
“All’inizio c’era un albero, un albero d’autunno – senza più foglie
ma con dei piccoli frutti gialli per gli uccelli d’inverno.
E già nevicava …
… poi c’erano le nuvole: strane, non autunnali, estive piuttosto.
Il cielo era scuro, cupo, si udivano dei tuoni.”
“Sarebbe stato innaturale operare delle distinzioni rigide tra le diverse parti del libro, dividendolo in “segmenti”, mentre è piuttosto utile seguire il ‘sentiero di circolazione’ della lettura sulla mappa generale. Per questo il libro comincia con Alexandra, per poi proseguire con i racconti brevi che introducono note relative alla storia, alla guerra e ai ricordi familiari – alla base della poetica e della visione del mondo di Sokurov, esposte poi nei Diari e quaderni di lavoro –, fino ad arrivare agli Appunti per delle lezioni di filosofia, i quali per il tono poetico rimandano più allo stile recondito dei diari che ad un essai di intento filosofico-estetico. Da questa prosa intima l’autore conduce poi il lettore alle Elegie, seguite da una specie di “lettera a se stesso” intitolata Il mio posto nel cinema. Il libro si conclude infine con il frutto delle riflessioni su Ejzenstejn, i cui disegni servono in realtà a Sokurov come spunto per rileggere di nuovo il mondo e l’arte, oltre che se stesso. In questo modo il lettore, condotto dalle steppe cecene alle silenziose stanze del Cremlino fino alle isole giapponesi, può avvertire la vita pulsante dello spirito dell’autore e diventare testimone di come egli si senta in questo mondo – immergendosi nell’intimità dei suoi diari e delle memorie, e superando così l’apparente non-fluidità di un’opera non omogenea.”
Dalla Postfazione di Alena Shumakova
Una fiaba amara di Adriano Sofri con le illustrazioni di Sergio e Isabella Staino. Una narrazione di parole e immagini che ci fa guardare il mondo da un punto di vista diverso, perchè ci porta direttamente nel vero "altro mondo", quello dove in tanti passano la vita senza poter fare quasi nulla di ciò che siamo soliti considerare "umano" e "normale". "Dato che preferiscono dormire all'aria aperta, certe volte gli angeli custodi non si accorgono che il loro detenuto custodito viene acchiappato a tradimento prima dell'alba e imbarcato verso qualche altro carcere."
Il volume contiene tre parti, fra loro collegate dalla stessa domanda sullo stato del mondo - più esattamente: sulla fine del mondo - e sulla combinazione fra memoria e smemoratezza. Un capitolo si chiede che cosa sia davvero quella "eterogenesi dei fini" che, nonostante l'astrusità, è diventata così ricorrente nella pubblica conversazione. E che conseguenze abbia l'idea che i risultati delle azioni umane non corrispondono, e spesso tradiscono e rovesciano, gli scopi da cui sono partite, sul modo di pensare alla politica, e di praticarla. Un capitolo si interroga sull'ottimismo, dunque sul pessimismo. Sull'effetto che la lontananza e la vicinanza, e la grandezza e la piccolezza, esercitano sulla compassione per le sciagure umane. Un ultimo capitolo ripubblica la "Lettera a un aspirante terrorista" (maggio 2007) ed esamina i commenti turbolenti che ha suscitato, raccontando una serie sorprendente di precedenti, e mostrando i capricci della memoria pubblica e privata.
Un biografo ha scritto che «una singola sillaba in Kafka può suscitare le emozioni del lettore fin nel profondo». Ecco, io sono uno di questi. Nel mio caso si tratta di una parola, benché a variare siano solo due sillabe. La parola è Strassenlampen (lampioni), e sta all’inizio della seconda parte della Metamorfosi. Tutto è cominciato quando mi sono accorto che nella più classica traduzione italiana invece dei lampioni c’era un tram. Come si fa a prendere un tram per dei lampioni? Ho guardato in giro: in una quantità di traduzioni nelle più diverse lingue sbucava il fantomatico tram. Che in tedesco si chiama Strassenbahn. Se un commesso viaggiatore può svegliarsi trasformato in uno scarafaggio, direte, anche un lampione può trasformarsi in un tram. L’apparente strafalcione, tram per lampioni, era già nella prima traduzione della Metamorfosi, uscita anonima nel 1925, un anno dopo la morte di K. Risalendone la peripezia ci si imbatte nell’appropriazione indebita di quella traduzione da parte di un gran signore delle lettere universali come Jorge Luis Borges. La traduttrice vera era Margarita Nelken, una donna spagnola dalla vita brillante, tumultuosa e triste.
Non era questo però a motivare il fervore che mi aveva preso. Il fatto è che a un certo punto mi è sembrato che il tram al posto dei lampioni fosse più bello, e che illuminasse la conclusione stessa del racconto. E non fosse un errore – Strassenlampen e Strassenbahn possono confondersi – ma una variante introdotta dallo stesso Kafka. Proporre una correzione addirittura della Metamorfosi è quasi come sfidare la lettera delle sacre scritture per le quali si fanno guerre micidiali. La filologia laica risparmia lo spargimento di sangue, tutt’al più qualche spargimento di cattedre. Ma è stato bello immaginarsi alleato di Kafka contro l’ordine tipografico costituito. Lettrici e lettori scusino le pagine pedanti: si possono saltare e riprendere dove la trama – il tram – torna sui suoi binari. A. S.
Edipo a Colono è una tragedia di Sofocle, rappresentata postuma nel 401 a.C. In questo dramma scopriamo la fine di Edipo, una misteriosa e benevola sparizione in un posto delizioso, il boschetto di Colono. Dopo la lotta con una sofferenza assoluta, Edipo trova la pace. Sofocle era vecchissimo quando scrisse le ultime parole di Edipo e nel lasciar svanire il suo personaggio ci lascia di sicuro qualcosa anche di sé: l'amore assoluto per la propria terra, la dolcezza degli affetti, una lucida riflessione sulla vita e sulla speranza di una pietà che arriva per tutti.
Lorca ha quattordici anni, molti sogni e un solo grande amore: una madre distante come le stelle nel cielo, con una carriera di chef che sembra essere più importante di qualunque cosa, anche della figlia. È per questo che da un po' anche Lorca sperimenta in cucina: per stupire la madre, e farsi regalare quell'attenzione di cui ha bisogno come dell'aria. E così, giorno dopo giorno, inforna croissant, miscela ingredienti, impara i nomi di aromi e spezie. Finché, ascoltando i discorsi della madre, scopre che esiste un piatto speciale, dal nome difficile e dal sapore delicatamente speziato, che la mamma ha assaggiato solo una volta, tanti anni fa, e mai più riprovato. Si chiama masgouf, ed è un piatto che arriva dall'Iraq. Lorca decide che è con questa misteriosa ricetta che riconquisterà sua madre, riportandole il sapore di quei giorni perduti. Ed è così, cercando qualcuno che conosca l'Iraq e i suoi piatti a base di menta, curry, zafferano, che Lorca incontra Victoria: una vecchia signora di Baghdad, che dà lezioni di cucina... Tra le due nasce un legame speciale, un'amicizia che colora le loro giornate e va ben al di là di quella ricetta che ormai, per Lorca, assomiglia più a una formula magica. Ma Victoria ha in serbo per lei molte sorprese: perché custodisce un segreto doloroso e inafferrabile, che le toccherà entrambe molto da vicino.
Isaac Amin è in carcere, accusato di spionaggio perché ebreo nell'Iran che ha fatto del regime islamico la sua bandiera. Ai compagni di prigionia giunge notizia dell'esecuzione sommaria dei loro familiari. A Isaac è negato ogni contatto con l'esterno, può solo amarli da lontano e augurare a loro una buona vita. Farnaz osserva il giornale, ancora aperto su un articolo che il marito probabilmente non ha mai finito di leggere. Ripensa alla sera prima, l'ultima trascorsa insieme, sprecata in una discussione sulle condizioni sempre più allarmanti del Paese, argomento che lui odiava. A un oceano di distanza, Parviz lavora nel negozio di cappelli del suo padrone di casa a Brooklyn, per pagare l'università e l'affitto. Strano che fra tante ragazze, si sia innamorato proprio della figlia del padrone, Rachel, timida e molto religiosa. È come se Parviz, incapace di tanta fede, delegasse a lei le sue preghiere per la salvezza del padre lontano. Shirin non ama i maghi e i trucchi con cui fanno sparire le cose e le persone. Come quelli che succedono a casa sua, dove sono scomparsi la teiera d'argento e l'anello con lo zaffiro della mamma. Forse sono solo fuori posto, le dicono. E Shirin pensa che deve essere successa la stessa cosa a suo padre, che non si vede da giorni. Magari, prima o poi, ritroverà anche lui al suo posto, nella poltrona di pelle in soggiorno, tra i libri e le sigarette, a sorseggiare il tè che gli verserà dalla teiera d'argento la mamma, di nuovo con l'anello al dito.
Cos'è davvero la «Divina Commedia»? Non certo un polveroso tomo o una mera reminiscenza scolastica. Il poema immortale di Dante è ben altro: una «strepitosa storia d'amore», piuttosto, un'«esplosione di entusiasmo per Dio» e, soprattutto, il resoconto memorabile del viaggio più estremo e drammatico che un essere umano possa compiere. Un capolavoro che per la sua capacità di comunicare la potenza della fede cristiana e di parlare a ogni generazione, dovrebbe essere lettura indispensabile per noi cittadini spaventati di questo cupo XXI secolo, inghiottiti dal buio interiore della selva oscura in cui tutti, prima o poi, ci troviamo a vagare. Questa originale "traduzione" dell'«Inferno» - che qui rivive fedelmente in prosa e con le parole dell'italiano corrente - mostra l'impressionante contemporaneità dei temi e dei personaggi danteschi. Già la condizione iniziale del protagonista non può che stupire. È così moderna, così immediata per noi: l'angoscia, lo smarrimento, la solitudine, il sentirsi "gettati" nel mondo, la paura, la disperazione, il fallimento, il sentirsi braccati. Un'esperienza sbalorditiva in cui riconoscersi: perché il viaggio di Dante non è semplicemente grandiosa immaginazione, ma visione, testimonianza, esperienza. È un vero e proprio cammino di conversione, e il passo iniziale è costituito precisamente dal guardare in faccia il male. Se la modernità ha solo creduto di capire Dante, e in realtà non l'ha capito affatto, è perché ha creduto di conoscere il cattolicesimo. Dobbiamo avvicinarci all'«Inferno» con la stessa curiosità che si avrebbe per un poema riportato alla luce dalle ricerche su una civiltà perduta. Solo così la «Commedia», che è anche il racconto della risalita dall'abisso, fino a «rivedere le stelle», saprà rivelarci tutta la meraviglia del suo percorso di salvazione.
Un pirotecnico romanzo che attraversa quarant'anni di storia: fotografie e illustrazioni d'epoca, descrizioni di luoghi e monumenti, resoconti di momenti storici, canzoni di film, articoli di giornale documentano la prima metà del Novecento. Il tutto condito dal gusto del comico, garantito da Dimitri, protagonista involontario e confusionario dei grandi eventi.

