza di poterlo un giorno incontrare.
È il 23 marzo 1890 a San Pietroburgo e, nell'ampio corridoio del teatro Mariinskij, è in corso una delle sfilate più emozionanti che sia dato vedere nella splendida città affacciata sul golfo di Finlandia. La famiglia reale è accorsa al gran completo per il saggio finale delle giovani allieve del corpo di ballo. Gli zar Romanov sono i finanziatori di buona parte dei Teatri imperiali e non mancano mai alle occasioni in cui è possibile scorgere le prime esibizioni delle future étoiles. Lungo il corridoio, l'imperatore Alessandro III avanza a grandi passi, seguito dall'imperatrice gracile e minuta. Più indietro ancora lo zarevic Nicola, detto Niki, un fauno, piccolo, esile nella sua uniforme, le guance morbide e graziose, i lineamenti fini. Raggiunta la tavola allestita per la sobria cena della scuola, l'imperatore fa sedere alla sua sinistra Nicola e, accanto a lui, la ragazza che più di tutte promette di essere una stella del Mariinskij: Mathilde Kschessinska, la figlia più giovane del grande Felix Kschessinsky, che ha danzato per i Romanov per quasi quarant'anni. L'intento di Alessandro III è palese: fare in modo che il figlio renda onore a una lunga tradizione che vuole imperatori, granduchi, conti e ufficiali scegliere le loro amanti tra le ballerine di danza classica. Per Mathilde Kschessinska è l'occasione di puntare dritta al cielo, un premio inaspettato al suo talento.
Testimonianza di una grande amicizia, "la più grande amicizia del secolo", "Mio sodalizio con De Pisis" è un libro di memorie, scritto con il tono e il ritmo disordinato della tenerezza. Comisso racconta la vita di un artista e amico, getta lo sguardo ai ricordi degli incontri quando insieme, "divini ragazzi", attraversavano Roma e Parigi alla ricerca di nuove ebbrezze e piaceri. Il racconto inizia con gli anni degli incontri a Roma, quando De Pisis comincia a dipingere per giustificare come studio l'alcova dove invita i ragazzi; e attraversa gli anni di Parigi, "le inaudite meraviglie" gustate insieme con il successo artistico e mondano. Sono gli anni migliori per De Pisis e per la loro amicizia. Con la sua incantevole scioltezza verbale, Comisso compone un racconto che ha lo stile della pittura di De Pisis, leggero, distratto e goloso, come ha scritto Parise, senza la minima tensione o forzatura, nello stesso italiano dolce e luminoso di Delfini, Penna e dello stesso Parise. E questa stessa dolcezza, che è poi tenerezza per la vita, lo assiste anche nel racconto degli ultimi tragici anni dell'amico, segnati dalla malattia e dalla reclusione in clinica: "nel corridoio i nostri passi andavano concordi come quando si andava prepotenti e felici per le strade di Parigi e Cortina"; e giunge ad accoglierci tutti nel pensiero finale: "noi siamo soltanto magnifiche onde in attesa sempre di disfarci nel crollo".
A Oviedo, nel cuore delle verdi Asturie, cinque ragazzi vivono sulla loro pelle gli orrori della Guerra civile. Mentre papà e zio passano i giorni rintanati in un armadio nel vano tentativo di sfuggire ai falangisti, il piccolo Paco Ignacio e i suoi amichetti ingannano il tempo e la fame negli spazi angusti di un seminterrato, tendendo l'orecchio alle granate, sognando i luoghi proibiti della città, ascoltando gli inni dei nemici e divorando i volumi della vecchia biblioteca di famiglia. Giocare con i personaggi di carta, loro attività prediletta per resistere alla guerra, diventerà un'esperienza unica, che li accompagnerà per tutta la vita. Un legame indelebile, più forte del logorio del tempo e delle estenuanti violenze della dittatura franchista. Romanzo decisivo, intenso e palpitante, Per fermare le acque dell'oblio è - oltre che un dono dell'autore al proprio figlio - un tuffo nella memoria, un canto alla vita e all'amicizia, "un libro per piangere quegli anni, per suscitare compassione nei giovani che mi leggono, per scuotermi di dosso i mostri. È un libro per fermare le acque dell'oblio, per far sì che non tornino a inondarci le altre acque, quelle del terrore e delle formule rigide e vendicative".
Cambridge, 1965. Due ragazzi si conoscono e si innamorano. Lei si chiama Sonia Maino, è italiana e proviene da una famiglia semplice. Lui è indiano e sì chiama Rajiv Gandhi: è figlio di Indira e nipote del Pandit Nehru, il fondatore, insieme al Mahatma Gandhi, dell'India indipendente. Superata l'opposizione iniziale del padre della ragazza, nel 1968 i due si sposano. Al matrimonio, lei indossa un sari rosso, il colore delle spose indiane. Nascono due figli, ma la tranquillità familiare non durerà a lungo. Presto Rajiv diventerà consigliere della madre e segretario generale del Partito del Congresso. Nel 1984 Indira Gandhi, al secondo mandato come primo ministro, perde la vita in un attentato e il figlio le succede. La tragedia incombe: nel maggio del 1991 Rajiv viene assassinato da un commando delle Tigri Tamil. Nel 1995 avviene l'incredibile: Sonia accetta il ruolo di leader offertole dal Partito del Congresso. Sarà proprio lei a portare alla vittoria il suo schieramento alle elezioni del maggio 2001, rinunciando poi al ruolo di primo ministro, pur rimanendo alla presidenza del Partito per perseguire il suo obiettivo iniziale, lo stesso del marito e della suocera: la lotta alla povertà. Con una scrittura epica e carica di sensualità, sulla scia di "Stanotte la libertà" di Dominique Lapierre e Larry Collins, Javier Moro ricostruisce nel suo "Sari rosso" la storia memorabile e appassionante dell'"italiana" diventata "figlia dell'India".
A bordo del Gypsy Steamboat, il battello che attraversa il Bosforo danzando come uno zingaro, una scrittrice incontra lo sguardo della donna che le siede accanto: giovane ma con il viso segnato, due bambini chiassosi a cui badare e un terzo che cresce dentro di lei. Una madre: tutto quello che la scrittrice non sarà mai. O almeno così crede. Perché anche a Elif Shafak, autrice di romanzi tradotti in tutto il mondo, toccherà l'esperienza più emozionante e com plicata che una donna possa affrontare: la maternità. Elif ci accompagna in un viaggio pieno di storie, poesia e colori, dentro le emozioni contrastanti che l'hanno attraversata dopo la nascita della sua bambina. Nel tentativo di conciliare le tante versioni di sé che la abitano: il "piccolo harem" che è in ogni donna. Shafak ci conduce nel luogo magico in cui maternità e letteratura si incontrano, regalandoci una storia sofferta eppure luminosa, scritta con "latte nero e inchiostro bianco".
Scrive Alessandro Portelli nell'Introduzione a questi ventisei racconti inediti di Mark Twain: "Si dice spesso che Mark Twain è uno di quegli scrittori che possono essere citati sia pro sia contro su qualunque argomento". Vero è che si trova pressoché di tutto, in questa multiforme e affascinante raccolta di storie, articoli e aneddoti, pubblicati nel 2009 per festeggiare il centenario della morte di uno dei più grandi scrittori della letteratura statunitense. Questioni universali più che mai attuali e ricordi personali si fondono e si intersecano, sempre affrontati con sottile ironia e acume brillante. L'autore cerca e ottiene la complicità del lettore, che insieme a lui ride (spesso amaramente), riflette, s'indigna e reagisce di fronte alle assurdità del nostro mondo. Lo stile tagliente non risparmia sferzate polemiche al sistema politico e sociale americano, a volte con attacchi diretti - come nel racconto autobiografico "Sulle spese di spedizione di un manoscritto d'autore", in cui il Congresso degli Stati Uniti è definito "Manicomio Nazionale" - a volte con fini e non troppo velate metafore - come nella favola esopica "La giungla discute dell'uomo", o nell'immaginaria discussione tra monete raccontata ne "La lite nel forziere". Eppure, in Twain, le satire e le parodie del suo presente (così spesso simile al nostro!) non eliminano l'orgoglio di sentirsi parte attiva di un paese libero. Un contrasto solo apparente - o forse, una contraddizione insolubile.
All'interno del vastissimo patrimonio filosofico che Nietzsche ci ha lasciato, i concetti di "apollineo" e "dionisiaco" sono certamente fra i più citati e i meno compresi, e a tutt'oggi la letteratura al riguardo appare largamente inadeguata. Con gli scritti raccolti in questo volume, Giorgio Colli non solo mostra di coglierli nella loro intima essenza, ma si spinge ancora più in là sulla strada aperta da Nietzsche. Collocandoli alle origini stesse del pensiero occidentale, ed esaltandone l'"inesauribile fecondità", ne fa chiavi interpretative in grado di schiudere i passaggi più occulti della storia del pensiero, dell'arte e della scienza. E non sembrerà azzardata, al lettore che lo voglia seguire nel suo affascinante percorso speculativo, l'affermazione che eleva "apollineo" e "dionisiaco" a "princìpi universali e supremi della realtà".
Non ha avuto vita facile Oscar Chabut. Ha lavorato duro e, dal nulla, è riuscito a costruire un impero. E che importa se il suo Vin des Moines, miscela di vini del Midi e d'Algeria, fa storcere il naso agli intenditori? Moderni uffici in avenue de l'Opera, un appartamento in place des Vosges, una villa in campagna a Sully-sur-Loire, una casa a Cannes, amicizie altolocate: non male per il figlio di un oste del quai de la Tournelle bocciato due volte alla maturità. Aggressivo e sprezzante com'è, sempre calato nella parte dell'uomo d'affari insensibile e senza scrupoli, sempre pronto a ostentare la sua ricchezza e il suo potere, Oscar Chabut pare ci provi gusto a farsi odiare. Tanto più che non esita a portarsi a letto, oltre alle sue dipendenti, le mogli di tutti gli amici. Sicché, quando lo freddano con quattro colpi di pistola all'uscita di una lussuosa casa d'appuntamenti di rue Fortuny - dove si appartava ogni mercoledì con la sua segretaria -, nessuno si stupisce più di tanto. Ma come scovare l'assassino di un uomo che in pratica aveva solo nemici? Un vicolo cieco, si direbbe. E non è certo un caso che Maigret conduca questa inchiesta davvero impossibile febbricitante, vittima di un'influenza che sembra appannarne la leggendaria sagacia. Maigret, lo sappiamo, è più vulnerabile di quanto non si creda: e questa volta ha tutta l'aria di uno scolaro che si sente male il giorno dell'interrogazione.
Perdere il favore di coloro da cui dipende la nostra stessa vita. Mordere la polvere quando si è conosciuto il fulgore degli altari. Non essere più amati. È il destino intollerabile che accomuna i protagonisti delle due novelle qui riunite: una dama del Settecento e un cane. E il dolore, il furore, il desiderio di vendetta non saranno meno violenti nell'animale che nella donna. Splendida, intelligente e ambiziosa, amica di Montesquieu e di Voltaire, amante del duca di Borbone, la marchesa de Prie sembra onnipotente e, soprattutto, intoccabile. Ma quando nel 1726 il duca di Borbone cade in disgrazia presso Luigi XV, per lei si spalanca, d'improvviso, il baratro di un esilio avvilente. Confinata in Normandia, rabbiosamente sola, Madame de Prie non può che tormentare il giovane amante, contemplare allo specchio il suo volto che sfiorisce - e progettare una morte degna dei fasti del passato. Le forze brutali - distruttive e autodistruttive - che solo l'orgoglio ferito e l'amore ripudiato sanno scatenare innervano anche il secondo racconto, dove a sperimentare la più tremenda delle perdite è Ponto, cane tirannico dapprima oggetto di una sfrenata passione e poi di colpo ignorato e bandito dal suo regno non appena la padrona resta incinta. Sagace nel suo odio, l'escluso preparerà la sua vendetta, suscitando nel lettore un'attesa angosciosa - e una suspense quasi hitchcockiana.