
Può capitare di arrivare a Parigi, Rue de Fleurus 27, accompagnati da un misterioso romanzo di inizio Novecento. O di spostarsi da Castellammare di Stabia a Tokyo, passando per la Meseta spagnola, innamorati persi di Roland Barthes e di un ragazzo giapponese. Può capitare anche di dormire in un hotel di Singapore, all'ultimo piano di un grattacielo e di essere svegliati da una voce lontana, che forse viene fuori da un libro, forse dalla vita. Quando si sfiorano, i libri e i viaggi fanno cortocircuito; e con un romanzo in valigia, qualunque itinerario diventa singolare e sorprendente. Alcuni tra i più noti scrittori italiani, da Antonio Tabucchi a Dacia Maraini, da Andrea Camilleri a Melania G. Mazzucco, da Raffaele La Capria a Giuseppe Culicchia, da Carmen Covito a Emanuele Trevi, raccontano i propri viaggi: fughe, avventure impreviste, pellegrinaggi e sogni da fermi, intessuti di parole e gesti in un appassionato dialogo a distanza con gli autori e i libri più amati. In diciannove conversazioni fitte di piogge tropicali, ballerine cambogiane, valigie colme di libri, tiri di boxe fuori tempo massimo, Paolo Di Paolo crea una geografia del viaggio in forma di racconto o di mappa delle emozioni.
Quando una madre e un padre aspettano l'arrivo di un bambino si pongono molti interrogativi. Le dieci lettere che formano questo libro aiutano a trovare risposte ad alcune delle domande più importanti di chi si prepara a essere padre, madre e anche educatore. La loro originalità sta nel fatto che non sono i soliti consigli per futuri genitori, asettiche raccomandazioni e istruzioni per l'uso calate dall'alto della saggezza di qualche esperto. Irene, voce narrante del libro, vive l'attesa del suo primo bambino lasciandosi andare al pieno coinvolgimento di cuore e sentimenti. Così le lettere che scrive mese dopo mese al figlio che nascerà parlano ai tanti mamma e papà 'in divenire' che, come lei, devono imparare poco per volta a guidare e farsi guidare dall'amore e dall'esperienza.
Isaia Carter vive in un mondo virtuale. Al suo arrivo è disorientato, incapace di relazionarsi con i suoi simili, incerto su cosa fare. Presto, però, Isaia impara. Si lancia alia scoperta del suo nuovo mondo, si adatta ai ritmi e ai costumi, stringe amicizie, esplora culture affascinanti. Alcune sembrano ferme a un passato medievale, regolate da oscure norme di comportamento, altre trascorrono in un futuro tecnologico: si passa di colpo da scenari metropolitani a isole tropicali, da musei fatiscenti a quartieri a luci rosse. Questo libro è il resoconto della sua vita dentro Second Life, dalle attività che svolge, tra cui un lavoro come reporter, allo sviluppo della sua 'coscienza' intima, stimolata in modo problematico da un mondo che lo affascina e al tempo stesso lo spinge a porsi domande complesse: qual è il suo ruolo qui? Cosa c'è oltre questa vita elettronica? Addentrandosi in realtà difformi, e soprattutto grazie all'incontro con una donna seducente, Isaia si accorge di avere desideri superiori ai propri limiti. La sua esistenza di avatar, creature nate adulte, inclini più ad apprendere che a vivere, ha la consistenza di una eternità artificiale, ma è animata da aspirazioni molto simili a quelle umane. La libertà che questo universo promette non corrisponde alle possibilità pratiche che concede e non è vero che qui si può realizzare qualsiasi sogno: un mondo senza morte, senza malattia e senza vecchiaia non svincola dalla intensa ricerca di un senso.
«E tutto si era svolto in quella trama di strade squadrate e regolari nelle quali, in certi pomeriggi deserti d’estate, quando c’era il maestrale, e l’aria era nitida, ogni angolo sembrava il punto di fuga verso un infinito pieno di promesse.»Rivedersi dopo oltre vent’anni con amici che non hai più cercato. Di giorno basterebbero pochi minuti per un saluto di circostanza, ma di notte è un’altra cosa. Di notte Bari può catturare e trasformarsi in un irreale cinema della memoria. Dove presente e passato, ricordi e invenzione si confondono, e l’età da cui le illusioni fuggono può ancora sfiorare il tempo in cui tutto era possibile.
"Almeno un quarto dei paesi italiani è gravemente malato. È una malattia nuovissima. Di cosa si tratta? Di desolazione. Per secoli o forse millenni i paesi sono stati poveri ma, anche se modesta, la vita che si svolgeva un tempo era piena. Ogni persona stava nel suo paese come un pesce dentro al lago. Adesso pare che tutti stiano in un secchio rotto. Si vive con poca acqua e con la sensazione che nessuno sappia come conservare la poca che rimane. Chi visita i paesi d'estate o la domenica ne cattura un'impressione del tutto illusoria: il piacere del silenzio, del buon cibo, aria buona. Tutto questo è solo una facciata, una realtà apparente che nasconde un'inerzia acida, un tempo vissuto senza letizia. D'altra parte, "uno arriva e ferma la macchina in piazza. Guarda qualcuno vicino al bar o sulle panchine. Guarda una vecchia che va a fare la spesa, un cane disteso al sole, guarda porte chiuse, guarda la propria macchina e capisce che lo strumento per la fuga è a portata di mano. Basta una mezz'oretta di curve e si torna al mondo gremito, il mondo che si muove." Se i sani scappano lontano, nel paese restano i malati. Può essere depressione, può essere disagio, può essere la smania velleitaria fai nulla e di non poter arrivare da nessuna parte.
Quanto tempo ho trascorso sui treni! E a fare cosa, poi? A spostarmi. Ma per spostarsi non serve la vita: basta la vicevita. Questa, perciò, è una vice-autobiografìa, dove il passato appare sub specie ferroviaria.
"Ci eravamo rivisti dopo oltre dieci anni. Girava una foto di classe che alla fine della serata mi ritrovai in mano. Scorrevo i visi. Di quei venti ragazzi, erano rimasti sotto l'Ofanto soltanto in quattro. Decisi che avrei dovuto ricercarli tutti". "Qualcuno ha detto che la cosa che più gli manca nella nuova vita da fuorisede è un albero d'arancia del giardino. Non che manchino i giardini nelle grandi città italiane, ma a chi mi faceva notare come in piena Roma ci siano aranceti carichi di gemme rosse, portai una busta di arance raccolte a due passi da via Veneto. Non contenevano né polpa, né sugo. Puzzavano di città come le notti umide d'estate lungo il Tevere o il Naviglio Grande quando l'aria stagna. In quelle arance vuote ci sono le ragioni più intime di questo libro."
Ogni isola delle Eolie è il fossile di un animale. Stromboli è l'antenato del cinghiale. Panarea è il progenitore di un geco. Filicudi è un triceratopo rivolto verso l'abisso. Vulcano ha la pelliccia gialla del primo leone. Salina, con i suoi due vulcani, è l'antenato del cammello. Alicudi è il fossile di un canguro che fa il morto a galla. Lipari affiora come un coccodrillo. Se mai decideste di visitarle, uscite di casa all'alba e tornate in piena notte, percorretele tutto il giorno a piedi da un'estremità all'altra, senza fermarvi. Passate una notte all'aperto. E soprattutto cambiate isola di continuo, spostatevi quanto più potete. Perché le Eolie sono sette. E per sentire il loro racconto completo bisogna visitarle tutte e tornare e ritornare anche dove si è già stati.
Già il destino di essere nati non è privo di stranezza, ma all'interno della condizione umana vi è qualcosa di più strano: il servizio militare. Michele Mari racconta in queste pagine la sua esperienza da recluta nella caserma Gaetano de Cordevolis di Como, nell'Anno del Signore 1979. Le sue descrizioni della vita in un C.A.R. (Centro Addestramento Reclute), lucide e visionarie al tempo stesso, sono pervase dal sentimento agghiacciato del neofita a contatto con una realtà incomprensibile e aliena, eppure rese lievi da un'ironia classificatoria e da un incongruo furore filologico, dissacrante, che tiene a distanza le cose usando le lunghe pinze di una lingua e di uno stile arcaici e preziosi, capaci di far risaltare all'ennesima potenza la surreale assurdità del tutto. Ecco allora la minuziosa disamina del cubo e delle intrinseche motivazioni per cui l'istituzione militare lo idolatra a tal punto; l'epico resoconto della fila alla mensa di mezzogiorno e della corvè in infermeria; la quotidiana lotta con l'armadietto zeppo da esplodere, l'addestramento con le armi, gli oscuri dilemmi sui gradi e le gerarchie militari, le celle di rigore e l'adunata, la libera uscita e l'attesa delle "destinazioni": tutti i riti e i tic di quell'"enorme, flagrante demenza, non priva di una sua astuzia tignosa, che è l'istituzione militare".
Mazzi di chiavi, telefoni, biglietti da visita, occhiali da sole, documenti e palloncini colorati scappati via da mani bambine. Ma anche gli 'ego' individuali, i 'soggetti' intesi come idee e storie che perdono e si perdono fino a un gesto che affiora in un ricordo. "Mi ha guidato nella scelta un'idea dei margini, forse anche un'idea del fantasma. I fantasmi sono dolorosi, i fantasmi sono necessari. I fantasmi sono quello che ci manca, disse una volta Carmelo Bene, essa ci deve mancare. "Oggetti smarriti" sono frasi, racconti, avventure, occasioni, protocolli di esperienza, alcuni recentissimi, altri remoti. Hanno in comune, oltre a una scrittura ibrida, tra il documentario e la finzione, il sentimento di essere perduti".
"Temo che mi si spacchi il cuore. Come se ogni giorno si gonfiasse di amarezza. Ogni mattina mi sveglio con l'amarezza del giorno prima che mi pesa addosso e quella di trentasei anni passati in questo deserto dei tartari. Questo però è il primo autunno dove la sensazione è tanto forte, onnipresente. Qualunque cosa faccio mi accorgo della mia inesistenza. Vorrei incontrare delle persone inesistenti come me. E invece la vasca è asciutta. Oltre a quel poco d'acqua torbida dove abbiamo sempre vissuto, il mulinello si è portato via pure i pesci. Qui c'è una cattiveria senza fine. Tutti frustrati, pronti a disprezzare tutto e tutti. Come si fa respirare in queste condizioni? Come si fa a pensare di salvarsi?" Franco Arminio torna a raccontare i paesi italiani e questa volta dalla sua penna non nascono luoghi, ma persone. Con prosa limpida e insieme concitata, scorrono sulla pagina gli sgangherati pensieri esistenziali di un io narrante che somiglia in modo sospetto al suo autore, rincorsi da un controcanto affollato di personaggi sbadatamente vivi.
Tutto quel che vediamo, sentiamo, viviamo, passa per il corpo, o un pezzo di esso, con cui dovremmo imparare a comunicare. Questa è a suo modo una guida per l'allenamento del nostro corpo: per irrobustire la schiena, gli addominali proteggere i nervi, sostenere la fatica. Una fatica quotidiana del vivere e dell'incontrarsi con gli altri, per abituarsi al contatto, sforzarsi di capire perché stare dentro e stare fuori al proprio corpo è prima di tutto un'attività fisica e poi emotiva. Come i paguri con le conchiglie, come le tartarughe con il carapace o gli uccelli, che si difendono volando in stormi, abbiamo bisogno di capire come adattarci ai nostri spazi, come insediarli e, soprattutto, come convivere con i luoghi invisibili che circondano le persone: quegli spazi intimi, segreti, fragili che garantiscono e proteggono le nostre relazioni.