
«Quello che voglio raccontarvi, dovete sapere, non è una ballata di quelle che si leggono nei libri, né una storiella dalle Mille e una notte. È una vicenda vera, mi capite?». Un vecchio treno è il luogo d'azione delle storie raccolte in questi «racconti ferroviari». Situazioni tragicomiche e grottesche passano davanti allo sguardo attento di Aleichem, che le racconta con il suo inconfondibile tono tenero e umoristico. Protagonisti della bislacca odissea ferroviaria sono gli ebrei dell'Europa orientale, un'umanità di piccoli commercianti, sarti, merciai, usurai, bottegai con le loro fissazioni e stramberie. «Stazione di Baranovitch» narra di un ebreo che per non essere umiliato in pubblico viene fatto credere morto e fugge in un altro paese, dal quale rivolgerà continue richieste di danaro alla comunità. «L'uomo di Buenos Aires» racconta di un uomo che ha fatto fortuna in modo misterioso e viene accolto come il Messia. «Tomba di famiglia», infine, esprime in modo quasi paradigmatico il conflitto generazionale tra padri e figli.
"Lo stato delle cose" è l'ultimo capitolo della trilogia di Frank Bascombe, già protagonista di "Sportswriter" e "Il giorno dell'Indipendenza". Frank ha cinquantacinque anni, fa l'agente immobiliare e abita nell'immaginaria Sea-Clift, una cittadina costiera su quella lingua di terra che separa il New Jersey dall'Oceano Atlantico. È il 2000, l'anno del Millennio, l'anno delle elezioni presidenziali che videro contrapposti Gore e Bush e che decretarono l'inizio di uno dei periodi più bui della politica statunitense. Anche per la vita privata di Frank Bascombe è stato un anno a dir poco impegnativo: Sally, la seconda e amatissima moglie, lo ha lasciato, Frank ha scoperto di avere un tumore alla prostata, ha litigato duramente con il figlio Paul, la figlia Clarissa ha deciso di provare a essere eterosessuale e, per complicare ulteriormente le cose Ann, la ex moglie, gli ha confessato di amarlo ancora e di voler tornare a vivere con lui. Sono tre giorni di riflessioni sulla vita e di ricordi ma anche di grandi e piccoli eventi che costringono Frank a raggiungere un livello di onestà assoluta con se stesso, quel livello in cui un essere umano capisce che non può sfuggire agli eventi della propria vita, ma che li può solo accettare - profondamente, dolorosamente, liberatoriamente per continuare a vivere nel pieno senso della parola.
La statale 18 è una delle tante arterie stradali del sud. Strada mortale, disseminata di curve, gallerie, incantevoli scorci, ma anche brutture vergognose. Il dissennato abusivismo, la gestione sconsiderata delle coste cementificate, ma anche le contraddizioni di località sul mare che uniscono ai loro panorami mozzafiato, un’inquietudine nascosta. A pochi chilometri dalla più famosa e famigerata Salerno-Reggio Calabria questo lembo di asfalto, che unisce le località tirreniche della Calabria, è lo specchio più fedele di una regione e di un paese. Mauro Francesco Minervino, antropologo e scrittore tra invettiva e poesia racconta ed emoziona come i narratori ottocenteschi del gran tour. La Statale è un pretesto per descrivere un’Italia ancora pasolinianamente impossibilitata alla modernizzazione, tra degrado ambientale e la natura che resiste. Con la stessa efficacia e la malinconia di George Gissing, Minervino affronta la Statale 18 come se fosse il percorso di un intellettuale in mezzo alle macerie in cui si gioca una partita tra conservazione e ricostruzione, paese legale e paese nascosto, cosche e istituzioni, la continua dialettica di un sud che va narrato.
Joan è la madre, Eloise è la figlia. La prima, un'adorabile signora che ha superato l'ottantina, non può più vivere da sola. La seconda ha un lavoro troppo importante per non essere sola: è una consulente d'investimento di grande successo e lavora per un'azienda della City. Insieme cercano una casa per anziani e la trovano: 17 Huntley Gardens, a sud del Tamigi, un edificio maestoso costruito da una ricca famiglia di mercanti del XIX secolo e trasformata in casa di riposo alcuni anni prima. Per ammorbidire il trauma del trasferimento decidono di fare un viaggio in Sudafrica, loro paese d'origine. Lì, la madre trova ombre e tracce del passato drammatico della famiglia intrecciate con la storia di quella nazione lontana. Tracce che si collegano inaspettatamente con la storia della casa di ricovero londinese. Joan, dopo aver fatto ritorno a Londra, scivola, a causa di un incipiente Alzheimer, in un mondo in cui tornano attuali tutti i fantasmi del passato. È convinta di poter viaggiare nel tempo: vuole salvare i bambini che tanti anni prima abitavano in casa Huntley dalle attenzioni di un pedofilo che probabilmente aveva violentato anche sua zia Hannie. Nel frattempo, Eloise, al principio egoista e viziata, capisce che deve prendersi cura della madre, il solo amore costante nella sua vita.
«Sono nata ricca, ma ho visto la mia fortuna involarsi come uno stormo d’uccelli. Soltanto i miei ricordi mi appartengono, sono tante fragili tracce impresse dentro di me. Certi giorni, il sole le illumina; certe notti, rimangono intrappolate in una tempesta di ghiaccio.
Vivevamo a Marache, in Turchia, al confine con la Siria. È lì che sono venuta al mondo nel 1901. Mio nonno, Joseph Kerkorian, era armeno. Un uomo importante e saggio, solido come una roccia. Se, dopo l’inferno che ho conosciuto, dentro di me è rimasta una particella di fiducia nell’umanità, è grazie a lui.
Avevamo una casa magnifica, e un immenso giardino dai fiori di mille colori. Sono stata amata da mio padre, dalla mamma dai baci di lavanda, dalla sorellina Marie, dal mio impetuoso fratello Pierre e da Prescott, il nostro gatto armeno con un nome da lord inglese. E da Gil, il piccolo orfano ribelle che un giorno, sotto il salice piangente, mi ha dato il mio primo bacio. Erano giorni immensi, eppure non potevano contenerci tutti.
Nell’aprile 1915, il governo turco ha preso la decisione che ha precipitato le nostre vite nell’orrore: gli armeni dovevano sparire.
Può un cuore dilaniato continuare a battere? E un giardino devastato dare nuovi fiori? Come posso donare ancora, proprio io, a cui hanno tolto tutto?
Ascolta Joraya, mia adorata nipote, il racconto di una vita mille volte dispersa.»
Nelly Boxall, la cuoca di Virginia Woolf, non ebbe mai una stanza tutta per sé; dovette condividerla per anni con la cameriera Lottie, peraltro sua amica. Il diritto ad averla quella stanza, - che la Woolf, pubblicando "Una stanza tutta per sé", eresse a condizione essenziale per una donna intellettualmente emancipata - è pervicacemente negato alle sue domestiche. Ma questa è solo una delle contraddizioni che segnano il lungo e tormentoso rapporto di Nelly con la sua signora, raccontato in questo libro di Alicia Giménez-Bartlett. La Bartlett racconta di come si sia appassionata alla vicenda di Nelly e di casa Woolf e, al resoconto delle sue ricerche sull'Inghilterra dell'epoca, alterna il racconto della cuoca così come viene fuori dalle pagine del giornale intimo che Nelly tenne per 18 anni (il tempo che rimase al servizio della scrittrice), riordinato e riempito grazie alla lettura comparata dei due diari, quello della cameriera e quello della signora.
Il romanzo racconta la storia di una donna bellissima e audace, che attraversa gli anni difficili del '900, cercando di aver salde in mano le redini del potere. Naturalmente alla fine il mondo sfuggirà al suo controllo, come la sua incantata bellezza sfiorirà impietosamente, ma la lotta tra amore e potere, che si combatte nella sua stanza, è appassionata e crudele e Isabella ne è per lungo tempo al centro come una torbida e inquietante eroina.
È un pomeriggio d'estate a Bombay nel quartiere malfamato di Kennedy Bridge. A partire dalle prime ore del pomeriggio, i marciapiedi davanti ai bordelli e ai ritrovi per soli uomini si riempiono di sguardi equivoci e indiscreti. Proprio nei pressi dei bordelli, in fondo alla strada, vive Dhondutai, la grande musicista, l'allieva di Bhurji Khan, il figlio di Alladiya Khan, il leggendario fondatore del gharana di Jaipur, una delle più antiche scuole di musica classica indiana, e di Kesarbai, la cantante celebre per essere stata una donna senza peli sulla lingua, ma che quando intonava un raga di straordinaria bellezza dietro l'altro trascendeva davvero la sua natura mortale. Sono le cinque, quando Namita e sua madre arrivano a casa di Dhondutai. Namita ha dieci anni e un solo desiderio: fare sua la divina arte dei raga. La sua futura insegnante la accoglie con un sorriso angelico. Alta più o meno un metro e mezzo, porta una sari bianca, stirata e inamidata con cura. Ha i capelli neri cosparsi da un'abbondante dose di olio e un aspetto sorprendentemente giovanile. La fa subito entrare nella stanza della musica: una cameretta angusta, con due lucidi tanpura appoggiati alla parete, i muri spogli, a parte una fotografia ingiallita dei genitori, un Ganesh in technicolor, ritagliato dal vecchio calendario di un'industria farmaceutica, e il ritratto di Kesarbai Kerkar, con il capo coperto da una sari bianca, i capelli con la riga da una parte e un filo di perle al collo.

