
La letteratura di oggi, nel nostro Paese, parla di lavoro molto poco, spesso solo tangenzialmente rispetto a temi sentiti più stringenti, più umanamente necessari, più raccontabili forse. Quel "Vergogna!", che risuona nelle strade italiane a ogni nuovo morto sul lavoro, a ogni sciopero, a ogni manifestazione di protesta contro discriminazioni e ingiustizie salariali e contrattuali, continua ad additare un male non risanato, un problema - sempre diverso eppure sempre presente - che non conosce soluzioni definitive. Questi racconti nascono dal bisogno di uscire dall'emergenza di fenomeni generali che di volta in volta si chiamano lavoro nero, disoccupazione, precarietà, morti bianche, per avvicinare l'orecchio a storie di vita ed esperienze professionali di donne e uomini che hanno lavorato, lavorano o vorrebbero farlo, che hanno da raccontare vicende minime di ordinario sopruso o, se si preferisce, di quotidiana fatica spesa a difendere diritti che con grande facilità finiscono calpestati. Questi undici racconti prendono spunto da storie individuali che altrettanti autori ci propongono tenendo viva una vocazione sociale nell'interpretare il mestiere di scrittore.
Guido, uno dei figli della signora Traversari, rientra a casa un giorno con un bambino per mano. Salvino ha dieci anni e un passato segreto. Dei suoi genitori non si sa nulla, né Guido fornisce spiegazioni, anche se tra lui e il piccolo sembra esserci una confidenza costruita nel tempo. Per tutti l'arrivo di Salvino è un tornado interiore. Non solo e non tanto perché è difficile accettare l'estraneo, l'intruso che irrompe nelle nostre esistenze e le sconvolge, un po' le brucia e un po' le rigenera. Le ragioni per cui la sola presenza di quel bambino è sufficiente a modificare gli equilibri di una famiglia e degli individui che la compongono sono in gran parte oscure: ed è proprio questa zona buia, questo luogo di verità in movimento, che il romanzo di De Silva attraversa senza dare né chiedere spiegazioni.
Gli uomini che atterrano a Bucarest sono in cerca di fortuna. Hanno trasferito Ií le loro aziende, comprato terreni e fuoristrada e innalzato capannoni con nomi italiani. Lui invece cerca qualcos'altro: vuole capire chi era sua madre ora che non c'è più, ridarle un volto, camminare le sue strade. Nel ricordo rimangono un'infanzia magica e un abbandono, le due metà di una donna che si è lasciata tutto alle spalle per seguire un progetto grandioso e un uomo sbagliato. Sullo sfondo il ritratto feroce di un Occidente che spaccia miti da due soldi, e per due soldi compra la miseria altrui.
"Quella penna che non ho visto è l'emozione più forte e la curiosità intellettuale più intensa della lunga giornata. E quando rientriamo in albergo sento di avere in mano il capo di una lenza che a tirarla, piano piano dall'Europa mi farà passare la porta verso la Russia". "Quella penna" è la penna che Goethe donò a Puskin, e della quale non si trova traccia. Parte così, da un filo sottile che si dipana, da una traccia d'inchiostro fantasma, una "indagine narrativa" tra viaggi e ricordi, letture e suggestioni, incontri e ricordi familiari, nel mito della Grande Russia. Alla ricerca "di un dono, di un omaggio, di un'eredità poetica, di un sentimento, di una scintilla vitale".
Milena è nata in galera e lì è vissuta fino a tre anni. Oggi ne ha ventiquattro e si prende cura dei bambini reclusi, come Marion. Marion sarà presto strappato alla madre detenuta con cui vive. Milena conosce quel dolore e farebbe di tutto per evitarglielo. Eugenio invece fa parte della sua vita fin dall'inizio: era il "fratello" con cui dividere il sonno, è stato l'amico che non aveva mai paura, è diventato il suo amante. L'incontro con un giornalista che vuole parlare dei bambini in carcere è il terremoto che fa tremare le mura dietro cui Milena si protegge da sempre. Il giornalista è intenzionato a forzare ogni porta, vuole liberarla, o solo averla. Ma quando sei nata in galera, anche l'amore può diventare una minaccia. Rosella Postorino racconta la gabbia delle nostre esistenze "separate e inconciliabili", e insieme la felicità furiosa dei corpi che si toccano. Scrive un romanzo di esclusione e tenerezza, dove ogni nido cova violenza, ma il tentativo di salvare un altro essere umano è l'unico modo per salvare se stessi.
La città è Bari. Il momento, gli anni Ottanta. Il denaro corre veloce per le vene del Paese. I tre adolescenti che si aggirano per le strade di questo libro hanno in corpo una sana rabbia, avvelenata dal benessere e dalla nuova smania dei padri. Si azzuffano e si attraggono come gatti selvatici, facendo di ogni cosa - la musica, le ragazze, le giornate - un contorto esercizio di combattimento. Ma negli angoli dei quartieri periferici li aspetta il lato in ombra di quel tempo che luccica: qualcosa che li costringerà a mettere in discussione le loro famiglie, i loro sentimenti, e perfino se stessi. Ci metteranno vent'anni per venirne a capo.
A venti chilometri in automobile dal lavoro e dal supermercato, come accade ai bordi di ogni metropoli, la città continua e diventa un altro luogo: Cortesforza. Come la contea di Yoknapatawpha in Faulkner e la Regalpetra di Sciasela, Cortesforza è un luogo tanto più vero quanto più è immaginario. Qui si vive un esodo eterno, e la giornata è ridotta a tragitti in tangenziale verso casa. Il lavoro non si vede più, è dappertutto, ha invaso i comportamenti quotidiani, affettivi. Per dare un senso alle proprie esistenze, gli abitanti di Cortesforza accendono un mutuo, traslocano in una zona nuova o "mettono in cantiere un figlio". Ogni volta, però, lo svelarsi improvviso di una seppur piccola possibilità provoca una sconfitta irreversibile. Una commedia umana raccontata con sguardo lucido, impietoso, privo di giudizi. Nessuna apocalisse: solo un'inevitabile, comune disfatta.
Giovane antifascista proveniente da una famiglia della borghesia ebraica piemontese, Vittorio Foa venne arrestato il 15 maggio 1935 a Torino, su delazione dell'informatore dell'Ovra Pitigrilli. Poco dopo l'arresto fu trasferito a Roma, nel carcere di Regina Coeli e denunciato al Tribunale Speciale fascista. Due anni prima Foa era entrato in «Giustizia e Libertà» e ben presto aveva assunto un ruolo di primo piano nella cospirazione antifascista. Foa resterà in carcere fino al 23 agosto 1943. Negli otto anni, tre mesi e otto giorni di reclusione gli fu concesso di scrivere soltanto ai famigliari piú stretti.
Nelle lettere selezionate per questa edizione, le riflessioni di Foa su se stesso e sulla sua esperienza carceraria si intrecciano con analisi storiche, economiche e letterarie che descrivono il suo modo di pensare e la sua educazione politico-intellettuale: una testimonianza chiave da trasmettere alle nuove generazioni.
Il libro di rime più presente alla nostra tradizione poetica, il registro tormentato di una lunga fedeltà al nome amato di una donna, e insieme alla poesia. Il Canzoniere di Petrarca, "libro dei frammenti", costruito in quarantanni di meditazioni e memorie, è un grande studio poetico della coscienza umana, uno specchio della conoscenza di sé che si acquisisce col tempo, negli anni, fra dolore e speranza. Accompagnando un testo che si offre in forma ammodernata, con traduzione della fonetica antica in grafia moderna, questo nuovo commento mira a evidenziarne gli snodi argomentativi, l'articolazione dei pensieri, nonché la formazione di un immaginario largamente debitore al medioevo spirituale. Osservazioni originali suggeriscono soluzioni a problemi irrisolti, e offrono prospettive nuove di lettura del Canzoniere, il volume offre anche due saggi importanti sul Petrarca di Giosuè Carducci e Gianfranco Contini. Introduzione di Paolo Cherchi.
La Sardegna degli anni Cinquanta è un mondo antico sull’orlo del precipizio. Maria ha sei anni ed è appena diventata «figlia d’anima» dell’anziana Bonaria Urrai, secondo l’uso campidanese che consente alle famiglie numerose di compensare le sterilità altrui attraverso una adozione sulla parola; il patto tacito è che la figlia acquisirà lo status di erede, ma in cambio promette di prendersi cura della madre adottiva nei bisogni della vecchiaia. La bambina è inizialmente convinta che Bonaria Urrai faccia la sarta, e infatti le giornate sono segnate dallo scorrere nella bottega casalinga di una umanità paesana, fatta di piccole miserie e di relazioni costruite di gesti e di sguardi, molto piú che di parole. Accettata come normale dal paese, l’adozione solidale tra la vecchia e la bambina si consolida malgrado lo sfaldarsi circostante delle antiche certezze. Attraverso lo sguardo privilegiato della bambina che cresce, le contraddizioni tra il vecchio e il nuovo emergono via via piú evidenti: nell’esperienza della scuola dell’obbligo, e in quella del confronto tra la fede cristiana e i retaggi di una religiosità assai piú antica nel tempo. Sarà l’imprevista rivelazione del segreto peccato collettivo dell’accabadura – la fine violenta e pietosa a cui Bonaria è incaricata di sottoporre gli agonizzanti in fin di vita – a infrangere l’armonia tra le due donne, costringendo entrambe a fare i conti tra l’etica millenaria di una società morente e i nuovi valori che l’incalzano.
Mentre narra la propria spedizione antartica, Daniele Del Giudice ripercorre i taccuini di quelle coraggiose spedizioni altrimenti sconosciute ai più, con naufragi, navi imprigionate mesi e mesi tra i ghiacci, equipaggi indomiti, marinai sull'orlo della disperazione o annientati dalla follia: sono gli ultimi veri racconti d'avventura, che hanno fissato il mito e la memoria di questa Terra Incognita. Con un lavoro di intarsio, al confine tra vita e letteratura, l'autore ricostruisce una "iperspedizione" che collega fra loro episodi di viaggi storicamente realizzati, ripercorrendoli sui sentieri del mondo e su quelli della scrittura. Giocando sulla diversità delle prospettive e delle voci, ci offre un "orizzonte mobile" nello spazio e nel tempo ma stabile e duraturo nei sentimenti che suscita. Un viaggio fuori dal tempo, dentro un paesaggio ipnotico e indifferente all'uomo, di sublime bellezza: dal giallo ocra delle pampas ai ghiacciai che colano in acqua, tra cime rocciose, nevi eterne e precipizi. Davanti agli occhi, un orizzonte di ghiaccio e luce, sempre sfuggevole. Sono luoghi, storie, giorni, anni, ere geologiche che resistono alla prospettiva lineare del semplice raccontare. Una millenaria geometria naturale che ogni cosa stratifica, ogni memoria cristallizza. Un mondo simultaneo di cui questo libro è il canto.
Dopo una gioventù on the road, Rossana è diventata una gatta "condominiale": ha trovato rifugio in un cortile torinese, insieme ai suoi cuccioli, coccolata dalla portinaia Aurora e dalla vedova Esposito. A scombussolare le sue giornate ci pensa Ramon lo sciupagatte, bellissimo e fiero, con il brillio dei suoi occhi verde-semaforo e il sorriso abbagliante a ventotto denti. Compagno infedele e padre decisamente assente, una mattina, prima di sparire del tutto, Ramon le confida il suo segreto: è un discendente del mitico gatto del Cheshire - lo Stregatto di "Alice nel paese delle meraviglie" - e ha ereditato il potere di rendersi invisibile, o quasi... Rossana dovrà scegliere tra i loro cuccioli l'erede giusto, trasmettergli il segreto e soprattutto imporgli di portare a termine il Compito. Inizia così l'avventura di Ruggine, catapultato verso il Nord contro la sua volontà, alla ricerca del luogo in cui dovrà assolvere l'importante missione. Tra mille peripezie e pericoli di ogni sorta, incontra Odradek, la strana creatura letteraria balzata fuori da un racconto di Kafka e, da quel momento, suo inseparabile compagno d'avventure. Attraverso l'esaltante scoperta della letteratura, e qualche incontro inaspettato, Ruggine e Odradek affronteranno un vero e proprio viaggio nella complessità del mondo, in cui il calore dell'amicizia sarà la vera rivelazione.