
Dal 25 gennaio al 24 marzo 2020, sessanta giorni, sessanta capitoli pubblicati online. Dai primi momenti di incertezza alla speranza, passando per le ore più difficili, Fang Fang ha messo nero su bianco la vita durante la prima quarantena mondiale, quando l'Occidente guardava ancora a Wuhan come a un caso eccezionale e lontano. Che non lo riguardava. Mentre l'autrice documenta l'inizio della crisi sanitaria globale in tempo reale, ci troviamo a riconoscere chiaramente, quasi fossimo di fronte a uno stupefacente ritorno al futuro, le fasi che tutti abbiamo vissuto, con poche settimane di scarto. Le difficoltà e le emozioni, potenti e impreviste. Fino al giorno in cui la libertà sembra spuntare in lontananza. Il giorno in cui, chiudendo il diario, Fang Fang cita San Paolo: "Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede". Postfazione di Michael Berry.
Il nuovo romanzo di Ha Jin, vincitore del National Book Award americano con "L'attesa", è l'opera più ambiziosa dello scrittore cinoamericano: una storia che si confronta con l'umiliazione e la speranza, la barbarie e la dignità della condizione umana illuminando un lato sconosciuto di una guerra poco nota: i campi di prigionia organizzati dagli americani durante il conflitto coreano.
"Volver è un titolo che include vari ritorni, per me. Sono tornato, un poco, alla commedia. Sono tornato all'universo femminile, a La Mancia (è senz'altro il mio film più strettamente mancego, il linguaggio, le abitudini, i cortili, la sobrietà delle facciate, le strade lastricate), sono tornato a lavorare con Carmen Maura (non lo facevamo da diciassette anni), con Penélope Cruz, Lola Duenas e Chus Lampreave. Sono tornato alla maternità, come origine della vita e della finzione. E, naturalmente, sono tornato a mia madre [...]. Il ritorno principale di Volver è quello del fantasma di una madre che appare alle proprie figlie. Nel mio Paese queste cose accadono (sono cresciuto ascoltando storie di apparizioni), tuttavia alle apparizioni non ci credo. Solo quando accadono agli altri, o quando accadono nella finzione. E questa finzione, quella del mio film (e qui viene la mia confessione) ha provocato in me una serenità che non avvertivo da tempo". (Pedro Almdóvar)
"I fatti della vita di Meyrink sono meno problematici della sua opera. Nacque nel 1868 in una città della Baviera. Sua madre era attrice. (Sarebbe troppo facile constatare che la sua opera letteraria è istrionica). Monaco, Praga e Amburgo si divisero gli anni della sua giovinezza. Sappiamo che fu impiegato di banca e che aborrì quel lavoro. Sappiamo anche che tentò due rivincite o due forme di evasione: lo studio confuso delle "scienze occulte" e la composizione di scritti satirici". Con queste parole, a sei anni dalla morte dello scrittore, Borges presentava Meyrink ai lettori argentini, mettendone in luce, da grande critico, il principale merito: scrivere narrazioni oniriche che siano anche leggibili.
In una discarica alla periferia di Mosca viene trovato il cadavere di una ragazza morta strangolata, Mila Shirokova. La lista dei sospetti è piuttosto lunga perché lo stile di vita della donna era a dir poco disinibito e molti avevano motivo di odiarla: Strelnikov, l'amante ripetutamente tradito, la moglie di lui, che assieme al marito temeva di perdere l'agiatezza, Ljuba, l'amica ingannata. Ma ognuno di loro sembra avere un alibi di ferro. Con la morte di Ljuba, che si suicida proclamandosi innocente, la polizia perde il più probabile indiziato e deve ritornare al punto di partenza.
«Volevo tacere. Ma il tempo mi ha chiamato e ho capito che non si poteva tacere. In seguito ho anche capito che il silenzio è una risposta, tanto quanto la parola e la scrittura. A volte non è neppure la meno rischiosa. Niente istiga alla violenza quanto un tacito dissenso»: sono le parole che Márai incide sulla soglia di questo libro bruciante. Un libro di cui nel suo diario dice: «Non voglio che questa triste confessione, questo atto d'accusa nei confronti della nazione ungherese, venga letto anche da stranieri». Tant'è che si era deciso a pubblicarne solo una parte (la seconda: Terra, terra!...), e solo nel 1972. Un «testamento tradito», dunque? Non c'è dubbio. Come non c'è dubbio che (non diversamente che in altri, notevolissimi casi) ne sia valsa la pena: perché qui - in uno stile asciutto ed efficace, che non cela tuttavia l'amarezza di fondo - Márai racconta gli anni che vanno dall'Anschluss (quando lui era ancora un autore e un giornalista famoso) al giorno in cui i carrarmati tedeschi varcarono i confini ungheresi nel marzo 1944, e spinge lo sguardo fino ad altri giorni ferali: l'arrivo dei sovietici nel 1945, la scelta dell'esilio nel 1948. In quegli anni «una sorta di nebbia gialla era calata sugli occhi di una società in preda all'amok», una società che continuava a cullarsi in una «speranza autoingannatoria» senza rendersi conto di vivere «su un pantano ribollente sotto cui gorgogliava un vulcano». Il grande romanziere delle Braci ci consegna in queste pagine una appassionante testimonianza, che abbaglia per il modo in cui unisce la malinconia del ricordo alla precisione e all'acutezza delle analisi storiche.
Isabel Losada, ovvero una donna da sempre sul cammino verso l'illuminazione. Vuole vivere così, vuole vivere di più, vuole vivere. E capirci qualcosa. Senza lasciare nulla di intentato. Ogni forma di percorso spirituale la attrae. Ma ogni esperienza, ogni nuovo incontro, si rivela tanto spirituale quanto spiritosa, e le svolte che guru, sciamani, trainer, maestri le propongono in corsi, laboratori, assemblee, faccia-a-faccia si trasformano in occasioni per mirabolanti avventure dentro l'ansia di vivere, dentro i labirinti della solitudine, dentro i deliri delle anime in pena. Solo il Dalai Lama si salva in questo sbalestrato, sgangherato universo. Isabel ci invita a seguirla in questo vero e proprio viaggio (da Londra all'Amazzonia e ritorno), per sapere meglio, per sapere di più di che cosa siamo fatti.
Stare al mondo è un maledetto numero da equilibristi. È inutile pretendere che 'fuori' tutto funzioni se 'dentro' c'è disordine. Isabel lo sa. Non è felice ma è vitale e curiosa. Vuole capire e vivere meglio. E così si butta a pesce passando da un seminario new age a un week end in convento, da un corso di tai-chi a uno di sesso tantrico, da un workshop sulla reincarnazione a un incontro che promette il risveglio dell'assopito lato femminile. La via dell'illuminazione diventa una corsa ad ostacoli. Massaggi, irrigazione del colon, danze collettive, angeli e fate, astrologia e chakra...
Elias Canetti soggiornò per un certo periodo a Marrakech, nel 1954. Il grande lavoro su "Massa e potere" era giunto a un momento di stasi e lo scrittore sentiva il bisogno di nuove voci, di voci incomprensibili, come quelle che lo avvolsero nella splendida città marocchina. Vagando per i suk, per le strette vie, per i mercati e le piazze, fra cammelli, mendicanti, donne velate, cantastorie, farabutti, ciechi e commercianti, Canetti capta forme e suoni: "gli altri, la gente che ha sempre vissuto là e che non capivo, erano per me come me stesso".
Le voci, le luci, i colori, gli angoli, i conflitti di una metropoli cosmopolita ancorata alla tradizione e tentata dalla modernità. È questa Istanbul ma anche la Turchia che si dibatte tra tolleranza e fondamentalismo, nazionalismo e spirito europeo, repressione e democrazia. In questo libro vengono raccolti scritti e interviste degli ultimi anni che toccano vari temi: dal ruolo della donna ai diritti umani, dal genocidio degli armeni alle stragi dei curdi, dal terrorismo islamico all'incapacità dell'Occidente di comprendere l'umiliazione dei popoli dannati del Terzo Mondo.
Nel gelido inverno del 1944, il giovane maestro Oriol Fontelles e sua moglie si trasferiscono a Torena, nelle valli dei Pirenei, ignari degli odi che la guerra civile ha seminato nel paese e delle drammatiche vicende che da lì a poco sconvolgeranno per sempre le loro vite. Sessant'anni dopo la maestra Tina Bros recupera per caso dei quaderni nascosti dietro la lavagna della vecchia scuola di Torena che sta per essere demolita. Sono le confessioni che Oriol Fontelles, prima di morire, scrive per scagionarsi agli occhi della figlia che non ha mai conosciuto. Intrecciando la sua vita personale a quella di Oriol e dell'affascinante nobildonna Elisenda Vilabrù, Tina riporta alla luce odi e amori, tradimenti e segreti volutamente custoditi per mezzo secolo. Con Le voci del fiume Cabré, grande conoscitore dell'animo umano e delle sue ombre, indaga il sentimento della vendetta e dell'odio, ma anche il valore del ricordo e della memoria, come unica forma di salvezza.
La sera del 18 ottobre 1944 il maestro e falangista Oriol Fontelles viene ucciso durante un'incursione dei maquis. Solo i testimoni di questa morte conoscono l'inconfessabile segreto che la circonda. Quando sessant'anni dopo Tina Bros scopre nella vecchia scuola, nascosti dietro una lavagna, i quaderni di Oriol, non immagina che questo ritrovamento riporterà alla luce un segreto che è rimasto custodito per mezzo secolo. Rivivrà con Oriol la sua tragica relazione con la bella ed enigmatica Elisenda Vilabrù, il suo coinvolgimento con il regime franchista e il tardivo riscatto, ma non solo. Come delle ombre riaffiorano dalle nebbiose valli dei Pirenei, le storie, gli odi, gli amori e i tradimenti di un tempo segnato dal fanatismo e dalla passione. Sentimenti antichi che sopravvivono ad un passato che non è mai passato. Con straordinaria abilità stilistica Jaume Cabré alterna i piani temporali, e come un direttore d'orchestra, crea una storia polifonica che attraverso le voci e le vicende dei personaggi mette a nudo la verità storica dell'impossibilità di dimenticare e perdonare.