
Tra le mura di palazzo Sinagra giace il cadavere di un agente immobiliare, Antonello Ribba. Chi l'ha ucciso? Difficile essere sicuri di qualcosa, in un luogo popolato di antichi fantasmi come i Sassi di Matera. Tutto sembra inafferrabile, da quelle parti perfino la speculazione edilizia assume contorni quasi kafkiani. Quel che è certo è che ci sono in ballo sentimenti estremi, nei quali la nostrapPiemme si identifica pericolosamente. Ma se il suo tribunale interno la dichiara colpevole, e lei si sente per un attimo un'Anna Karenina in salsa materana... non ha nessuna intenzione di gettarsi sotto un treno! In un palazzo disabitato dalle parti di via del Riscatto, nell'inquietante stanza rossa decorata con i vizi capitali, viene trovato il cadavere di un agente immobiliare. L'indagine questa volta si snoda proprio nel cuore dei Sassi, fra antichi monasteri, madonne bizantine, grotte e mura seicentesche. Al quarto appuntamento, Imma Tataranni è piú insofferente e peggio vestita che mai. Con lei ritroviamo la colorata tribú che sempre l'accompagna. La suocera, che giocherà un ruolo nell'indagine, sperando di conquistare terreno nella Matera bene. La cognata, che sente i fantasmi. E il marito Pietro, che ha tanta pazienza, ma prima o poi la potrebbe perdere. Come in una partita a poker, la piemme materana in tacco dodici dovrà capire, fra i tanti sospettati, chi è che bluffa. Ma anche tenere a bada il bel maresciallo Calogiuri, che sentendosi trattato come un toy boy le fa imbarazzanti scenate di gelosia. Per non parlare di sua figlia Valentina, che abbraccia ideologie estreme, e potrebbe mettere nei guai anche lei. In una Matera sospesa fra riscatto e speculazione edilizia, c'è chi si abbandona all'autocelebrazione, e chi sviluppa per la stessa un'antipatia tale da poter indurre all'omicidio...
A Tangeri chi si arrampica sugli scogli di fronte allo Stretto può seguire il viavai dei traghetti che fanno la spola con la Spagna. Su quegli scogli Bassam sogna di andarsene. Lakhdar no, l'Europa non lo attira: e invece sarà proprio lui a partire. Il suo viaggio comincia a diciassette anni, quando il padre, musulmano ortodosso, lo sorprende a letto con una cugina e lo caccia di casa. Da lì in poi la sua vita è vagabonda, ormai Lakhdar può fare affidamento solo su se stesso. Sfiora un gruppo di estremisti islamici in cui l'amico Bassam rimarrà impigliato, passa da un lavoro all'altro e, assoldato da una compagnia di traghetti, approda in Spagna. Conosce i bassifondi e legge gialli, cerca il sesso in un bordello e brucia d'amore per una studentessa spagnola. Ovunque la violenza pervade l'aria, pare inevitabile che prima o poi Lakhdar ne sia contagiato. Dalla Primavera Araba alla Spagna degli indignati, ancora una volta Énard fa sentire la sua voce autentica e irriducibile.
Due scrittori giovani d’età ma di letture alte e profonde attraversano Roma a piedi e in motorino, insieme e da soli, cercando di trovare nella loro città – lui c’è nato, lei l’ha scelta – le tracce della presenza di scrittori e poeti che amano e che non ci sono più: Elsa Morante e Gianni Rodari, Anna Maria Ortese e Pier Paolo Pasolini, e altri ancora. Strade, piazze, palazzi, scorci, negozi compongono così una mappa viva e vivida, animata dalla memoria di vicini, amici, anche solo vaghi conoscenti che hanno tenuto per sé qualche dettaglio di incontri passati e sono disposti a condividerlo. La memoria è un’impostora che mescola a suo piacere verità e invenzione; la memoria altrui è un mistero ancora più grande: e chi può dire se gli incontri testimoniati in questo piccolo libro siano veri o inventati? o dove finisce il vero e comincia l’invenzione? Forse non è importante: importanti sono i lampi, le luci e le ombre, le sorprese e i misteri collezionati da Angela Bubba e Giorgio Ghiotti nel loro lieto pellegrinaggio denso di emozione e di rispetto.
Nella notte tra il 23 e 24 ottobre 1917, sull'esercito appostato sul fronte di Caporetto si abbatte l'inferno. Gli austro-ungarici, col rinforzo di truppe germaniche, travolgono in poche ore le truppe italiane, stanche e demotivate dopo quasi tre anni di sanguinose e vane battaglie. In breve, la parola che in principio si osava appena sussurrare si fa evidenza: disfatta. Abbandonati a loro stessi dai generali, i soldati allo sbando attraversano il Friuli sconvolto. I civili, impauriti dall'avanzata del nemico e dall'amaro spettacolo di un'armata sconfitta, sono andati a ingrossare la triste colonna dei soldati in ritirata. Tra questi, c'è anche il sergente Tarcisio Angeretti, contadino bergamasco prestato controvoglia alle armi. Come del resto molti dei suoi commilitoni, mandati a combattere - e a morire - per ragioni che nessuno di loro comprende. Tranne forse Libero Santini, il socialista del battaglione, che la sa lunga su deboli e potenti; ma è pericoloso starlo a sentire. Tra episodi di viltà e sopraffazione, razzie e violenze, ma anche di grande generosità e amicizia, la strada di Tarcisio si incrocia con quella di altri militari, non solo eroi e non solo vigliacchi, e di civili. Come la "Bertini", donna perduta che nasconde nel cuore una pena segreta. O Ersilia, giovane e coraggiosa vedova di guerra, decisa a tutto pur di portare in salvo la piccola Anita, l'orfana ribelle, inseparabile dal suo orsacchiotto di pezza.
"Mi chiamo Alidad Shiri. Il mio nome vuol dire "dono di Alì". Il mio cognome, Shiri, indica l'abbondanza e la bontà del cibo. Vuol dire infatti: tanto latte, molto dolce. Sono cresciuto in Afghanistan, nella città di Ghazni, ma quando avevo nove anni i talebani hanno ucciso il mio papà. Pochi mesi dopo la mia mamma, la mia sorella più piccola e la mia nonna sono morte sotto un bombardamento. Allora, con i miei zii, mio fratello e mia sorella più grandi siamo emigrati in Pakistan perchè per noi era pericoloso rimanere. Ma lì non c'era futuro per me. Con un amico sono emigrato clandestinamente in Iran dove ho lavorato per due anni in una fabbrica di Teheran finchè ho guadagnato abbastanza soldi per fuggire in Europa. Dopo un lungo e pericoloso viaggio sono arrivato in Alto Adige legandomi sotto un tir che partiva dalla Grecia. Adesso ho sedici anni e vivo a Merano. Con l'aiuto della mia insegnante di italiano, Gina Abbate, vi racconto la mia storia".
"A scarnirlo dalla meravigliosa tessitura in cui è intrecciato - scrive Attilio Bertolucci - il romanzo presenta la struttura semplice, quasi elementare, delle ballate popolari... O del melodramma, verrebbe voglia di aggiungere: non manca neppure il basso continuo del coro villereccio, con voci soliste che di tanto in tanto se ne escono fuori in effetti, per lo più comici, irresistibili. Ma come si fa a scarnirlo, se si è continuamente presi nell'incantagione della sua musica e dei suoi colori, nel suo tempo lento, bradicardico, con appena qualche accelerata convulsa nei momenti tragici?"
Hardy è un meraviglioso creatore di figure femminili, e Batsceba, la protagonista di "Via dalla pazza folla", è la prima e la più incantevole di esse. Irrequieta e indipendente, intelligente e svagata al tempo stesso, crede di raggiungere una completa autonomia quando eredita un magnifico podere e un'antica casa signorile. Ma la bella forestiera finisce col trovarsi contesa fra tre pretendenti: lo sfortunato, ma forte e sereno Oak, suo lavorante e fattore; il ricco fittavolo Boldwood, grave e austero; lo spregiudicato sergente Troy. È quest'ultimo ad avere la meglio sulle prime, ma alla fine sarà Oak con la sua cieca e malcompresa devozione a salvare le sorti della padrona e del piccolo mondo bucolico di Watherbury dai rovesci della sorte. Affascinante ballata rurale e primo grande romanzo di Hardy, "Via dalla pazza folla" (1874) è insieme il punto di passaggio fra la maniera idillica degli esordi e la visione tragica della maturità.
Pochi ingredienti, un angelo, un bambino, un volo in deltaplano mettono in moto le riflessioni dell'autore sul proprio passato, sull'amore, sul dolore, su tutti gli aspetti più importanti dell'esistenza. L'autore incentra la propria narrazione sul distacco e sulla necessità di lasciare il nido, per poter spiccare il volo con cui inizia la propria vita.
Quando, alla fine del secondo pannello della trilogia, il giovane Tito, signore di Gormenghast, trova la forza di strapparsi al suo reame, la cui bellezza si è ormai corrotta in cupa fatiscenza, le parole della madre - "Non esiste un altrove. Tutto conduce a Gormenghast" - sembrano richiudersi sulla sua fuga come una pietra tombale. Scoprirà che un altrove esiste, ma che è divorato non meno di Gormenghast dal Male: la città a cui approda è solcata dalle disumane meraviglie del controllo poliziesco - figure con l'elmetto che paiono scivolare sul terreno, sciami di velivoli senza pilota simili a equazioni di metallo, globi dalle viscere colorate quasi umane -, sottomessa a una scienza dispensatrice di morte. E nei cunicoli del Sottofiume vive una immane popolazione di reietti, fuggiaschi, falliti, mendicanti e cospiratori che non vedranno mai più la luce del sole. Scoprirà che al di là della sua nessun'altra realtà è per lui decifrabile, così come la sua è per gli altri inconcepibile: lontano da Gormenghast non c'è che l'ossessione del ricordo, e la follia. Dovrà, sorretto dall'aiuto di pochi - il gigantesco Musotorto, l'amorosa Giuna, i transfughi del Sottofiume Cancrello, Frombolo e Sbrago -, combattere, sfuggire a insidie, sottrarsi a ogni vincolo d'amore, amicizia e riconoscenza per conquistare l'unica verità che conti: "Era come una scheggia di pietra, ma dov'era la montagna dalla quale si era staccata?".
In via Castellana Bandiera - una viuzza di Palermo, anzi una fessura che neanche si trova nelle tavole di Tuttocittà, stretta tra il mare e la montagna - vive la schiamazzante famiglia Calafiore, dominata da un patriarca tirannico, il settantacinquenne Saro. Cinque figli, nuore e nipoti, tutti nella stessa palazzina (si odiano, ma per nessuna ragione al mondo si separerebbero). Quando nel loro territorio si scatena una disputa - due auto che non vogliono cedere il passo e bloccano per un giorno e una notte il vicolo - sono i Calafiore a guidare il coro di spettatori-tifosi e a organizzare un giro di scommesse. Ma la farsa è destinata a diventare tragedia.
"Sono tanti i modi in cui possono essere accolte le giovanili lettere familiari di Andrea Camilleri. Uno però trascende tutti gli altri. È il modo di lettura di un oroscopo: di una osservabile configurazione astrale disegnata dai segni zodiacali e dai pianeti, metaforicamente trasposti nelle lettere che fanno sistema e determinano i pronostici sul maturo inventore del commissario Montalbano, sapiente lettore degli stessi libri preferiti dall'ancora inconsapevole scrittore di lettere; e di quell'irresistibile folletto chiamato Catarella, incarnazione di una plateale gestualità e teatrale comicità già portate in scena negli sketches improvvisati da Camilleri nelle sue carte messaggere. Il Camilleri dell'epistolario è un infervorato studente fuorisede. Vive a Roma. È un borsista dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica. Ha due insigni maestri, Silvio d'Amico e Orazio Costa. Fa subito amicizia con Vittorio Gassman, giovane attore del teatro di posa. Lui studia regia teatrale. È un moderno Robinson Crusoe, che di continuo deve inventarsi un alloggio sempre provvisorio, le suppellettili necessarie, tutti i gesti della giornata tra il lavaggio della biancheria e la ricerca di un ristorantino alla portata delle sue tasche semivuote, nonostante le sollecite sovvenzioni di una famiglia tutt'altro che ricca. In casi estremi può sempre contare su qualche generoso buffet da assaltare, magari in compagnia di una attricetta dell'Accademia e intonando «inni di guerra» condivisi dagli invitati più illustri: fra i più insospettabili, scrittori come Moravia o attori già affermati come Massimo Girotti. C'è qualcosa di picaresco nella narrazione epistolare, spesso autoironica e spettacolare: anche nel caso di quel convulso correre, qua e là, senza sosta, alla ricerca di un lavoretto. E intanto Camilleri studia, studia, studia. Pubblica poesie, racconti, articoli. Scrive soggetti per il cinema e per la radio. Si propone come regista. Riesce a collaborare con l'Enciclopedia dello spettacolo. E fa incontri strabilianti, come una volta accadeva ai cavalieri erranti. Conosce, insieme a Jean-Paul Sartre, il grandioso e canagliesco Jean Genet: scrittore e drammaturgo, ladro, cinico, generoso e argutamente spiritoso. Camilleri chiede il recapito all'ospite. Si sente rispondere che l'indirizzo più si- curo è, ovviamente, il carcere. Camilleri è giovane, giovanissimo. Ama il teatro. E come regista ha capacità anche rabdomantiche. Fa sgorgare l'acqua, dove tutti vedono solo cespugli secchi e pietrame. Annusa nell'aria, pure. Capta il vento che arriva. Anticipa i tempi, mettendo in scena autori ancora non sperimentati in Italia. Si chiamano Ionesco e Beckett. Sono gli anni 1957- 1958. Gli capita di cercare un attore all'altezza della parte. Non riesce a trovarlo. Gli piace azzardare. E decide di sostituire l'attore con un manichino. Il successo è strepitoso." (Salvatore Silvano Nigro)