
I protagonisti di questo libro sono una frase e 72 ore. La frase, ipnotica quanto spietata, è quella che annuncia a Chris Burton, giornalista inglese da anni trapiantato in Italia, il suicidio del figlio schizofrenico. Le 72 ore sono quelle immediatamente successive, spese da Burton nel tentativo di ricomporre le schegge di una mente sconvolta dal lutto e i brandelli di un'Italia non meno frantumata. Dopo aver passato anni a riflettere sulla prevedibilità, Burton si trova urtato da qualcosa di imprevisto e orribile. E di conseguenza dalla rocciosa parola - destino - che d'ora innanzi racchiuderà la sua vicenda.
Nominato giudice penale - promozione meritata, nonostante l'evidente convenienza politica di privilegiare un uomo di colore - Daniel Savage, oriundo brasiliano cresciuto nel milieu della migliore borghesia inglese, decide che è giunto il momento di mettere la testa a posto, di smetterla con i molti adulteri e di passare al sereno tran tran matrimoniale, di uomo quasi felicemente sposato, con figli ormai adolescenti. Ma più cerca una vita semplice e convenzionale, e più intorno a lui tutto si complica e i comportamenti appaiono caparbiamente incompresibili. "La doppia vita del giudice Savage" è apparso per la prima volta nel 2003.
"Sono estremamente grata per due cose: di essere nata in Corea del Nord e di essere fuggita dalla Corea del Nord. Entrambi gli eventi mi hanno formato, e non cambierei mai la mia vita con una pacifica e tranquilla. Ma c'è molto di più nella storia che mi ha portato a essere quella che sono oggi. [...] Durante il mio viaggio ho visto gli orrori che gli esseri umani sono capaci di infliggersi a vicenda, ma sono stata anche testimone di atti di tenerezza, gentilezza e sacrificio nelle peggiori circostanze immaginabili. So che si può perdere parte della propria umanità per spirito di sopravvivenza. Ma so anche che la scintilla della dignità umana non si potrà mai davvero spegnere e che, grazie all'ossigeno della libertà e al potere dell'amore, potrà tornare a brillare. Quella è la storia delle scelte che ho fatto per riuscire a vivere." Yeonmi Park racconta la sua storia incredibile: dall'infanzia sotto il regime di Kim Jong-il, alla fuga in Cina finita nelle mani dei trafficanti di esseri umani, alla ricerca senza esito della sorella Eunmi, alla traversata del gelido deserto di Gobi seguendo le stelle verso una nuova vita, il suo memoir è un inno senza retorica alla libertà e alla forza dello spirito umano.
Un giorno senza cioccolato è un giorno perso. Sin da bambine questa è stata la massima di Ginger e Frances, nate sotto la costellazione più affollata di tutte: quella delle cioccolato-centriche. Cresciute cuocendo dolcetti al cacao nel Dolce Forno e ascoltando i racconti della mamma, che per vincere la paura durante i bombardamenti nel suo paese, la Corea, mangiava tavolette in carta argentata, per loro il cioccolato è come la colonna sonora in un film. Carezza nei momenti tristi, ricompensa per i successi, afrodisiaco per l'amore, tonico per lo spirito. Per questo, poco più che ventenni, decidono di aprire a Washington un piccolo negozio dedicato fin dall'insegna al loro cibo preferito: Chocolate Chocolate. In breve, il negozio diventa un paradiso per una clientela affezionata in cerca di piccoli piaceri. Tanto che, tra bancone e scaffali, spunta persino un Angolo delle Confidenze, dove nascono amicizie e si confidano segreti. Tra i clienti, c'è la Bella del Sud, che quando arriva porta il sole, il Dottor Zivago, di origini russe, che sembra uscito da un romanzo di Tolstoj. E l'esplosiva Gypsy Bess, esuberante coi suoi orecchini ad anello e gli abiti svolazzanti, femminista convinta e migliore amica di Ginger. Amori, delusioni, bambini in arrivo, clienti che se ne vanno e altri che arrivano con nuove storie da raccontare, la vita di Ginger e Frances scorre tra gli effluvi corroboranti e curativi del cioccolato. E se le cose si mettono male, come a volte capita, basta prendere un Tartufo...
E il 1939, e la vita di Nusia, cinque anni, scorre tranquilla a Leopoli. Il padre ha un laboratorio di sartoria, e Nusia, con la sorella Fridzia, ama giocare per le strade della città, inventando sempre nuovi giochi. Ma quei tempi stanno per finire. Nei cieli europei si addensano non solo le ombre di una guerra, ma anche quelle dell'odio e dello sterminio. E quando, dopo i russi, saranno i tedeschi a occupare la sua città, per la famiglia di Nusia, ebrea, il cielo appare definitivamente minaccioso. E per questo che suo padre, per salvare almeno lei, la consegna nelle mani di una donna cattolica, che la porterà in un orfanotrofio a Varsavia. Con un altro nome, con i documenti trovati chissà come di un'altra bambina. Una bambina cattolica. A vivere una vita che non è la sua, ma che è la sua unica salvezza. E questa sarà la storia di Nusia - una storia realmente accaduta che Alejandro Parisi, giovane scrittore argentino, trasforma in un romanzo trascinante. La vicenda di una bambina sola con la promessa fatta a suo padre, che porta su di sé il peso dei segreti e delle bugie, e dell'amore per la famiglia perduta. Ma che, grazie a un'inaspettata capriola del destino, ritroverà, alla fine, se stessa. E saprà qual è la strada da percorrere.
Benché uscito dopo la sua morte, questo libro porta a compimento un progetto di Parise: radunare intorno a "Gli americani a Vicenza" una costellazione di altri racconti più o meno coevi. Racconti che potrebbero figurare sotto l'etichetta "I dintorni del Prete bello", tanto appaiono variabili di quel romanzo popolato di personaggi festosamente eccentrici, ma in cui sopravvive anche qualcosa del Parise magico e surrealista del "Ragazzo morto": "gli occhi esposti alle prime impressioni del mondo come a un tiepido e funebre refolo d'aria primaverile - sbarrati davanti alla vanità inconsolabile che si cela dietro qualunque mistero" (C. Garboli). Basti pensare al viscido e vizioso don Claudio, dalla veste che sa "di incenso, di crema per dopo-barba e di un odore che avevo sentito vicino alle gabbie delle scimmie durante la fiera"; ad Adelina, la cui vita si spegne lentamente nel collegio delle Addolorate fra mirabili ricami e 'pazienze'; a Cleofe, che gira per la città vestita di fastosi cenci offrendo polvere che fa prurito, farfalle di carta giapponese, macchie finte d'inchiostro; a Teo, che si consuma d'amore per una donna a cui non ha neppure mai rivolto la parola, e quando alla fine riesce a sposarla, ormai vecchia, è solo per abbandonarla poco dopo - a tutti gli scherzi, insomma, che solo in provincia il destino gioca a chi gli viene a tiro, a tutte quelle storie che Parise (sono di nuovo parole di Garboli) sa "far decollare dalla pagina", con "mano senza peso" e con "il riso di eterno puer".
Antoine, che con una parrucca bianca e una redingote di raso azzurro vola in pallone; Squerloz, il costruttore di barche che vive in cantina con un barbagianni, una civetta e un topo bianco; Edera, che tutti credono una qualsiasi ragazza bionda mentre in lei "c'è molto di più e che non si può dire perché è mistero"; Leopolda e Massimino, coi loro occhi di vetro, la pelle di stracci e un corteo di infinite, orribili malattie. Sono gli esseri che popolano il mondo del ragazzo di quindici anni e del suo inseparabile amico Fiore, che non si rassegna alla sua morte e continua a cercarlo. Un mondo di fiabesche macerie, giornate spopolate dai bombardamenti, riti al dio Moloch, cinema dai sedili di latta storti e scrostati.
Alla fine degli anni Settanta, Goffredo Parise scrisse un romanzo, dopo un decennio in cui sembrava aver abbandonato definitivamente la forma romanzesca. Quel romanzo vede la luce soltanto adesso. Si potrebbe definire come un'anatomia dell'amore anziano: Parise racconta le peripezie mentali e corporee di una coppia di cinquantenni, entrambi coinvolti in una relazione amorosa con persone molto più giovani. L'epilogo del libro è tragico e violento.
Una serie di racconti brevi dedicati a sentimenti umani "essenziali" che, disposti in ordine alfabetico, compongono una sorta di dizionario. I primi racconti, da "amore" a "famiglia", uscirono sul "Corriere della sera" fra il 1971 e il 1972. Una seconda serie fu pubblicata fra il 1973 e il 1980 e nel 1984 i due Sillabari furono riuniti in un unico volume. Quei racconti controcorrente, frutto di una fulminante riduzione agli elementi primi della realtà, appaiono nitidi, assoluti, chiusi in una nervosa e brusca perfezione, capaci di evocare un intero mondo perduto. Come ha scritto Cesare Garboli, Parise "distilla la pietra filosofale del raccontare. Ma non racconta, fa qualcosa di più. Invoglia a pensare che il mondo sia raccontabile".
La prima notte che Marco trascorre a Tokyo è sorprendentemente silenziosa - e il suo sonno "simile a quelli della convalescenza o della salvezza". Mai, tuttavia, la singolarità delle sue inchieste è stata così lampante, e mai il loro fascino così intenso: a raccontarci il Giappone, "pianeta rotante nel silenzio e nella solitudine della volta celeste", è infatti un doppio dell'autore, in fuga da un paese sconvolto da "millenni di furti, ricatti e assassinii". E a muoverlo è quello stesso bisogno di essenzialità, di rigenerazione, che innerva uno dei vertici della narrativa di Parise, i Sillabati. Attraverso il suo sguardo infantile, il lettore conoscerà le più diverse facce del Giappone: dai templi di Kyoto, dove si può percepire "il distacco dal corpo che avviene per poco ossigeno", ai lottatori di sumo, che sprigionano la più alta forma di espressività fisiologica; dall'atelier dove il vecchio Moriu-guchi dipinge chimono con sicurezza sublime, "simile al lavoro appena frusciante dei bachi da seta nei granai", ai cantanti di gagaku, nella cui voce risuonano i "movimenti lentissimi degli immensi blocchi gelidi dell'era glaciale". E scoprirà l'anima segreta di un paese che cela, dietro la maschera occidentale, un "classicismo cellulare".
Il villaggio dei solenni Meo, nel Laos, pervaso dall'odore potente e «di immensa stravaganza » dell'oppio, dove tutto sembra sospeso; il lampo d'oro, destinato a durare per l'eternità, che gli occhi e i capelli di Ignazio, l'amico adolescente, mandano un giorno su un campo da tennis; la tigre avvolta dalla nebbia e come «distesa su piume o aria » che appare d'improvviso, alla luce dei fari, su una strada della Malesia; il pavillon fuori moda dove - fra spumeggianti bicchieri di Itala Pilsen, giovani donne fasciate di seta o rayon e ufficiali tedeschi col monocolo - pochi minuti di oscuramento e il fischio degli Stuka possono condensare la guerra; l'«arruffio di gesti tutti precisamente sintonici», facili e silenziosi, che nel ricordo si rivelerà essere l'amore; lo sguardo appannato, «come una pellicola selvatica poggiata sulla cornea», di una delle più famose spie, Kim Philby, colto in un albergo di Mosca. Sono gli inattesi lampi di verità, gli improvvisi scatti della memoria, le irripetibili manifestazioni dell'arte della vita offerti ai lettori del «Corriere della Sera» fra l'aprile del 1982 e il marzo del 1983: e non è un caso che, quasi a radunare idealmente questi brevi testi di massima densità in un terzo e più malinconico 'sillabario', Parise avesse scelto la rubrica Lontano. Perché quello che si impara - sembra dirci Parise - lo si impara di colpo, da un momento all'altro, ma per lo più nel ricordo, quando ormai è troppo tardi. E il mistero lo si può forse risolvere, ma una sola volta e per qualche secondo - e come «azzeccarlo, nella instancabile roulette»?
"Forse il modo migliore per leggere quello che insieme a "Il ragazzo morto e le comete", a "Il padrone" e a "L'odore del sangue" è tra i vertici dell'opera di Parise, è fare come se di Parise non conoscessimo nulla, e questo libro uscisse per la prima volta oggi. Che immagine ci faremmo dell'autore dei "Sillabari"? I suoi racconti sembrano prossimi alla Mitteleuropa di Peter Altenberg: nel sentimento che non scade nel sentimentalismo, nell'asciutta creaturalità, nella musica fintamente trasandata; ma può anche essere un seguace del Robert Walser dei racconti in forma di temi di scuola: meno follemente didascalico, più narrativo, più "carnale"; o può somigliare a uno scrittore americano alla Truman Capote: per lo sguardo acuto e quasi tattile che cala nel mondo dell'adolescenza, per la capacità di dare parole ai trasalimenti privi di parole del corpo". (Giuseppe Montesano)