
Bologna, 1494. Gli ospiti di palazzetto Aldrovandi hanno occhi solo per lui, un giovane artista schivo e irrequieto. Ha il naso schiacciato, da lottatore, e le labbra carnose di chi non sa trattenere un pensiero in bocca: di nome fa Michelangelo Buonarroti e la parlata tradisce la sua provenienza da Firenze. A meno di vent'anni è già uno dei favoriti alla corte medicea, dove l'ha voluto il Magnifico, ma ha lasciato la città prima dell'ondata di terrore dei roghi del Savonarola. E ora, libero dai capricci di un committente, sta realizzando una scultura marmorea che è destinata a cambiargli la vita. Il Cupido dormiente è un omaggio ai maestri dell'antichità, ma se in tempi così duri mettere un tozzo di pane in tavola è un'impresa anche per un astro nascente come lui, affidarlo a un apprezzato mercante d'arte come Baldassarre del Milanese è quasi una necessità. E così, mentre il suo autore è ostaggio di una passione da cui non sa se farsi travolgere, l'Amorino inizia un viaggio per le corti italiane che si trasforma presto in una vera e propria caccia. Da Caterina Sforza, pericolosa alchimista, allo spietato Cesare Borgia, ognuno è disposto a pagare la statua con il sangue. Per arrivare al cuore più segreto del Rinascimento, un luogo dove ogni cosa che l'uomo abbia mai sognato diventa possibile.
Cosa succede quando il malato è un grande psichiatra abituato a occuparsi delle sofferenze altrui? Vittorino Andreoli, da sempre abile narratore della fragilità psichica, descrive questa volta il proprio mondo travolto dall'emergenza. Una prova di morte che mostra l'esistere con colori e significati sconvolgenti e che cambia il senso della vita nell'arco di un attimo. Tutto accade quando Andreoli si accorge di essere preda di un'imponente emorragia vescicale proprio pochi minuti dopo aver concluso una conferenza sul "corpo malato". Inizia così un cammino in cui si trova costretto a parlare della propria prostata impazzita ai medici, agli infermieri e poi ai familiari, alle persone che ama e con le quali si impone un rovesciamento delle regole ordinarie dell'esistenza. La malattia diventa l'amplificatore di un dolore privato che all'improvviso si rende manifesto a tutti. Andreoli racconta con estremo coraggio i suoi sentimenti dapprima di stupore e poi di terrore in un romanzo autobiografico che sorprende per l'immediatezza del linguaggio, ma anche per l'ironia che i luoghi di cura suscitano accanto al clima di tragedia. "Il corpo segreto" riconduce proprio a quello che la pelle nasconde e che la scienza medica e l'irruzione della malattia ci mostrano in tutta la sua crudezza. Un corpo messo a nudo, spogliato, ma che può ancora insegnarci molto sulla nostra vulnerabilità...
"Ci vuole coraggio per guardarsi la vita." Tanto coraggio. Lo sa bene Mirella, mentre cammina sotto la pioggia battente di Parigi, diretta nella minuscola rue Thérèse. Si ferma davanti all'insegna Restaurant che ha tanto cercato: è il momento, non può più tornare indietro. Prende un respiro profondo ed entra. Ad accoglierla c'è il vecchio cameriere Alphonse, che con modi ruvidi tenta di cacciarla. Ma Mirella non può andarsene, perché è qui per un motivo preciso: sa che, seduta a un tavolo a sfogliare il pesante menu, potrà rivivere tutti i ricordi, i desideri, i sogni che l'hanno resa la donna che è oggi. Ma sa che torneranno a visitarla anche i rimorsi, le delusioni, le pagine più nere del racconto della sua vita, quelle che avrebbe voluto cancellare. O, forse, semplicemente riscrivere. Come se il passato si potesse cambiare, e ogni amore perduto, ogni carezza mai data potesse trasformarsi in un nuovo inizio. E mentre la pioggia suona la sua musica dolce e Parigi si colora d'incanto, in un attimo immenso tutto questo diventa possibile. Antonella Boralevi ci conduce nel fascino segreto di rue Thérèse, dove si nasconde il luogo che rincorriamo da sempre, quello in cui le speranze più profonde s'incontrano e prendono vita. E ci ricorda che la materia dei sogni può trasformarsi in realtà, perché siamo noi gli artefici del nostro lieto fine.
È un mattino di novembre. Nella sala di uno dei più prestigiosi college di Oxford, centinaia di persone aspettano l'inizio di una conferenza. Dopo qualche minuto entrano - nel silenzio generale - decine e decine di pecore. Bianche, lanose, ordinate, moderatamente belanti. Le guida Filippo Cantirami, giovane economista italiano, che come nulla fosse comincia il suo intervento sulla crisi dei mercati. Inizia così il nuovo romanzo di Paola Mastrocola. Quella incredibile invasione di pecore getterà nel caos i genitori Cantirami, convinti che il figlio modello sia a Stanford a finire un dottorato, e che si ritrovano all'improvviso spiazzati e in ansia. Cosa combina Fil, dov'è finito, chi è veramente? E chi è quel suo compagno Jeremy con il quale ha stretto un patto, che cosa si sono scambiati i due ragazzi, qual è il loro segreto? Fil sembra sparito nel nulla, perduto in un mistero. Imprendibile. E intanto, sullo sfondo, la crisi dei nostri giorni. Ma raccontata da lontano, come guardando il presente dal futuro, tra una cinquantina d'anni. Filippo Cantirami, il giovane rivoluzionario della Mastrocola, è un ragazzo privilegiato, un personaggio scomodo, di questi tempi: eppure è lui - in virtù dei suoi pensieri, dei suoi silenzi, dei suoi gesti e delle sue scelte - che pagina dopo pagina ci apre al sogno di una vita diversa. Un sogno che ci porta a riflettere sull'idea di tempo e sulla possibilità di metterla in discussione, di ripensarla.
Due uomini e un ragazzo si stagliano contro l'orizzonte in un infuocato tramonto africano. Una catena di speranza e coraggio li ha condotti fin lì. Forza consumata senza risparmio. Vita di vita. Khaliq, nato in Sierra Leone, è sopravvissuto a esperienze estreme. Cresciuto alla Città dei Ragazzi, storica comunità educativa dove insegna Eraldo Affinati, adesso lavora in un bar. Il giovane e l'adulto hanno stretto un patto: se il figlio avesse riabbracciato la madre perduta, il professore sarebbe andato a conoscerla. Questo libro racconta un viaggio attraverso la periferia di una grande città fuori controllo verso il villaggio lontano in cui una donna attende fiduciosa. I cieli africani, il buio vero, la luce accecante, la polvere negli occhi ardenti di bambini in tripudio per un pallone. Eraldo Affinati, accompagnato da un amico avvocato, sprofonda dentro se stesso: "Cosa vuol dire essere un insegnante? Mettere in grado chi hai di fronte di ascoltare la voce del suo maestro interiore. Ricucire gli strappi. Versare acqua sulla spugna secca...". I messaggi che riceve dagli studenti rimasti a casa lo riportano alla storia martoriata del Novecento, in profonda risonanza con tutta la sua opera. Le radici strappate di Khaliq vengono raccolte dai fantasmi dei partigiani trucidati dai nazisti, i quali sembrano consegnare ai nostri adolescenti il testimone della loro giovinezza spezzata, rinnovando agli occhi dello scrittore il valore dell'azione paterna senza ricambio, né compenso.
"Se vuoi conoscere davvero un po' del mio pensiero, supposto che ne abbia uno, abbiamo una sola scelta: andare insieme a Napoli. Solo nella mia città posso mostrarti come mi sono formato. Potrai osservare il mondo che ha orientato la mia esistenza, il mondo che ha fatto di me un napoletano in ogni istante della mia vita. Che ne dici?" Carla, una giovane studentessa universitaria di Bologna, vuol fare una tesi di laurea su Luciano De Crescenzo, e gli chiede, in una lettera appassionata, di poterlo incontrare. Lui accetta, ma a una condizione: che il loro colloquio si svolga passeggiando per le strade e i vicoli di Napoli. In questo filosofare camminando, la ragazza curiosa e lo scrittore saggio si lasciano ispirare dagli scorci e dai personaggi che la città partenopea regala e ci offrono così un aneddoto che fa sorridere, una storia che sorprende, una riflessione che spiazza e apre la mente. Moderni peripatetici, parlano della semplicità e della passione, della musica e dell'arte, del tempo e dell'amore, del caso e della fortuna. Citano Diogene e il guardiamacchine Raffaele, Platone e Taniello, il principe degli osti partenopei. Dopo quello degli altri filosofi, Luciano De Crescenzo ci espone il proprio pensiero, sempre leggero e spesso illuminante. "E vedrai, Napoli porterà fortuna anche a te..."
Allegra Lunare ha vent'anni, è nel momento in cui la vita, per molti, comincia: invece per lei finisce, e deve trovare il coraggio per iniziarne una tutta nuova. Allora Allegra scrive: per non avere paura, per salvarsi l'infanzia, per non dimenticare il senso delle persone e delle cose che sono stati il suo mondo fino a quel momento. Scrive una lettera ai nuovi inquilini che abiteranno la casa dove ha vissuto con la sua bizzarra famiglia, e prende spunto dagli oggetti che rimangono nell'appartamento e di quei pochi che porterà con sé. Ognuno di essi racconta una storia: quella di suo padre, universitario rivoluzionario, e della mamma, giovanissima modella americana; la nascita di suo fratello Giuliano, con la sindrome di Down; l'amore magico tra Adriana e Matilde; l'incontro con Zuellen, che è affamata d'amore e sa trasformare tutto in qualcos'altro; le cose che ha imparato a teatro e al circo, la più importante: che dopo il numero dei trapezi arriva sempre il numero dei pagliacci... La scrittura di Allegra procede come il respiro veloce della giovinezza, quando si ha fretta di capire: per libere associazioni, per assonanze del cuore, accostando ai sentimenti cose che ne sono i correlativi oggettivi, e che spesso li esprimono con maggior potenza. Il suo sguardo si posa su ogni spazio da una prospettiva inattesa, filtrato dalle lenti colorate con cui ha imparato a osservare la vita per non essere lambita dalle sue ombre: e ci restituisce un'istantanea candida e acutissima al tempo stesso.
Gli "invincibili" di questa storia sono un padre e un figlio: un giovane imprenditore pieno d'impegni e un neonato ancora da svezzare che si ritrovano improvvisamente soli, e imparano insieme a stare al mondo. Ci sono i primi passi e le prime parole, c'è la paura di sbagliare tutto, l'improvvisazione, e poi a poco a poco l'esperienza che tesse le sue maglie protettive. C'è l'energia che a volte sembra mancare ma poi da qualche parte salta sempre fuori, e c'è il coraggio. Il coraggio anche di raccontarla, questa storia. Perché trovarsi soli davanti a quella calamita portentosa che è un bambino scompagina la vita. Le serate con gli amici, la carriera, i viaggi, possono diventare un ricordo, ma bando ai rimpianti "perché un padre triste ti resta attaccato addosso come un vestito troppo stretto". E allora ecco che si apre un universo di emozioni e gratificazioni inaspettate: la tenerezza del contatto fisico, la calma rigenerante che infondono i giri in macchina la sera per farlo addormentare, il sabato al parco dove un padre solo può scoprire di essere molto attraente per le madri degli altri bambini, una vacanza in Grecia che diventa un viaggio di iniziazione per entrambi. Ma se poi un giorno - il primo giorno di scuola - si rifà viva la donna che tanti anni prima li ha abbandonati? Cosa succede a quel legame esclusivo tenacemente costruito e difeso?
Milano, 1945. La guerra è finita, la città liberata, ma la vita quotidiana è segnata dalle ferite dei bombardamenti, la penuria di tutto, gli strascichi di odi e regolamenti di conti. È lo scenario che circonda la vita di Sveva ragazzina, protagonista di questo nuovo racconto autobiografico, dove piccoli fatti quotidiani assumono ai suoi occhi infantili grande importanza. Curiosa e anche un po' ribelle, osserva le dinamiche del mondo adulto e ne percepisce tutte le contraddizioni: convenzioni sociali, falsità, ipocrisie dai risvolti talvolta dolorosi. Al centro di un racconto molto personale e senza pudori è il rapporto sofferto con una madre severa e intransigente, che non esita a trattarla ingiustamente pur di salvaguardare la sua idea di perbenismo. Ma vi è anche l'affetto sconfinato per il padre, un uomo dolce e attento che non esita a proteggerla dalle piccole crudeltà della vita quotidiana. Dopo le prime pagine segnate dalle conseguenze della guerra appena finita, il racconto assume un registro ironico e leggero, che rispecchia la ritrovata serenità e la prospettiva di un benessere possibile. Il libro si chiude con un'appendice firmata dal fratello Lucio, nato dieci anni dopo di lei, che descrive dal suo punto di vista la vita di famiglia e in particolare la sorella, definita "la mia paladina".
Scritto nel 1948 e pubblicato l'anno seguente con altri due romanzi brevi in un volume, "La bella estate", che avrebbe poi vinto il premio Strega, "Il diavolo sulle colline" resta uno dei libri più belli di Pavese. Vi si trova il suo clima morale più tipico, le tensioni e la fragilità di un'adolescenza che si protrae in una giovinezza sognatrice, più portata a fantasticare se stessa che ad agire, sempre in attesa di un evento straordinario che sembra in agguato nella placida noia di giornate sempre eguali.
Due scatole colme di libri, pupazzi e tante fotografie. Tutto il mondo di Margherita è racchiuso in quelle poche cose. In spalla il suo adorato violino e tra le mani un biglietto aereo per una terra lontana: l'Italia. La terra dove è nata e che non rivede da quando è piccola. Ma ora è lì che deve tornare. Perché a quasi quindici anni Margherita ha scoperto che a volte è la vita a decidere per noi. Perché c'è qualcuno che non aspetta altro che poterle stare accanto: Francesco, suo padre. Il suono assordante dell'assenza di Margherita ha riempito i suoi giorni per dieci anni. Da quando sua moglie è scappata in Danimarca con la loro figlia senza permettergli di vederla mai più. Francesco credeva fosse solo un viaggio. Non avrebbe mai pensato di vivere l'incubo peggiore della sua vita. Eppure, ora che Margherita è di nuovo con lui, è difficile ricucire quello che tanto tempo prima si è spezzato. Francesco ha davanti a sé un'adolescente che si sente sbagliata. Perché a scuola è isolata dai suoi compagni e a casa passa le giornate chiusa nella sua stanza. Ma Francesco giorno dopo giorno cerca la strada per il suo cuore. Una strada fatta di piccoli ricordi comuni che riaffiorano. Perché le cose più preziose, come l'abbraccio di un padre, si possiedono senza doverle cercare. E quando Margherita ha bisogno di lui come non mai, Francesco le sussurra all'orecchio poche semplici parole per farle capire quanto sia speciale: "Niente, ma proprio niente, è come te, Margherita".
Una casa di famiglia, sull'Appennino bolognese. Una vecchia casa. Gli animali sono una presenza nota. Non si tratta sempre di animali domestici, o quantomeno la loro domesticità è lontana dalla nozione tradizionale. Se nell'annus mirabilis 1992 quella di topi, arvicole e ratti era stata una vera e propria invasione, il dibattito si riapre quando arrivano i piccioni con il vaiolo: la sorella del narratore, dolce animalista, si fa in quattro per curarli, e nondimeno cura, almeno idealmente, i topi, anzi i ratti che turbano la quiete della magione. Uno in particolare, piuttosto abitudinario, compare sempre sullo stesso ripiano della libreria, dal che sorge spontaneo il sospetto che il topo sia un osservatore consapevole delle cose umane. Ugo Cornia parte da qui per una scorribanda dentro tutte le convivenze che hanno a che fare con figure animali. Alle derattizzazioni e alle stragi di volatili innocenti fan seguito storie di gatti (il cacciatore di prede Cito, l'avventuroso Cionci, la depressa Pinzia), e di cani (il setter cieco Billo e Tobi, il cane pazzo della sorella). Attraverso gli animali Cornia ricostruisce la storia di famiglia, dove con le bestie si parla, si confligge, si fanno patti, si stabiliscono confini, dove attraverso le bestie si dispiegano il labirinto emotivo degli affetti, le stagioni di un'esistenza, lo spazio delle assenze e la sequenza delle morti.