
Robert Hugh Benson, con Il padrone del mondo (1907), ci porta in una realtà nella quale l’uomo ha raggiunto gli estremi confini del progresso materiale e intellettuale, dove tutto è meccanizzato e programmato per un unico grande progetto: il trionfo dell’Umanitarismo. L’eliminazione della guerra, l’abolizione dei rumori, la legalizzazione dell’eutanasia, l’adozione di cibi artificiali, l’uso dell’esperanto sono solo alcune tra le caratteristiche che fanno da naturale corollario al nuovo tipo di convivenza civile.
In questo paesaggio si muovono, con estrema ponderatezza, i personaggi di Benson, ricchi di umanità e descritti in modo sapiente: Oliviero Brand, il politico, teorico del nuovo sistema che vede l’uomo unico dio e signore delle cose; Mabel, la deliziosa compagna di Oliviero, che sceglie la dolce morte offerta dalle case dell’eutanasia e che, nel momento estremo, quando l’ultimo soffio di vita fugge dal suo corpo provato dal lungo conflitto esistenziale, vede, capisce e prova, netta la sensazione del misterioso Altro. Giuliano Felsemburgh, l’uomo che costituisce la sintesi più sconcertante dei sentimenti e delle aspirazioni che l’Umanitarismo suscita, l’uomo che contende a Dio il dominio del mondo; Percy Franklin, un prete, combattuto internamente dall’intensa lotta in cui la fede vacilla per poi riconfermarsi più viva e vera.
Un classico della letteratura europea del XX secolo
La storia è quella di Gaston, un prete francese, ma il libro fotografa il nostro mondo dal 1914 al 1948 con la sensibilità di chi ha saputo toccare le corde più profonde di un’epoca. È un libro sull’amore, la gente, la politica e il trascorrere del tempo. Ma soprattutto è un libro su Dio e su quanto possa essere bello servirlo.
Una bellezza e un servizio di cui Gaston, dalla giovinezza alla vecchiaia, non fa che assaporare la molteplice varietà: dalla meraviglia della liturgia a un bimbo che sorride, ad una veste femminile ingentilita al vento.
Tutto per Gaston può essere anche sacro. Dalla sua partecipazione alla prima e poi alla seconda guerra mondiale seguiamo i passi gentili del sacerdote in un carosello attorno alla piazza della sua chiesa, nel quale si vedono cambiare cardinali e canonici, politici e burocrati, così come la moda nell’atelier di fronte. Gaston sa che nostro Signore non ha camminato in un mondo asettico e che lui, seguendolo, è chiamato a cercare di entrare in quella misteriosa economia per cui il buon ladrone viene perdonato sulla croce all’ultimo momento e ad ogni uomo verrà dato il soldo della sua fatica di vivere in un modo che a noi non è possibile calcolare. Il placido mondo della piazza circondata dalla chiesa, dal macellaio e dal negozio di moda è spesso attraversato dalla violenza dei tempi, che trova Gaston incapace di trascurare chi soffre e alieno dal giudicare.
Lo scenario del romanzo è la storia terribile e avvincente dei nostri tempi così come può essere messa a fuoco da un uomo umilmente e inguaribilmente colmo dell’amore di Dio. La sua ricompensa sarà alla fine la comprensione del motivo per cui, nella parabola dell’evangelista Matteo, l’operaio che ha faticato tutto il giorno finisce per ricevere lo stesso soldo di qualcuno che aveva cominciato a lavorare soltanto la sera.
Nel gennaio del 1845 il trentaduenne Dickens fa il suo ingresso a Roma. È la tappa più importante del suo tour raccontato in "Impressioni italiane", da cui sono tratte queste pagine. Subito il suo sguardo attento si appunta su ogni aspetto: le strade, le case, gli abitanti, il clero. Ne risulta alla fine un ritratto in chiaroscuro: a tratti persino spietato contro riti e miserie della città, ma pur sempre carico di fascino per la suggestiva bellezza della sua millenaria storia.
Dentro un negozio di antiquariato di Londra, nel tempo di Natale, Stevenson ambienta un tragico incontro in cui il protagonista, di fronte al delitto che ha compiuto, scopre che comunque "tutti sono migliori della maschera che si vedono crescere addosso e che li soffoca".
Con le incisioni originali del 1844, uno dei meno conosciuti tra i "Racconti di Natale" di un autore classico della letteratura mondiale in una nuova traduzione di Marina Vaggi. "Dickens incanta la nostra attenzione con figure che balenano evidentissime... tante sono le strade che conducono alla poesia" (Cesare Pavese).
Il giornale sta al terzo piano di un palazzo storico. Non ci sono scritte sulla porta. Niente nome né testata, solo un manipolo di penne che comunicano fra loro in inglese. Fuori dall’ascensore qualcuno ha appeso un cartello: «Lasciate ogni speranza voi ch’uscite. Outside is Italy». Tre piani sotto c’è Roma, la cui bellezza, con quel misto di fascino e inquietudine, caos e dolce vita, appare eterna soprattutto a chi, all’inseguimento di sogni effi meri, vi arriva da un paese lontano.
Tutti i dipendenti del giornale – americani, inglesi, australiani, canadesi – sono suffi cientemente uomini di mondo per primeggiare nella qualità che governa il loro mondo: l’imperfezione. Lo stagista zelante interviene sempre a sproposito, la titolista non riesce a far entrare le parole nelle colonne, il correttore di bozze lascia errori grossolani, il redattore pedante dà letteralmente in escandescenze se qualcuno si azzarda a utilizzare l’avverbio «letteralmente», l’inviato al Cairo conosce quattro parole di arabo e non ha idea di dove si trovino le notizie. In redazione parlano il giornalese, lingua che fonde sintesi e desiderio di conformismo, ma fuori ognuno torna a indossare – drammaticamente – la propria inadeguata unicità.
Undici ritratti di imperfezionisti – taglienti, ironici e fatalmente intrecciati con le traversie del giornale e con l’ultimo mezzo secolo di storia – formano il racconto perfetto del regno dell’approssimazione mediatica, dove l’arte della verità fl uttua pericolosamente nella corrente delle passioni umane, tra cialtroneria e bassezze, cinismo e solitudine.
Tokyo, 1948. Anno del Ratto. Portatore di malattia, il topo governa la città occupata due volte: dalle truppe del generale americano Mac Arthur, insediato dopo la resa giapponese, e da fantasmi inquieti.
Tokyo. Un altro anno del Ratto. Uno scrittore corre ansimando nella notte, gli occhiali rotti, i pantaloni infangati. Fra le sue braccia gli appunti di un libro che non vuole farsi scrivere. Sta correndo verso la Porta Nera. Lì forse troverà la verità. Lì forse capirà chi è il falso medico che nel 1948 ha avvelenato e ucciso i dodici dipendenti della Banca Teikoku.
Tokyo ha scelto il suo colpevole. Ma la città è occupata, posseduta, la verità nascosta. Per scoprirla, lo scrittore partecipa a una seduta spiritica: dodici candele vengono spente, una per ciascuno spirito. Le voci delle vittime, della polizia, degli occupanti americani si contaminano, si intrecciano in un serrato rituale esorcistico. Fra i deliri dei testimoni, dove nessuno dice la verità e quando la dice ne mistifi ca un’altra, s’insinua lo spettro della Guerra Batteriologica, l’eredità degli atroci esperimenti sui tronchi, le cavie umane dell’Unità 731 deliberatamente infettate dalla peste.
E le pagine del libro che non voleva farsi scrivere ora non sono più bianche. Eppure lo scrittore non trova pace perché, sì, i personaggi fi nalmente sono suoi, ma sue sono anche le lacrime, sua è la sofferenza del Giappone.
È la condanna dello scrittore quella che David Peace racconta nel secondo volume della Trilogia di Tokyo. La sua partecipazione al dolore di un paese spezzato dalla guerra. È l’omaggio ai racconti di Akutagawa e al cinema di Kurosawa, ma anche al buio di 1984. Una storia in cui nulla è risparmiato, nessuno è risparmiato. Un libro che fa trattenere il respiro come se fosse morto il mondo intero.
Ci sono, nel mondo, città, fiumi, vulcani, deserti che pulsano di un'energia arcana, di un magnetismo misterioso che attrae gli sguardi e i passi, i sogni e i desideri. Ci sono regge, strade, foreste che risuonano di parole: le parole di Goethe quando scorge per la prima volta il mare a Venezia, le parole di Kerouac mentre disegna il profilo dell'America con le ruote di una Cadillac, le parole di Joyce per smarrirsi e ritrovarsi a Dublino, le parole di Hemingway per inseguire il sole da Parigi a Pamplona. Parole che guidano, parole cicerone, calamite, fari: parole che ci fanno vedere il mondo come altrimenti non potremmo mai fare. A queste parole si aggiungono oggi quelle di Geoff Dyer, stralunato viaggiatore, favoleggiatore babelico, flàneur della letteratura, incantatore della sabbia, che sa animare per plasmarla in forme sempre nuove, un ammaliamento che non conosce fine: sabbia bianca dei deserti americani, sabbia bianca fra le strade della Città Proibita, sabbia bianca di neve sotto il cielo di una notte alle Svalbard, sabbia bianca in riva al mare di Tahiti, sabbia sospesa nel vento, sabbia che scorre dalle dita chiuse a pugno, sabbia in perpetuo, inarrestabile movimento. Come Geoff Dyer, come noi. "Sabbie bianche" non è un romanzo, né un reportage, non è una raccolta di racconti e nemmeno un diario di viaggio: è tutte queste cose e si ostina a non esserne nessuna; è lo «spazio vuoto sulla cartina» del suo autore. È, soprattutto, la conferma dell'incredibile dono di Geoff Dyer di mescere arte e vita, immagini del reale e fantasmi dell'immaginazione: geodeta della parola, Dyer deposita nel deserto abbacinante della pagina i semi di un'affabulazione inesauribile, come inesauribile è la sua e nostra tensione, umana troppo umana, a trovare un posto nel mondo, un senso, un amore. Alla perenne ricerca di "qualcosa", ci smarriamo allora fra dune di sabbia, destinati a non giungere mai all'oasi cui aneliamo. Ma non importa, suggerisce Geoff Dyer, la vita è questo, quello che succede quando non troviamo ciò che cerchiamo.
«Londra era, ma non è più.» Una pressione centrifuga l’ha fatta esplodere fino a invadere il Sud dell’Inghilterra, tanto che è quasi impossibile stabilire dove cominci e dove abbia fine. Londra è ovunque, è sfruttata e sfruttatrice, è multiculturale, ha fretta ma non sa dove andare. È un museo per turisti in cui un graffito di Banksy viene ricoperto entro poche ore da un plexiglass protettivo. La abitano cittadini stregati dagli smartphone e ciclisti che non hanno tempo di evitare i pedoni. La sconfitta della sua architettura la trascina lontano da sé, verso Dubai, Singapore o in un diverso, anonimo altrove. Qui, come a Madrid, Vancouver e Guadalajara, c’è sempre la vetrina di un McDonald’s, e lì di fronte un uomo che cerca di dormire sotto una coperta. Londra sta per scomparire. La Londra di Iain Sinclair, fantasmagoria di miraggi e reliquie, è il compendio di ogni metropoli, emblematica come la città di fumo e fango raccontata da Dickens. È un avamposto del futuro che assomiglia a una nave da crociera alla deriva: la deriva della Brexit, dei cartelli Leave come sintomo di una fuga da sé. L’ultima Londra è il regesto letterario di un vagabondaggio tra ospedali notturni, vestigia di tunnel segreti e opulente piscine difese da elicotteri di sorveglianza. Con humour nero e profonda empatia, Sinclair descrive incontri con un’ostinata umanità che bazzica i margini, fatta di santoni e senzatetto, di uomini immobili sulle panchine di un parco come Buddha vegetativi, di artiste che scattano fotografie a gomme da masticare abbandonate sull’asfalto. Scrittore, flâneur e psicogeografo, Iain Sinclair si muove a piedi per la città armato di taccuino, prendendo appunti da una cancellazione. Come un archeologo di fronte alle rovine, indica l’utopia fallita del villaggio olimpico e l’estuario fangoso del Tamigi, una finis terrae presidiata da cani che corrono e cagano sulla sabbia. Il suo è un viaggio sciamanico verso le origini dei luoghi, alla ricerca di una direzione smarrita. L’ultima Londra è un romanzo, perché ogni romanzo è l’esperienza di un fallimento. È letteratura, perché affonda negli interstizi tra il presente e il presente che verrà. È un antidoto a un luogo in cui anche chi vive da regolare si sente un migrante clandestino
Durante un soggiorno a Monte Carlo insieme alla signora cui fa da dama di compagnia, una giovane donna, appena ventenne, conosce il ricco e affascinante vedovo Maxim de Winter. L'uomo inizia a corteggiarla e, dopo due sole settimane, le chiede di sposarlo; lei, innamoratissima, accetta con entusiasmo e lo segue nella sua grande tenuta di famiglia a Manderlay. Sembra l'inizio di una storia da favola, ma i sogni e le aspettative della giovane si scontrano subito con la fredda accoglienza della servitù, in particolare della sinistra governante. Eppure non si tratta solo di questo: c'è qualcosa, in quel luogo, che giorno dopo giorno rende l'ambiente sempre più opprimente; c'è una presenza che pervade ogni stanza della magione e che si stringe attorno ai passi dell'attuale inquilina come una morsa silenziosa. È Rebecca, la defunta signora de Winter, più viva che mai nella memoria di tutti quelli che l'hanno conosciuta e modello inarrivabile per la giovane, che invece si muove impacciata e confusa nella sua nuova esistenza altolocata e mondana. Un fantasma ingombrante che si trasformerà in una vera e propria ossessione per la protagonista, costretta a immergersi nelle ombre del proprio matrimonio e spinta sempre più ai confini della follia, fino a dubitare della propria stessa identità. Fonte di ispirazione dell'omonimo film di Alfred Hitchcock con Laurence Olivier e Joan Fontaine, "Rebecca la prima moglie" è l'opera più famosa e amata di Daphne du Maurier: un thriller psicologico ricco di suspense e mistero, colpi di scena e ribaltamenti inaspettati, passioni e segreti. Un romanzo sulla gelosia e sulla memoria, che conduce il lettore tra le pieghe dell'animo umano, là dove si nascondono gli spettri nati dal dolore più atroce e dalle paure più inconfessabili.
1754. Nati e cresciuti a Madras, in India, Theo Courtney e sua sorella Constance sono sempre stati inseparabili, ma la tragica morte dei genitori li allontana bruscamente, mettendo fine alla loro infanzia fatta di avventure e complicità. Theo, tormentato dai sensi di colpa, cerca il riscatto arruolandosi nell'esercito britannico e combattendo nella guerra franco-indiana. Connie, convinta di essere stata abbandonata dal fratello, dopo aver subito ogni sorta di abusi e angherie da chi avrebbe dovuto proteggerla, riesce infine a fuggire in Francia e a farsi accettare nell'alta società parigina. Ma ancora una volta si ritrova alla mercé di uomini crudeli e senza scrupoli, la cui sete di potere e di gloria finisce per condurla suo malgrado sul fronte nordamericano della Guerra dei sette anni, dove Francia e Gran Bretagna si affrontano senza esclusione di colpi. Poi, inaspettatamente, le loro strade si incontrano di nuovo, e i due fratelli si rendono conto che la vendetta e la redenzione che entrambi stanno disperatamente cercando potrebbero costare loro la vita... Una nuova generazione di Courtney lotta per la libertà in un susseguirsi di dolorose tragedie e grandi passioni, atti di eroismo e orribili tradimenti, che portano il lettore nel cuore della guerra franco-indiana.