
In quel tempo remoto gli dèi si erano stancati degli uomini, che facevano troppo chiasso, disturbando il loro sonno, e decisero di scatenare il Diluvio per eliminarli. Ma uno di loro, Ea, dio delle acque dolci sotterranee, non era d'accordo e consigliò a un suo protetto, Utnapishtim, di costruire un battello cubico dove ospitare uomini e animali. Così Utnapishtim salvò i viventi dal Diluvio. Il sovrano degli dèi, Enlil, invece di punire Utnapishtim per la sua disobbedienza, gli concesse una vita senza fine, nell'isola di Dilmun. Il nome Utnapishtim significa «Ha trovato la vita». Dopo qualche migliaio di anni approda a Dilmun un naufrago, Sindbad il Marinaio. Utnapishtim lo accoglie nella sua tenda e i due cominciano a parlare. Ciò che Utnapishtim racconta è la materia di questo libro.
Turisti, terroristi, secolaristi, hacker, fondamentalisti, transumanisti, algoritmici: sono tutte tribù che abitano e agitano "l'innominabile attuale". Mondo sfuggente come mai prima, che sembra ignorare il suo passato, ma subito si illumina appena si profilano altri anni, quel periodo fra il 1933 e il 1945 in cui il mondo stesso aveva compiuto un tentativo, parzialmente riuscito, di autoannientamento. Quel che venne dopo era informe, grezzo e strapotente. Nel nuovo millennio, è informe, grezzo e sempre più potente. Auden intitolò "L'età dell'ansia" un poemetto a più voci ambientato in un bar a New York verso la fine della guerra. Oggi quelle voci suonano remote, come se venissero da un'altra valle. L'ansia non manca, ma non prevale. Ciò che prevale è l'inconsistenza, una inconsistenza assassina. È l'età dell'inconsistenza.
Per generale consenso, Vertigo [La donna che visse due volte] è il più inestricabile tra i film di Hitchcock - e per alcuni il più bello (o uno dei due o tre supremi). Questo libro si propone di dire perché. E perché Vertigo abbia un film gemello: Rear Window [La finestra sul cortile], che invece è usualmente considerato molto più semplice e immediato, mentre si potrebbe rivelare altrettanto vertiginoso. Ma parlare di questi due film è come parlare del cinema in sé, quindi anche di Max Ophuls, di Rita Hayworth, dell'epifania della «diva» e di un romanzo di Kafka che è innervato dal cinema da capo a fondo: Il disperso [America].
Siccome nasce
Come poesia d'amore, questa poesia
È politica.
"Splendi come vita" fa quello che fa la letteratura alla sua massima potenza: ridà vita a ciò che non c'è più, illuminando di riflesso la vita del lettore. Ma lasciamo che a parlarne sia l'autrice. «Splendi come vita è una lettera d'amore alla madre adottiva. È il racconto di una incolpevole caduta nel Disamore, dunque di una cacciata, di un paradiso perduto. Non è la storia di un disamore, ma la storia di una perdita. Chi scrive è una bambina adottata, che ama immensamente la propria madre. Poi c'è una ferita primaria e la madre non crede più all'amore della figlia. Frattura su frattura, equivoco su equivoco, si arriva a una distanza siderale fra le due, a un quotidiano dolore, a un quotidiano rifiuto, fino alla catarsi delle ultime pagine. Chi scrive rivede oggi la madre con gli occhi di una donna adulta, non più solo come la propria madre, ma come una donna a sua volta adulta, con la sua storia e i suoi propri dolori e gioie. Quando si smette di vedere la propria madre esclusivamente come la propria madre, la si può finalmente "vedere" come essere separato, autonomo e, per ciò, tanto più amabile» (Maria Grazia Calandrone).
Montechiasso è un borgo toscano arroccato sulle colline: nelle giornate di cielo nitido, scarno di nubi e con l'aria frizzante e pulita, si scorgono le vette delle Apuane, il mar Tirreno, le colline Metallifere, gli Appennini tosco-emiliani, il Casentino. Lì vive Sara, diciannove anni, figlia di Attilio, un tempo militante comunista nonché voce e chitarra del gruppo rock I Timidi. Ma a Montechiasso sono arrivati anche nuovi abitanti: per esempio il suo amico Averroè, giovane promessa dell'atletica nonché figlio dell'imam. Tutto sembra andare per il meglio, finché non arriva la notizia bomba: nel paese verrà costruita una gigantesca moschea, un'astronave aliena edificata tra le vigne e i campanili. Verranno tutti coinvolti in una discussione che rischia di degenerare, tra razzismi e idealismi, solidarietà e diffidenze: anziani con il pannolone e casalinghe disperate, preti troppo intraprendenti e affaristi senza scrupoli, politicanti di provincia e giornalisti ficcanaso, vecchi militanti e giovani rampanti, sciampiste pettegole e commesse della Coop.
Protagonisti di "Poco più di niente" sono Mosè e suo fratello Enrico, lo scatenato Vanni (appassionato di pesca subacquea) e Pedro, immigrato dall'Argentina. Hanno trentanni, sono amici da sempre e hanno molta voglia di divertirsi. Hanno anche tutti i problemi che può avere oggi un giovane cresciuto in una delle tante periferie italiane: il lavoro, i soldi, i rapporti di coppia (Viviana ha appena lasciato Enrico...). Vite qualunque e però piene di avventure sgangherate e divertenti, finché Enrico, improvvisato infermiere e badante, non inizia a occuparsi di Adelaide, un'anziana che, dopo essere stata rinchiusa per trent'anni in manicomio, può finalmente tornare a casa propria. Quando entra nell'appartamento di Adelaide, resta sbalordito: la donna ha inciso tutte le pareti con scritte quasi illeggibili, fitte fitte: è il racconto di una vita, forse la traccia di un tesoro.
Un tram, che si fa immaginare come isola di luce nel buio della notte di Natale, viaggia nell'estrema periferia. Dentro porta un mistero, fragile e abbandonato. Salgono povere persone che hanno finito la giornata. La prostituta deportata dall'Africa, il suo disgraziato cliente, il clandestino che vive di espedienti, l'artista vinto dalla malattia, l'infermiera assediata dalla solitudine, il ragazzo che non riesce a mettere insieme la cena per la compagna e la figlia. Vanno verso la notte di vigilia che li aspetta, o che semplicemente non li aspetta. Ciascuno porta con sé, nei pensieri, nel ricordo, sul corpo, una storia diversa e complicata, che parla di loro stessi e di altri, ma pur sempre impastata di impotenza e di rabbia. Ma quel mistero gettato in fondo ai sedili, dietro la cabina dell'autista assuefatto all'indifferenza, li raccoglie tutti insieme, come un presepe viaggiante, miraggio di salvezza. Per quanto ognuno di loro senta che non c'è salvezza fuori da quel tram di Natale. Nella sua prosa fortemente lirica, che ha la capacità di modularsi ai momenti del racconto, quasi di musicarli, Giosuè Calaciura con gli strumenti della letteratura ci restituisce l'urgenza, la profondità e le contraddizioni del nostro tempo. Alla Dickens (il cui Canto di Natale questo racconto apertamente richiama), senza timidezze nel mettersi decisamente dalla parte della denuncia e dell'impegno.
Un irrequieto adolescente fugge dalla madre, dagli obblighi quotidiani, dal villaggio povero e opprimente, e si mette alla ricerca del padre. In realtà insegue il suo passato, la comprensione del mistero della sua nascita, degli enigmi della sua infanzia, perché la madre è silente, forse non ricorda, o forse non vuole parlare. Solo il padre potrebbe fare il miracolo di restituirgli la memoria. Ma il padre non c'è più, ha abbandonato la famiglia. Il nome di quel ragazzo è Gesù, Maria e Giuseppe i genitori, Nazaret e la Galilea lo spazio delle sue avventure, del suo bisogno di amore, del dolore e della timidezza che sempre lo accompagnano. E il Gesù di Calaciura è un giovanissimo viandante in un cammino pieno di sorprese, passioni e tradimenti, dolcezza e violenza. Attorno a lui uomini e donne che sono figli di una terra con leggi spietate, il feroce dominio romano con la sua inarrivabile macchina bellica e governati va, l'autorità religiosa e morale dei sacerdoti, l'arroganza e lo sfarzo dei ricchi, la brutalità di chi si pone al di fuori della società e depreda i più deboli, la disperazione di chi non trova nemmeno un'oliva per nutrirsi o una pozza per dissetarsi. È un tempo inquieto, stravolto da cambiamenti profondi, il nuovo e il vecchio, l'antico e il moderno collidono e si sgretolano, nessuno più di un ragazzo tormentato dal desiderio e dall'ansia del futuro è capace di avvertire il battito sotterraneo di una rivoluzione in arrivo. Di cui, senza davvero volerlo, sarà protagonista.
Con questo volume di poesie scelte, Corrado Calabrò consegna al lettore un'opera antologica importante e nuova, organizzata in sezioni che gettano luce sui temi fondamentali della sua sessantennale attività di scrittura: un autoritratto poetico da cui emerge la forte consapevolezza raggiunta con la piena maturità espressiva, capace di stabilire rapporti profondi fra testi nati in momenti diversi della vita. Il mare, l'astrofisica e l'amore risultano gli elementi cardine intorno ai quali ruota il pensiero emozionale del poeta, tenuti insieme dall'energia che dà forma alla salda pronuncia del dettato, tra classico e sperimentazione, nella variabilità di forme che spaziano dal poemetto all'epigramma. «La vera originalità del Calabrò» ha scritto Carlo Bo nel 1992, individuando uno dei motivi centrali dell'intera sua opera «sta nell'essersi staccato dai modelli comuni per inseguire una diversa sperimentazione poetica Ha cantato non il suo mare, ma piuttosto l'idea di un mare eterno e insondabile.» Accompagnano le poesie due significative riflessioni d'autore. La densa postfazione, intitolata "C'è ancora spazio, c'è ancora senso per la poesia, oggi?", costituisce un bilancio dei multiformi interessi e della passione profusa da Calabrò nel fare poesia; l'altra nota è invece dedicata al poemetto "Roaming" - apparso per la prima volta nel volume "La stella promessa" del 2009 e ora posto in apertura di questo libro - che rappresenta forse l'opera più suggestiva di Calabrò. Dopo duemila anni dal "De rerum natura" di Lucrezio, infatti, l'astrofisica è tornata ad essere, in forma onirica, materia di poesia.
Questo libro è il racconto di un cammino, quello che Gemma Capra, vedova del commissario Calabresi, ha percorso dal giorno dell'omicidio del marito, cinquant'anni fa. Una strada tortuosa che, partendo dall'umano desiderio di vendetta di una ragazza di 25 anni con due bambini piccoli e un terzo in arrivo, l'ha condotta, non senza fatica, al crescere i suoi figli lontani da ogni tentazione di rancore e rabbia e all'abbracciare, nel tempo e con sempre più determinazione, l'idea del perdono. Un racconto che, partendo dalla vita di una giovane coppia che viene sconvolta dalla strage di Piazza Fontana, attraversa mezzo secolo, ricucendo i momenti intimi e privati con le vicende pubbliche della società italiana. Un'intensa e sincera testimonianza sul senso della giustizia e della memoria. Una storia di amore e pace.
"Non importa quante volte cadi. Quello che conta è la velocità con cui ti rimetti in piedi." Come si esce da una crisi, come si supera una perdita, un insuccesso, un fallimento? C'è chi ha avuto la forza di rimettersi in piedi dopo che l'azienda in cui lavorava ha chiuso, chi ha rifiutato di arrendersi dopo che la recessione lo aveva costretto a vendere la casa in cui viveva e a partire per chissà dove, chi ha ritrovato la forza di andare avanti dopo che un lutto sembrava avergli tolto una ragione per vivere. Due anni in viaggio attraverso l'America, trentasei Stati, l'elezione presidenziale più emozionante che si ricordi e tante vite di gente comune. Ma al centro di tutto questo per Mario Calabresi c'è una sola domanda: che cosa accade nel cuore di chi cade e trova la forza di rialzarsi? Magari con fatica, con dolore, ma con tenacia incrollabile e soprattutto senza aspettare la fortuna? Qual è il segreto di una nazione e della sua gente, capace da sempre - ma oggi più che mai - di reinventarsi da zero, di darsi una seconda chance, di eleggere un presidente nero contro ogni previsione, di rimettersi in cammino anche dopo che la più grave recessione del dopoguerra ha travolto la vita di milioni di persone?