
"La passione di Artemisia" narra dell'incessante lotta della prima grande pittrice celebrata e riconosciuta nella storia dell'arte: Artemisia Gentileschi, la donna che, in un mondo ostile alle donne, riuscì a imporre la sua arte e a difendere strenuamente la sua visione dell'amore e dell'esistenza. Violentata dal suo maestro, Artemisia subì, nel corso della sua vita, non soltanto l'onta di un processo pubblico nella Roma papalina, e l'umiliazione di un matrimonio riparatore con Pietro Stiattesi, artista mediocre, ma anche un duro, terribile confronto con il suo avversario più temibile: il grande pittore Orazio Gentileschi, suo padre.
Nella cantina di casa di un insegnante di matematica, Cornelius Engelbrecht, un signore sobriamente vestito, dal carattere chiuso e dall'atteggiamento sfuggente, giace un quadro prezioso che ritrae una ragazza vestita di blu. In un momento d'abbandono e di inconsueta familiarità, Engelbrecht confida a un amico che il quadro, palesemente risalente al XVII secolo, è una delle opere "ignote" di Vermeer, il grande pittore olandese. Suo padre, ufficiale nazista durante la guerra, l'aveva trafugato a una famiglia ebrea.
Il sogno di Maya è di diventare una donna audace, coraggiosa, libera. Libera di viaggiare nel lontano Oriente di cui sin da bambina ha sentito raccontare dal padre, professore di storia a Oxford. Durante l'infanzia e l'adolescenza le lettere che il celebre esploratore Richard Francis Burton, il suo idolo incontrastato, le ha inviato da Bombay, dalle spiagge di Goa e dalle montagne azzurre di Nilgiri, da Hyderabad e da Alessandria l'hanno nutrita dell'atmosfera e degli aromi di quei luoghi magici. Ma nell'Inghilterra di fine Ottocento una donna non solo non può sperare di studiare, ma nemmeno di andare alla scoperta di posti così lontani. A meno che non sposi un ufficiale in partenza proprio per l'Arabia... Tuttavia, la vita in Oriente non è come l'aveva sognata. E mai, soprattutto, Maya si sarebbe immaginata che sarebbe stata rapita dai predoni del deserto per ordine del sultano locale. Un'avventura da incubo, in cui però conosce Rashad, il capo dei predoni, un uomo temibile e affascinante che segnerà il suo destino per sempre.
"È il paese dove non si muore mai. Fortificati da interminabili ore passate a tavola, annaffiati dal raki, disinfettati dal peperoncino delle immancabili olive untuose, qui i corpi raggiungono una robustezza che sfida tutte le prove. Siamo in Albania, qui non si scherza". Una bambina intelligente e curiosa, la sua scoperta del mondo in un paese che ha spento l'utopia nella barbarie e che non tollera dubbi né domande. Il racconto tagliente e irresistibile delle sue diatribe con Madre-Partito, delle sue esercitazioni militari, dei suoi giochi innocenti e sinistri; l'impertinenza del corpo che cambia sotto gli sguardi avidi dei maschi, il desiderio di fuggire come amara morale di un'acuminata "favola della dittatura".
«A sedici anni, nei versi di Majakovskij, lessi una storia che mi segnò per sempre. La ditta Van Houten, che produceva dell'eccellente cacao, ebbe una trovata macabra e geniale: comprare l'ultimo desiderio di un condannato a morte per pubblicizzare la sua polvere scura. L'uomo davanti alla folla curiosa avrebbe dovuto gridare come ultimo desiderio lo slogan: Bevete cacao Van Houten! In compenso, la sua famiglia avrebbe ricevuto una somma di denaro sufficiente a vivere con tranquillità almeno per un paio d'anni.
L'uomo gridò. La mia anima di sedicenne anche».
Quando si nasce nella «prigione chiamata Albania», esistono solo due modi di orientare lo sguardo. C¿è quello del pittore Petraq, che cammina chino sull¿asfalto e sembra rimpicciolire ogni giorno di più: è lo sguardo basso della colpa, di chi si vergogna della propria vecchiaia, ma anche della propria bellezza, o di un marito che ha troppa voglia di fare l¿amore. E poi ci sono gli occhi puntati dritti verso formidabili orizzonti: è lo sguardo di Gazi che attraversa l¿Adriatico e sogna di portare la sua musica in Italia, in Francia, negli Stati Uniti. Sono gli occhi di Teuta mentre stropiccia il foglietto su cui è segnato l¿indirizzo che dovrebbe accoglierla a Roma, quelli di Sabrina inghiottita dal mare, e di Lumturi che si nutre delle pagine di Proust e Stendhal.
Complice un tempo che sembra eterno, l¿Albania smette di essere prigione per diventare limbo, uno stato transitorio nel quale si sopravvive coltivando «promesse d¿altrove», fino al giorno in cui si parte davvero. Ed eccolo, finalmente, «il paese dei miracoli», un luogo in cui la bellezza femminile non è più dannazione ma fortuna, il pesce non ha le lische e le scatole di tè racchiudono prodigi mai sentiti.
Ma l¿autrice di questi quattordici racconti, che ha lasciato Tirana a ventidue anni e ha scelto di scrivere in italiano, di sguardo ne ha inventato un altro: obliquo, che gioca a ribaltare le ovvietà della lingua e dell¿esistenza.
Coniugando crudeltà e tenerezza, Ornela Vorpsi riesce a ritrarre quell¿essere meraviglioso e fragile che è l¿umano, capace di vendersi al prezzo di un sogno, persino nel momento del respiro ultimo. Una scrittura spietata e intrisa di ironia, animata da una lingua unica, ricca di potenza simbolica, che fa dell¿assenza di radici la sua forza e trasforma lo spaesamento in strumento di conoscenza.
Esiste una lingua per raccontare lo spaesamento? Tutto parte da un viaggio a Sarajevo: un tuffo nel cuore dei Balcani, generoso e polveroso come nei ricordi d'infanzia. Qui la pioggia bagna la pelle più in profondità che altrove. La morte è più sorprendente e ha più sapore. Come un assedio, ad ogni passo risuona "l'esperanto balcanico", quel linguaggio inudibile e perentorio che non è possibile lasciarsi alle spalle. Un romanzo vivo, caustico, una scrittura apolide leggera e penetrante come le emozioni di cui si nutre. Ornela Vorpsi è nata a Tirana, dove ha vissuto fino a 22 anni. Ha studiato Belle Arti in Albania, poi, dal 1991, all'Accademia di Brera. Scrive in italiano. Il suo primo romanzo, "Il paese dove non si muore mai", ha vinto cinque premi ed è stato tradotto in dieci paesi.
È la fine degli anni Sessanta e Mark ha preso la sua decisione. Partire per costruirsi con le sue mani il mondo in cui vuole vivere. Via, verso le distese del Canada, la Columbia Britannica, con la sua compagna Virginia, il cane Zeke e Car Car, il suo maggiolone Volkswagen. Lontano, per realizzare quello che è il sogno di molti suoi coetanei: fondare una comune-fattoria. Lentamente, con l'aiuto degli amici e degli ospiti di passaggio, il desiderio prende forma, e la fattoria diventa un piccolo Eden, distante da tutto e da tutti, a venti chilometri di barca dalla strada più vicina e dalla modernità della corrente elettrica. Ma poco per volta la realtà comincia a confondersi con il sogno, con l'immaginazione, con l'incubo. Mark perde sempre più il controllo dei propri pensieri e viene sopraffatto da sensazioni e paure irrazionali. Fino a entrare in un mondo confuso, incomprensibile. Schizofrenia. Un mondo distorto che lo attira a sé e lo respinge, che lo rapisce e lo illude.
Quando veniva invitato da prestigiose università statunitensi a tenere un discorso per la consegna dei diplomi, Kurt Vonnegut non diceva mai di no. Era ormai famoso, aveva scritto romanzi apprezzati in tutto il mondo, come Piano meccanico e Mattatoio n. 5, ma soprattutto era amato dai giovani, tanto quanto amava trovarsi in mezzo a loro. Per alcuni questi incontri erano l'occasione di sentire e vedere il loro idolo in carne e ossa, ad altri bastava ascoltarlo per innamorarsene lì?per lì. Quando siete felici, fateci caso raccoglie un'ampia selezione di testi scritti per queste occasioni: non vi troviamo massime di saggezza impartite da un vecchio guru a un pubblico in cerca di mistiche emozioni, ma un Vonnegut che pesca tra gli aneddoti, racconta qualche storiella, e soprattutto fa ridere. Con i suoi ragazzi lui parlava di tutto. Come tutti i grandi scrittori amava parlare anche di sé, ma questo non veniva al primo posto. Trovava interessante toccare, con spirito e leggerezza, argomenti ben più?importanti come lo stato del pianeta, per esempio, dei cui doni l'uomo continua ad abusare. Come scrive Dan Wakefield "non troverete bugie nei consigli di Vonnegut. È uno dei paladini della verità?nel nostro tempo." Un libro che ha toccato il cuore di molti lettori, da riscoprire in questa nuova edizione che comprende discorsi finora inediti in Italia.
Nelle università americane il "commencement speech" è il discorso ufficiale ai laureandi tenuto al termine dell'anno accademico da una personalità di spicco del mondo della cultura o della politica. Negli ultimi anni, i discorsi agli studenti di scrittori come David Foster Wallace (Questa è l'acqua) e George Saunders (L'egoismo è inutile) sono diventati grazie al passaparola dei veri e propri oggetti di culto, per gli studenti e non solo. Questo volume raccoglie nove discorsi tenuti da Kurt Vonnegut fra il 1978 e il 2004, e si propone come una piccola summa del pensiero di un maestro geniale e irriverente della letteratura del Novecento. Fra aforismi, ricordi, aneddoti e riflessioni sul mondo contemporaneo, i discorsi di Vonnegut brillano dello stesso spirito vivace e anticonformista che anima la sua narrativa; mai predicatorio, mai consolatorio, ma capace di sferrare attacchi frontali allo status quo, cantare inni alla libertà e alla creatività dell'essere umano, spiazzare e divertire con il suo humour dissacrante, Kurt Vonnegut ci parla ancora, a qualche anno dalla morte, con una voce modernissima e utile a leggere il mondo in maniera critica e potenzialmente rivoluzionaria.
Uno scrittore decide di scrivere un libro sul giorno in cui è stata sganciata su Hiroshima la prima bomba atomica. Si intitola "Il giorno in cui il mondo finì" ed è centrato sull'idea di descrivere cosa stessero facendo alcuni scienziati nucleari nell'esatto momento in cui avveniva la catastrofe. Salutato al suo apparire, nel 1963, da Graham Greene come "uno dei tre migliori romanzi dell'anno scritto dal più bravo scrittore vivente", "Ghiaccio-Nove" è un libro che contesta quasi ogni aspetto della nostra società attraverso la parodia e l'artificio che, visto il mondo apparentemente privo di senso in cui ci muoviamo, sembra essere uno dei pochi modi con cui descriverlo.
Un "uomo di Harvard" sconfessa i suoi amici e li consegna alla famigerata Commissione McCarthy. In seguito diventa consigliere di Nixon, un consigliere piccolo piccolo, che lavora nel sotterraneo della Casa Bianca come un topo di biblioteca. Quando esplode il caso Watergate, Nixon gli rifila le casse con tutti i nastri registrati. Lo arrestano e trascorre qualche anno rinchiuso in una lussuosa galera di New York, ma poi diventa di colpo direttore generale di un colossale trust di compagnie americane. L'amara parabola della fine del sogno americano, in cui Vonnegut dà mano a tutto il repertorio del suo straordinario stile narrativo, sempre in perfetto equilibrio tra la satira e il dramma.
In un futuro non troppo lontano, dopo l'ultima guerra, l'America vive nel benessere grazie all'impiego su vasta scala della meccanizzazione. La società è divisa in due. Da un lato un pugno di tecnici e manager, che proprio durante l'ultima guerra hanno imparato a produrre senza le maestranze richiamate sotto le armi. Dall'altro tutti coloro che il basso quoziente d'intelligenza condannava a un lavoro manuale che oggi non esiste più. L'americano medio vive una vita senza scopo. È un rottame, uno scarto del processo industriale e più nessuno sembra aspettarsi da lui un gesto di ribellione. Sarà il tecnocrate più giovane e promettente, Paul Proteus, il primo ad avere qualche dubbio sulla validità della propria missione...

