
L'aborto, l'amor di patria, Carosello e l'insegnamento del latino, le raccomandazioni e il caso Tortora: su temi come questi Manganelli è intervenuto, nel corso degli anni Settanta e Ottanta, usando un'arma che gli era massimamente congeniale - il "corsivo fulminante". E da quei corsivi sbiechi e solitari emerge un ritratto dell'Italia che oggi più che mai lascia ammirati e scossi per la sua precisione.
La prima notte che Marco trascorre a Tokyo è sorprendentemente silenziosa - e il suo sonno "simile a quelli della convalescenza o della salvezza". Mai, tuttavia, la singolarità delle sue inchieste è stata così lampante, e mai il loro fascino così intenso: a raccontarci il Giappone, "pianeta rotante nel silenzio e nella solitudine della volta celeste", è infatti un doppio dell'autore, in fuga da un paese sconvolto da "millenni di furti, ricatti e assassinii". E a muoverlo è quello stesso bisogno di essenzialità, di rigenerazione, che innerva uno dei vertici della narrativa di Parise, i Sillabati. Attraverso il suo sguardo infantile, il lettore conoscerà le più diverse facce del Giappone: dai templi di Kyoto, dove si può percepire "il distacco dal corpo che avviene per poco ossigeno", ai lottatori di sumo, che sprigionano la più alta forma di espressività fisiologica; dall'atelier dove il vecchio Moriu-guchi dipinge chimono con sicurezza sublime, "simile al lavoro appena frusciante dei bachi da seta nei granai", ai cantanti di gagaku, nella cui voce risuonano i "movimenti lentissimi degli immensi blocchi gelidi dell'era glaciale". E scoprirà l'anima segreta di un paese che cela, dietro la maschera occidentale, un "classicismo cellulare".
Giovanni ha smesso con la coca, e ha anche smesso di vendere prodotti finanziari ad alto rischio. Per disintossicarsi si occupa a titolo gratuito di creature misteriose e non troppo tranquillizzanti che si chiamano tutte Ruggero e Isabella, e appartengono a una razza pregiata di suini neri. Mary ha smesso anche lei con la sua vita precedente, ed è arrivata in Italia dagli Stati Uniti alla ricerca di certi parenti adottivi che vivono nello stesso paese dove lavora Giovanni, e che si chiamano anche loro Ruggero e Isabella. La prima curiosità che questo libro suscita è come possano incontrarsi due personaggi così, uno in fuga da e l'altro alla ricerca di un paradiso in terra - tanto più in un posto troppo fangoso e dimenticato da dio anche solo per ricordarlo, il paradiso. Ma la sorpresa è che invece sì, incontrarsi possono, se affrontano un viaggio in treno a Milano per conquistare insieme un congresso di allevatori, una farsesca e commovente lotteria suina nel basso Lazio, e una strana notte - italiana - del 4 di luglio; e se queste premesse riportano tutti e due per vie diverse in America, a Miami, dove la commedia recitata fin qui diventa, senza quasi che il lettore abbia avuto il tempo di accorgersene, un thriller hitchcockiano.
All'interno del vastissimo patrimonio filosofico che Nietzsche ci ha lasciato, i concetti di "apollineo" e "dionisiaco" sono certamente fra i più citati e i meno compresi, e a tutt'oggi la letteratura al riguardo appare largamente inadeguata. Con gli scritti raccolti in questo volume, Giorgio Colli non solo mostra di coglierli nella loro intima essenza, ma si spinge ancora più in là sulla strada aperta da Nietzsche. Collocandoli alle origini stesse del pensiero occidentale, ed esaltandone l'"inesauribile fecondità", ne fa chiavi interpretative in grado di schiudere i passaggi più occulti della storia del pensiero, dell'arte e della scienza. E non sembrerà azzardata, al lettore che lo voglia seguire nel suo affascinante percorso speculativo, l'affermazione che eleva "apollineo" e "dionisiaco" a "princìpi universali e supremi della realtà".
"Nessuno come Dostoevskij è andato mai così lontano, nel viaggio verso il Male assoluto: nessuno vi ha mai abitato con tale costanza; e ci ha guardato così, con gli occhi stessi del crimine" scrive Pietro Citati mentre ci accompagna guida lucida e insieme partecipe, quasi febbrile - attraverso "Delitto e castigo". E ad attirarlo, ancor più di Svidrigajlov o Raskol'nikov, è Stavrogin, in cui soffia "il vento di un vuoto gelido e vertiginoso, illimitato e senza confini": certo perché scrivendo i "Demoni" Dostoevskij si è rispecchiato in lui, e "scorgendo questo riflesso, ha avuto paura delle profondità inattingibili del proprio cuore". Sono dunque Dostoevskij e Stavrogin il cuore tenebroso di questo libro, dove Citati rilegge i grandi romanzi dell'Ottocento (quelli di Balzac, Poe, Dumas, Hawthorne, Dickens, Flaubert, Tolstoj, Stevenson, James) per cogliervi in atto la passione del Male, l'incontro con il Male. Li rilegge come soltanto lui sa fare: non da critico accademico o militante ma da "lettore-scrittore" (come ha notato Nadia Fusini), capace di illuminarli prolungandone il fascino nella sua scrittura. E comunicando a noi il desiderio irresistibile di rileggerli a nostra volta.
A Stoccolma Malaparte incontra il principe Eugenio, fratello del re di Svezia. E nella villa di Waldemarsudden non può trattenersi dal raccontare ciò che ha visto nella foresta di Oranienbaum: prigionieri russi conficcati nella neve fino al ventre, uccisi con un colpo alla tempia e lasciati congelare. È solo la prima di una fosca suite di storie che, come un novellatore itinerante, Malaparte racconterà ad altri spettri di un'Europa morente: ad Hans Frank, Generalgouverneur di Polonia, a diplomatici come Westmann e de Foxà, a Louise, nipote del kaiser Guglielmo II. Storie che si annidano nella memoria per non lasciarla mai più: il Ladoga, simile a "un'immensa lastra di marmo bianco", dove sono posate centinaia e centinaia di teste di cavallo, recise da una mannaia; il console d'Italia a Jassy, sepolto dal freddo peso dei centosettantanove cadaveri di ebrei che sembrano precipitarsi fuori dal treno che li deportava a Podul Iloaiei, in Romania; le mute di cani muniti di cariche esplosive che, in Ucraina, i russi addestrano ad andare a cercare il cibo sotto il ventre dei panzer tedeschi. Storie, anche, malinconiche e gentili: quella dei bambini napoletani convinti dai genitori che gli aviatori inglesi sorvolano la città per gettar loro bambole, cavallucci di legno e dolci; o, ancora, quella delle ragazze ebree destinate al bordello militare di Soroca. Storie che trascinano in un viaggio lungo e crudele, al termine del quale si vedrà l'Europa ridotta a un mucchio di rottami.
A un certo punto di questi racconti si parla di una "calma violenta" - e subito si riconosce il timbro e il passo di una scrittrice per cui l'ossimoro è come l'aria che respira, quasi un segno di riconoscimento, fin dal titolo del suo romanzo più famoso, "I beati anni del castigo". Del quale Iosif Brodskij scrisse: "Durata della lettura: circa quattro ore. Durata del ricordo, come per l'autrice, il resto della vita". Non diverso l'effetto di queste storie, talvolta di una brevità lancinante, talvolta dense come un romanzo. Mescolando all'estro fantastico frammenti di ricordi e apparizioni, amalgamati in uno stile dove domina quello che gli etologi chiamano Ubersprung, "diversione": quello scarto laterale, apparentemente fuori contesto, che è un segreto ancora insondato del comportamento. E, come si mostra qui, della letteratura.
"Dalla A di Gianni Agnelli alla Z di Federico Zeri, alcune decine di conversazioni, interviste, dialoghi, e magari anche chiacchiere, con illustri contemporanei quali Roberto Longhi, Aldo Palazzeschi, Giovanni Comisso, Mario Soldati, Cesare Brandi, Federico Fellini, Luciano Anceschi, Luchino Visconti, Alberto Moravia. E notevolissimi coetanei, o quasi - da Calvino e Testori e Pasolini, a Parise e Manganelli e Berio -, coi quali ci si ripromettevano lunghe polemiche anziane davanti a un bel camino acceso, con vino rosso e castagne e magari cognac. Invece, la storia girò diversamente. E così, oltre ad alcuni coetanei vitali e viventi, eccoci qui con care e bizzarre memorie evidentemente prenatali: Dossi, Tessa, Puccini, D'Annunzio, e la mia concittadina vogherese Carolina Invernizio, nonna o bisnonna di mezza Italia letteraria." (Alberto Arbasino)
Nel 1967 Manganelli dirige la serie italiana di una collana Einaudi. A preoccuparlo è la veste grafica, che con il suo opaco grigio rende i volumetti simili ad "antichi, nobili epitaffi": "E si veda il bell'egualitarismo del procedimento, che pareggia miopi, presbiti, ipermetropi, daltonici ed astigmatici in una comune, edificante inettitudine a leggervi alcunché" commenta. Basterà questo passaggio di una comunicazione "di servizio" per far capire che tipo di consulente editoriale sia stato Manganelli: eccentrico e brillante, sempre pronto a sfoderare uno humour di volta in volta giocoso, paradossale, corrosivo. Ma non ci si inganni: Manganelli è stato un editor (e traduttore) tutt'altro che sedizioso: disciplinatissimo, piuttosto, duttile e minuzioso. Un editor capace di progettare collane e costruire libri, suggerire titoli, periziare traduzioni con estroso rigore: "... qualche volta la traduttrice tende a dar più colore di quanto non competa a questa gelida carne..." scrive di una Ivy Compton-Burnett che gli era stata sottoposta. Ma capace soprattutto di stendere pareri di lettura e risvolti dove astratto furore dello stile, schietta idiosincrasia e verve beffarda celano una micidiale precisione di giudizio: "La sua pagina sa di virtuosa varichina, i suoi periodi vanno in giro con le calze ciondoloni..." (qui la vittima è Doris Lessing). Una precisione, tuttavia, che nel rifiuto sempre si premura di spogliarsi di ogni drasticità: "Il mio parere è negativo, ma senza ira".
«Elusivo, inafferrabile, frivolo e coraggioso come Ulisse, Savinio è un profugo, un favoleggiatore, un esule, un estraneo: questa affollata Nuova Enciclopedia è un libro desolatamente solitario, felicemente solitario. Ilarità e angoscia inseguono il profugo, lo incalzano, vogliono che egli racconti. All'infinito, di voce in voce, da Giostra a Libertà, da San Sebastiano a Travestimento, l'enciclopedico divaga. Il suo universo è discontinuo, senza approdi, soprattutto senza destinazione. Non si troverà mai il cosmo, non si indagherà mai il significato. Non esiste profondità, ma solo una infinita serie di superfici. Il mondo è una liscia pelle che nasconde altre pelli lisce: all'infinito ... Prosatore di una mobilità, una grazia, una tenerezza straordinarie, questo classico surreale, tra Apollinaire, Anassagora e Agnolo Firenzuola, sta ritornando nella nostra letteratura, in questo lento squallore del tardo Novecento, con la sua dimensione provocatoria, e insieme la sua gentilezza, l'oltraggiosa delicatezza del suo gesto di scrittore.» (Giorgio Manganelli)
La lettura di Emigranti (pubblicato per la prima volta nel 1928 da Mondadori) è una pura immersione nella grande letteratura. Ci troviamo dinanzi a un affresco grandioso del mondo contadino e pastorale dell’Aspromonte; e, in quanto «mondo», non solo degli uomini, delle donne e delle loro quotidiane tribolazioni, ma anche della natura e dei paesaggi che li circondano. Vi è in Emigranti una straordinaria conoscenza dei luoghi e un profondo amore per l’Aspromonte. Vi è una finissima introspezione psicologica dei personaggi. Vi è un incalzante ritmo narrativo. Ma vi sono anche momenti di pura contemplazione estetica del mondo della natura. Anche in Emigranti, come in tutte le altre storie della letteratura del Novecento calabrese, un senso di morte aleggia sulla vicenda narrata. Tuttavia, non c’è spazio per la disperazione perché non c’è morte senza rinascita.
"State per leggere undici storie d'amore molto diverse tra loro. Al centro di queste storie trovate le città, le case, gli oggetti, le persone, le famiglie, il lavoro, le immagini, gli uomini e le donne: i legami che durano per tutta la vita e quelli che segnano un momento di passaggio; le scelte accurate, le decisioni impulsive e le conseguenze di entrambe. Questa antologia nasce dal mio desiderio di leggere racconti inediti di dieci scrittrici italiane. A tutte loro ho fatto la stessa domanda: raccontami quello che hai amato. Le autrici erano libere di muoversi in qualsiasi direzione, bastava che la storia fosse vera. Per molte di loro - autrici di romanzi, saggi, reportage - dire 'io' era una novità quasi assoluta. Attraverso i loro racconti ho sentito che stavo cominciando a conoscerle. Per cominciare a conoscere qualcuno, devo vedere cosa gli provoca una reazione forte. Il modo più semplice è fare una domanda [...]. Se esiste un collegamento tra queste scrittrici italiane, è il forte senso dell'identità individuale: la maniera in cui sta sempre cambiando, unita alla consapevolezza che alcune parti di noi, nel bene e nel male, sono destinate a farci compagnia per molto tempo". (Violetta Bellocchio)