
«Un Julien Sorel all'epoca della crisi»: così venne presentato, alla sua comparsa nelle librerie francesi, il protagonista di questo romanzo. Come l'eroe di Stendhal, Jean-Luc Daguerne non ha che un desiderio: «afferrare il mondo a piene mani», diventare uno di quelli che gestiscono il potere e gli affari. Per riuscirci accetterà di essere umiliato, di mentire, di adulare, di fare il doppio gioco, e persino di tradire il suo unico vero amico. Finché scoprirà che il patto faustiano non è che una beffa: «Il successo, quando è lontano, ha la bellezza del sogno, ma non appena si trasferisce su un piano di realtà appare sordido e meschino».
«Irène Némirovsky» ha scritto Pietro Citati «possedeva i doni del grande romanziere, come se Tolstoj, Dostoevskij, Balzac, Flaubert, Turgenev le fossero accanto e le guidassero la mano». Per tutti coloro che dal 2005 (anno della pubblicazione di "Suite francese" in Italia) hanno scoperto, e amato, le sue opere, questo libro sarà una sorpresa e un dono: perché potranno finalmente leggere la «seconda versione» - dattiloscritta dal marito, corretta a mano da lei e contenente quattro capitoli nuovi e molti altri profondamente rimaneggiati - del primo dei cinque movimenti di quella grande sinfonia, rimasta incompiuta, a cui stava lavorando nel luglio del 1942, quando fu arrestata, per poi essere deportata ad Auschwitz. Una versione inedita, e differente da quella, manoscritta, che le due figlie bambine si trascinarono dietro nella loro fuga attraverso la Francia occupata, e che molti anni dopo una delle due, Denise, avrebbe devotamente decifrato. Qui, nel narrare l'esodo caotico del giugno 1940, e le vicende dei tanti personaggi di cui traccia il destino nel suo ambizioso affresco - piccoli e grandi borghesi, cortigiane di alto bordo, madri egoiste o eroiche, intellettuali vanesi, uomini politici, contadini, soldati -, Némirovsky elimina tutte le fioriture, asciuga e compatta; non solo: ricorrendo alla tecnica del montaggio cinematografico, limitandosi a «dipingere, descrivere», sopprimendo ogni riflessione e ogni giudizio, conferisce a questo allegro con brio un ritmo più sostenuto - e riesce a trattare la «lava incandescente» che ne costituisce la materia con una pungente, amara comicità.
"Suite francese", ultimo capolavoro di Irène Némirovsky, incompiuto, fu pubblicato in Francia solo nel 2004 e ha permesso al grande pubblico internazionale di conoscere una donna straordinaria e una grande scrittrice rimasta in ombra per molto tempo. Nelle intenzioni dell'autrice, "Suite française" doveva essere una "sinfonia in cinque movimenti" sull'epopea vissuta dal popolo francese sotto l'occupazione tedesca. Purtroppo, i "movimenti" furono solo due: "Tempesta in giugno" e "Dolce", due romanzi che raccontano l'uno, la fuga dei parigini mentre in città stanno per arrivare i tedeschi; l'altro, il drammatico rapporto tra una donna francese e un ufficiale tedesco. L'arresto e la deportazione ad Auschwitz impedirono alla Némirovsky di completare la sua sinfonia. A "Suite francese" è legato anche un piccolo mistero: come ha potuto salvarsi dalla furia nazista che volle, con la solita precisione e meticolosità, distruggere tutto quello che apparteneva a Irène e alla sua famiglia? Introduzione di Maria Nadotti.
Irène Némirovsky, condannata al silenzio e all'invisibilità ancor prima che al campo di sterminio (le leggi antisemite varate nell'ottobre del 1940 dal governo di Vichy non le consentono più di pubblicare), con lucida determinazione trasforma la scrittura non in atto d'accusa ma in sottile vendetta, in smascheramento. Come l'ignobile figura materna di tanti dei suoi racconti, sotto la sua penna il paese d'elezione resta senza trucco e belletto e si mostra nella sua oscena decrepitezza. Dietro l'eleganza e il savoir faire dei francesi, sotto il loro habitus culturale, appaiono meschinità, volgarità, grettezza. Lo stesso gelido attaccamento alle cose che la scrittrice ha vivisezionato nella sua fiction.
La famiglia Demestre si riunisce ogni domenica a casa della vecchia madre Anna. Anche stavolta intorno alla tavola apparecchiata siedono Alain, Augustin, Albert con le loro moglie i figli, e Manette, ancora senza marito. Tutti sono impegnati a celare le preoccupazioni e i sentimenti che li animano, ma è impossibile non percepire l'atmosfera di freddezza, disprezzo, ipocrisia e invidia provocata dalla decisione di Alain di sacrificare il suo matrimonio per seguire l'amante in Malesia. I fratelli sono contrari e le loro reazioni mostrano quanto tra loro non ci sia una vera unione, né comprensione, né amore: nessuno vuole aiutarlo, nessuno vuole farsi carico delle conseguenze di una simile decisione e l'essere fratelli sembra essere più un peso che un valore. Sarà la prospettiva della morte a dare un senso al legame di sangue e a unire, volenti o nolenti, questi "stranieri" tra loro.
Gabri ha una madre bella e frivola, più interessata ai suoi flirt che a prendersi cura delle due figlie. Nel corso degli anni, Gabri ha osservato con odio e rancore il mondo degli adulti, che non le hanno dato né insegnato nulla, costruendo la sua vita sull'assenza d'amore. Ma il tempo è dalla sua parte. Quasi all'improvviso, la bambina taciturna e scostante si trasforma in un'adolescente piena di fascino e gioia di vivere. Forte del potere della giovinezza, Gabri può ora prendersi le sue piccole e grandi rivincite, per giungere alla partita finale con la nemica di sempre. L'odio e l'orgoglio sono i veri protagonisti di questo romanzo di formazione, pubblicato nel 1928 su una rivista letteraria con lo pseudonimo Pierre Nerey (ottenuto dall'anagramma di Irene: Nerey). L'uso di un nome diverso e molti degli elementi narrativi rivelano il carattere dolorosamente autobiografico dell'opera: impossibile non ritrovare nel ritratto impietoso della donna egoista e infedele la madre dell'autrice, che era solita parlare di lei come della "nemica". Secondo romanzo di Irene Némirovsky, mai apparso finora in volume singolo e inedito in Italia, "La nemica" si caratterizza come un atto di rivincita, teatro di sentimenti contraddittori, il cui groviglio potrà sciogliersi e trovare la propria catarsi soltanto nella sua drammatica conclusione.
Tre racconti inediti sulla nostalgia, l'egoismo e l'illusione di vivere. Il racconto "Un amore in pericolo" fu pubblicato il 22 febbraio del 1936 su "le Figaro littéraire". Irène Némirovsky mise in scena il rammarico delle cose perdute, i momenti felici che sempre, e per sempre, svaniscono. Per Sylvie, in punto di morte, il senso della perdita si tinge d'una interrogazione morale: dove vola il pensiero nell'ora fatale, incerto tra il pentimento e il rimpianto? All'ansietà dolorosa di un lungo amore o alla breve convulsione di un momento di piacere? Il suo dilemma servirà all'autrice tre anni più tardi per l'ossatura del romanzo "Due". Un delicato studio filosofico sulle età della vita è invece lo spartito del secondo racconto, "Un giorno d'estate", in cui Irène Némirovsky abbatte uno scandaglio sull'adagio solipsistico che accompagna e scocca le ore delle vite umane ("Ciascuno vede solo se stesso"), ma devia poi su un piano chimico, biologico, ineluttabile: l'indifferenza universale della natura, l'incessante mormorio dell'esistenza, "Io, io, io". Quello stesso egoismo che sembra ispirare la madre del giovane assassino e il procuratore incaricato di condurne il processo, protagonisti dell'ultimo racconto, L'inizio e la fine, apparso sul settimanale "Gringoire" il 20 dicembre del 1935. Quell'egoismo che nella prima, per paura della morte, scatena una difesa insensata, e al secondo, col mero tramite di una fredda requisitoria, fornisce l'illusione di vivere.
Sono passati loti anni da quando Ida, ambiziosa e bellissima, ha sceso per la prima volta i trenta gradini del music-hall che avrebbe consacrato il suo successo. Ora, i suoi impresari vogliono provare il nuovo numero senza veli di una ballerina americana agli esordi. Quel corpo giovane riporta Ita ai tempi dei suoi difficili passi suasa scena, quando era solo una ragazza povera in terra straniera. La lunga gavetta, poi il successo, la fama, la ricchezza, e un segreto tenuto nascosto perfino a se stessa, un episodio terribile che torna con tutta la sua forza al momento di entrare in scena, nell'atto di fragilità estrema.
Cresciuto in una famiglia di umili origini, sovrastato da un padre autoritario, Anton Cechov ha avuto un'infanzia che ha profondamente segnato la sua vita e condizionato la sua intera produzione letteraria. Un'infanzia "senza infanzia", come disse lui stesso, vissuta nella consapevolezza di una condizione miserabile e nel terrore della violenza. In una lettera a un amico scrisse: "Mio padre cominciò a educarmi, o più semplicemente a picchiarmi, quando non avevo ancora cinque anni. Ogni mattina, al risveglio, il mio primo pensiero era: oggi sarò picchiato?". Eppure, nel mondo angusto e nuvoloso della sua giovinezza, il piccolo Anton seppe trovare le sue briciole di felicità, "come una pianta che attiri a sé dal terreno più ingrato il nutrimento che le consente di sopravvivere", e nelle sue opere ricorderà Quegli anni come il tempo perduto dell'innocenza, come il momento in cui il sublime e il misero furono capaci di andare assieme. Irene Némirovsky è sempre stata affascinata dalla figura di Cechov, morto un anno prima della sua nascita. L'autore di "Zio Vanja" fu per lei un riferimento costante, una sorta di padre intellettuale a cui ha dedicato questa straordinaria biografia romanzata. Per la prima volta tradotto in italiano, "La vita di Cechov" è un viaggio nella letteratura russa, nella vita privata di uno dei più importanti scrittori dell'Ottocento e al tempo stesso la testimonianza dell'incontro tra due anime, così stranamente, inspiegabilmente vicine.
Nelle taverne di un porto del mar Nero, Ismaele Baruch, il bambino prodigio, canta i dolori e le gioie dei miserabili, degli emarginati, degli esclusi. Il suo talento affascina il poeta in crisi Romain Nord e la sua amante, la "Principessa", una ricca vedova in cerca di nuove emozioni. Strappato al suo mondo di miseria, Ismaele diventerà il giocattolo di una società aristocratica, pronta all'entusiasmo quanto al disprezzo, che finirà per umiliarlo inesorabilmente.
Con questa raccolta di testi inediti torna l'acclamata autrice di Il ballo e David Golder. Nel volume, in esclusiva in Italia, lo sconvolgente capitolo ritrovato di "Suite francese", il romanzo che nel 2004 strappò la scrittrice dall'oblio dopo la morte ad Auschwitz. Racconti, appunti, bozze, critiche teatrali, il confronto-scontro fra teatro e cinema e lo spietato saggio su una delle figure centrali della sua opera, quella degli effimeri «re di una notte», gli alchimisti di Levante, capaci di trasformare ogni affare in oro e subito dopo in polvere.
Ci sono romanzi brevi più densi di emozioni e di vicende di certi romanzoni da ottocento pagine e passa. Ed è esattamente il caso di "Il calore del sangue". Questa volta Irène Némirovsky punta il suo obiettivo non già sul milieu dell'alta borghesia ebraica in cui è cresciuta, né su quello dei ghetti dell'Europa orientale, bensì sul piccolo, angusto, gretto mondo della provincia francese. Il quadro è, in apparenza, di quieta, finanche un pò scialba agiatezza campagnola: la figlia di due ricchi proprietari terrieri sta per sposare l'erede di un'altra famiglia in tutto e per tutto simile, un bravo ragazzo, come si dice, innamorato e devoto. Eppure bastano poche note stridenti (che l'autrice è abilissima a insinuare fin dalle prime pagine) per farci intuire che dietro la compatta, liscia superficie di perfetta felicità agreste - in cui sembra che ogni sentimento si sia come pietrificato - si spalancano voragini insospettate: nessuno, insomma, è al riparo dalla passione, dalla violenza, persino dal delitto, quando è spinto e travolto dal "calore del sangue".

