
Sono ancora nelle mente di tutti alcuni casi che hanno turbato l'Italia: il caso Englaro, il caso Welby: casi in cui il diritto alla vita è sembrato scontrarsi col diritto alla cura, la libertà col dovere terapeutico. Su questi temi così controversi si confrontano in questo libro due voci diverse: quella di un laico - Umberto Veronesi - e quella di un credente - Giovanni Reale -, quella di un medico, impegnato nella cura del corpo, e quella di un filosofo, preoccupato per definizione dello spirito. A unirli, nel confronto dialettico delle ragioni dell'uno e dell'altro, la convinzione che la moderna medicina debba recuperare il fattore umano, come avveniva nella medicina antica, debba tenere in debito conto le sofferenze psicologiche prodotte dai mali fisici e, soprattutto, debba rispettare la libertà della scelta. Nessuno può decidere sulla vita di un uomo, e meno che mai può decidere lo Stato, per legge. L'autodecisione, per guanto riguarda la vita, è irrinunciabile. Togliere all'uomo l'autodecisione significa negargli la libertà, ossia il bene più grande che Dio gli ha dato. E per questo laici e credenti possono concordare.
Nella Chiesa di San Marco a Firenze, sono raccolte le spoglie di alcuni dei più grandi uomini che nel corso di 500 anni hanno dedicato opere e parole decisive sul valore della Persona. Nel testo se ne ricorda due: Pico della Mirandola e Giorgio La Pira. Il primo, nella sua "Orazione sulla dignità dell'uomo", esalta la visione di un uomo collocato "al centro del mondo", "né celeste né terreno, né mortale né immortale", "investito dell'onore di decidere liberamente". Nel 1944 il secondo, durante la fuga per sottrarsi a un ordine di cattura della polizia fascista, inizia una riflessione sulla condizione dell'uomo del suo tempo, muovendo da una Weltanschauung capace di dare risposta agli interrogativi sui problemi essenziali della realtà e della Storia. Da quelle radici nasce l'idea di Persona, da affermare, oggi, come fonte e sintesi dei criteri di valutazione dell'umano. Senza alcun rilievo giusnaturalistico e senza alcuna riduzione identitaria, ma con una tecnica basata su un'oggettività ideale e giuridica espressa da due fattori: il Pluralismo, sociale e politico, e un'azione ordinante della dimensione sempre nuova dell'esistenza.
"Lei, caro lettore e soprattutto cara lettrice, ama gli eretici, ne sono sicuro: sennò non avrebbe preso in mano questo libro. Infatti, con questo scritto io sono un eretico, se non altro perché esco dai binari che caratterizzano la mia attività di accademico (ammesso che accademico lo sia mai stato: secondo la maggioranza dei miei colleghi, non sono un uomo di scienza, quindi, non posso essere un 'accademico', semmai un avventuriero). Infatti, questo libro esula completamente, come può vedere dalle bandelle, da quello di cui mi sono occupato finora. Però, a parte che un eretico rispettabile dev'essere un avventuriero, c'è un filo conduttore che regge la trama della mia arrività. Sono passato dallo studio di uno dei più originali pensatori americani del secolo scorso, Thorstein Veblen, alle relazioni industriali e del lavoro e poi all'analisi delle organizzazioni complesse per finire per scoprire che al cuore del problema che catturava la mia attenzione, il potere, c'era la differenza di genere. Quando ho scritto un libretto per reagire sia alla retorica antiamericana che all'americanismo di maniera, riflettendo sulle origini di quella società dove la democrazia tiene duro, mi sono reso conto che bisognava risalire molto più indietro del viaggio che portò Max Weber a scoprire l'importanza delle sette per la democrazia: era necessario esplorarne la fonte. Così, di peregrinazione in peregrinazione, è nata la decisione di scrivere un libretto su quei sessant'anni del IV secolo i quali hanno partorito un apparato teologico-politico che ha letteralmente spaccato l'occidente in due, segnando l'inconscio collettivo dei paesi che vi sono rimasti intrappolati dal Portogallo alla Russia nei quali le istituzioni liberal-democratiche, il progresso economico e scientifico, l'emancipazione femminile hanno vita difficile. Così il cerchio si chiude e l'eretico appare essere un esploratore dotato di bussola." (L'autore)
Dalla pubblicazione dell'"Estetica" di Croce nel 1902, attraverso la stagione esistenzialista degli anni Trenta e quella neoilluminista del dopoguerra, fino alla rinascita dell'etica a fine secolo: la filosofia italiana del Novecento in una ricognizione attenta anche alle vicende storiche.
Il Novecento ha rappresentato per la storia della filosofia italiana un secolo di grande interesse. Ciò vale soprattutto per il periodo seguito alla seconda guerra mondiale, al termine della quale, con la caduta del fascismo, occorreva porre rimedio alla chiusura nazionalistica che la cultura italiana aveva conosciuto in tutti i campi, filosofia compresa. Proprio quel nuovo inizio valse a inaugurare la stagione più ricca di fermenti, idee e dibattiti, che riuscirono a traghettare la cultura filosofica del paese fuori dell'isolamento indotto dal fascismo e dall'idealismo imperante. Prestando particolare attenzione alla visione d'insieme ma anche ai singoli apporti di autori o scuole, Carlo Augusto Viano ripercorre in questo volume alcuni momenti della vicenda filosofica italiana del secolo scorso, approfondendo il ruolo che in essa hanno avuto figure come quelle di Croce, Banfi, Abbagnano, Bobbio, importanti tradizioni cittadine (tra tutte, quella torinese) e le principali correnti di pensiero (dall'idealismo all'esistenzialismo e al neoilluminismo).
Pietro Lombardo, richiamandosi a Girolamo, scriveva che esiste "una scintilla superiore della ragione, che neppure in Caino poté estinguersi, che vuole sempre il bene e odia sempre il male". La scintilla della coscienza avrebbe dunque il ruolo di giudice interiore delle nostre azioni. Nel corso dei secoli, tuttavia, il concetto stesso di coscienza ha subito metamorfosi che ne hanno cambiato sensibilmente il significato. Carlo Augusto Viano intreccia in questo libro molte di queste storie, in contesti, tempi e luoghi differenti, tutte incentrate sulla coscienza e sugli usi pubblici di questo concetto ambiguo e duttile. La narrazione inizia con il rifiuto di imbracciare le armi da parte dei quaccheri americani e finisce con l'obiezione di coscienza di quei medici che negano alle donne l'assistenza che esse richiedono. Sono due estremi che evidenziano due accezioni radicalmente diverse del termine: gli obiettori quaccheri rivendicavano il diritto di sottrarsi all'obbligo di prevalere sugli altri, mentre i medici obiettori pretendono di imporre alle donne ciò che solo essi ritengono giusto. L'obiezione "di coscienza" alle armi e alle pratiche mediche non è nuova, e ha permeato il dibattito pubblico per secoli; questo libro ne ripercorre il cammino evidenziando i paradossi impliciti di questa parola abusata.
La presente edizione critica di tre operette vichiane, il De Antiquissima Italorum Sapientia (1710) e le due Risposte (1711 e 1712) al «Giornale de' Letterati d'Italia», applica il metodo filologico-ecdotico già prospettato dallo stesso Placella nello studio del 1978 che impostava le linee guida, per la riedizione di tutte le opere di Vico progettata da Pietro Piovani, rispondenti alle esigenze della nuova filologia applicata alle opere moderne. In varie imprese ed eventi culturali Placella aveva approfondito e sviluppato tali esigenze, ad esempio nel Congresso Internazionale da lui organizzato su I moderni Ausili all'Ecdotica (Salerno 1990, Atti Napoli 1994). La metodologia suggerita da Placella è stata seguìta nella maggior parte delle edizioni realizzate all'interno del Centro di Studi Vichiani di Napoli, in particolare in due esemplari monumenti di ecdotica: le edizioni critiche della Scienza Nuova del 1730 e di quella del 1744, a cura di Cristofolini e Sanna. Nella presente edizione per la prima volta viene offerta anche una trascrizione critica degli importanti Articoli del «Giornale de' Letterati d'Italia», conosciuti finora soltanto attraverso gli adattamenti di Fausto Nicolini. La nuova impresa consente di offrire, grazie anche alla fedeltà ai testi, uno strumento per la conoscenza della lingua italiana del giovane Vico che nel presente studio viene esaminata e per la prima volta anche raffrontata alla lingua profondamente diversa delle tre edizioni della Scienza Nuova.
La Scienza nuova, di cui in questo volume si pubblicano le tre edizioni, del 1725, del 1730 e del 1744, è un Classico del pensiero occidentale, essenziale per la comprensione del nostro mondo storico non meno della Repubblica di Platone e dell’Etica di Spinoza, della Metafisica di Aristotele e della Critica della ragion pura di Kant, del De Civitate Dei di Agostino e della Fenomenologia dello spirito di Hegel. Due le idee-guida che si intrecciano, e anche confliggono, in quest’opera geniale e inquietante: 1) l’estensione al mondo umano della mathesis universalis, che ha segnato la nascita della scienza moderna, ma che in Galilei e Cartesio era limitata alla natura; 2) la genealogia della coscienza e della logica a partire dal “senso” e dalla “fantasia”, da cui discende l’interesse prevalente di Vico per il formarsi della prima umanità. Interesse mai disgiunto dalla consapevolezza dei limiti della ragione, che può a stento “intendere”, ma non “immaginare” quell’età ancora incerta tra storia e pre-storia. Da questa consapevolezza “critica” nacque quella fusione di logos e mythos, concetto e immagine, che caratterizza il linguaggio barocco della Scienza nuova (in particolare nelle due ultime edizioni, qui presentate nella loro scrittura originaria), nel quale Vico espose due e diverse concezioni del tempo umano-divino della storia. In particolare il quinto e ultimo Libro di quest’Opera in continuo compimento, se per un verso ripropone l’idea pre-cristiana della ciclicità del corso storico, per l’altro, “sospende” l’intero orizzonte del tempo all’attimo presente: il kairologico “adesso” di Paolo, in cui “il tempo s’è contratto” (I Co, 7.29). Ma proprio questa doppiezza della Scienza Nuova permette di instaurare significative connessioni tra la posizione di Vico e gli esiti più alti della riflessione contemporanea sulla storia, da Heidegger a Benjamin. Certo nel pieno rispetto della specificità dei loro differenti “tempi”, e quindi fuor d’ogni pretesa di stabilire “precorrimenti” e “inveramenti”; ma non meno certamente contro le vane “monumentalizzazioni” di una storiografia volta esclusivamente al passato.

