
Pochi studiosi hanno inciso sul pensiero e sulla cultura artistica del proprio tempo come Johann Joachim Winckelmann; ma il suo lascito va ben oltre il Settecento, se è vero che da allora e anche oggi lo si riconosce come fondatore dell'archeologia classica e della storia dell'arte. Proprio l'unanimità di questo riconoscimento ha portato spesso a guardare alla sua opera come a una sorta di monumento, ingessandone il contenuto in rigide formule, oppure identificandola completamente con l'esperienza neoclassica. In realtà i "Pensieri" del 1755 e i brevi scritti degli anni successivi, come poi le opere della maturità - la "Storia dell'arte nell'antichità" e i "Monumenti antichi inediti" - mostrano continuamente la ricchezza e la vivacità del suo pensiero, l'acutezza delle osservazioni sull'arte degli antichi e su quella dei moderni, la capacità di proporre ampie visioni storiche, ma anche di decifrare il minimo dettaglio. Nel frattempo la modernità viene posta di fronte al mondo classico e costretta a confrontarsi con quello, da una parte sul piano dell'arte, dall'altra secondo la prospettiva della vita culturale, dei comportamenti, delle strutture politiche. L'antologia di scritti, apparsa da Einaudi già nel 1943, viene ora riproposta con testi recuperati nella loro integrità, una nuova scelta di passi, una bibliografia aggiornata e un apparato di note di commento.
È il problema che passa nella testa di ogni visitatore di musei e gallerie, che appassiona gli amanti dell'arte e tormenta i filosofi: che cos'è mai un'opera d'arte, se oggi persino una scatola di detersivo può esserlo? Nel rispondere a questa domanda, Arthur Danto compie uno straordinario tour de force attraverso l'espressionismo astratto e la Pop Art, l'arte concettuale e il minimalismo, i racconti di Borges e i quadri di Brueghel, le poesie di Auden e i grandi nomi della filosofia analitica e continentale, costruendo quella che è diventata una pietra miliare della filosofia dell'arte e un punto di riferimento imprescindibile per la critica d'arte contemporanea.
La città europea è da sempre l'ambiente della civitas democratica occidentale. Quello dove i cittadini si riconoscono come tali, dove sono cresciuti i diritti umani e le libertà. Per questo i muri dell'urbs sono stati immaginati con la pretesa di offrire una prospettiva di eternità nella quale radicare le speranze terrene e riconoscersi pienamente come cittadini. Il degrado delle periferie europee, i cui abitanti sono privati della loro appartenenza alla civitas è uno dei disastri del Novecento. L'Europa è stata capace di risollevarsi dalle sbandate per i totalitarismi, salvata dall'antica radice democratica della civitas, ma non sembra ancora avviata a rigenerare con altrettanta consapevolezza la consolidata figura dell'urbs. Senza alcuna nostalgia tradizionalista, Marco Romano invita a riscoprire il linguaggio consolidato attraverso i secoli nella sfera estetica della città. Quel linguaggio che non è soltanto una declinazione artistica tra le tante, ma il solo modo con il quale la civitas esprime il sentimento della propria cittadinanza e il riconoscimento della dignità dei suoi cittadini.
Questo volumetto intende uscire dall'idea stereotipata dell'arte africana che vede, con sguardo coloniale, una supposta "africanità" come involucro unificante di un intero continente. Si è cercato piuttosto di introdursi alle molteplici produzioni artistiche antiche, tradizionali e contemporanee che si incontrano nel continente africano per coglierne il diverso divenire, pur nelle costrizioni dell'evento coloniale. Da come l'Occidente ha "visto" l'Africa si passa a come l'Africa ha influenzato l'Occidente, a cui però è sfuggito il contesto delle opere che lo attraevano.
Il termine "romanico" all'inizio del 1800 viene dato per indicare l'attività costruttiva medievale dell'XI e XII secolo. Si intendeva richiamare la sapienza costruttiva dei Romani di fronte alle imponenti cattedrali ottomane realizzate intorno all'anno mille e alla straordinaria armonia costruttiva dei due secoli seguenti; ma, egualmente, "romanico" ci riporta alla vernacolarità e diversità delle lingue romanze e, riferito all'architettura, alla scultura e alla pittura, ci indica la straordinaria creatività e inventiva di due secoli in cui ravvisiamo una comunanza di linguaggio in una versatilità di espressioni. Il periodo che chiamiamo romanico parte dall'epoca degli Ottoni, vede la rinascita delle grandi basiliche sino ai nuovi orizzonti aperti da Sugero per un lato e dal monachesimo cistercense per l'altro. Si tratta del primo grande movimento artistico che ci fa ravvisare l'Europa come un commonwealth estetico che abbraccia la Penisola Iberica, la Penisola Italiana, la Germania, la Svizzera e l'Austria, la Francia, le Isole Britanniche, parte della Scandinavia e dell'Europa orientale. L'antropologia religiosa cristiana, innervata dai movimenti monastici e dalle riforme ecclesiastiche, si esprime nel romanico con una forte tendenza a dare forme visive, realistiche ed espressioniste, al mistero e alla storia sacra, di cui committenti, costruttori e artisti si sentono partecipi.
Il volume affronta quella che può essere definita la svolta più importante nella storia della pittura contemporanea dal 1960 a oggi: l'uso e la traduzione dell'immagine fotografica. Si ricostruisce l'evoluzione di questa tendenza nell'arte internazionale degli ultimi 45 anni, a partire dalle opere rilevanti create negli anni Sessanta da pittori come Gerhard Richter, Vija Celmins, Andy Warhol e Malcolm Morley, i quali si erano ispirati a immagini fotografiche. Con un ricco corredo di illustrazioni di oltre 100 dipinti di 22 artisti, che nel loro lavoro attingono a fonti fotografiche disparate istantanee amatoriali, foto di cronaca di giornali, illustrazioni da riviste il testo analizza come un'immagine cambi drammaticamente significato e contenuto a seconda del mezzo espressivo adoperato.
Ogni giorno, in Italia, centinaia di persone imparano a memoria un brano di teatro: lo fanno per entrare in un'accademia, per preparare un provino, per una qualsiasi audizione... E sempre, di fronte al testo da recitare (dopo aver letto la trama e ricavato le necessarie notizie sull'autore), devono controllare accenti, addolcimenti di alcune consonanti, passaggi sillabici insidiosi e foneticamente complicati. "Cento monologhi ben pronunciati" risponde a questa precisa esigenza: prendendo lo spunto da brani di varia natura ed epoca, accompagnati da specifici testi esplicativi, il volume evidenzia pronunce aperte e chiuse, raddoppiamenti fonosintattici, suoni dolci, aspri o intensi della lingua italiana. Nell'ampio saggio introduttivo l'autore spiega inoltre le ragioni che sottostanno alla particolare dizione che nel corso dei secoli abbiamo prescelto, con un'attenzione ulteriore verso problemi di prosodia, intonazione, cantilena. Per una pronuncia rigorosa ma allo stesso tempo serena, libera e sicura. Il volume contiene brani ed estratti richiesti nelle prove di ammissione delle più importanti accademie teatrali e cinematografiche italiane.
Quando le culture della Mesoamerica si svelarono in tutto il loro splendore agli occhi dei primi europei, suscitarono reazioni contrastanti. Da un lato c'erano l'orrore dei sacrifici umani e del cannibalismo rituale, dall'altro una vita urbana ricca e articolata in cui non mancava quasi nulla di ciò che, secondo i criteri del XVI secolo, doveva caratterizzare la civiltà: la scrittura, la matematica, l'arte, il calendario, l'architettura e organizzazioni socio-politiche basate sull'ordine, la coesione e la gerarchia. A partire dal XX secolo, tuttavia, questi atteggiamenti contrastanti hanno lasciato spazio a una sempre crescente ammirazione per le culture precolombiane. In questo clima, dunque, è abbastanza frequente leggere che i Maya erano grandi astronomi e grandi matematici, che i Toltechi erano grandi architetti ecc. A ben vedere, però, quest'esaltazione finisce per rimuovere la radicale diversità di queste culture. Scopo di questo volume è quello di documentare tale diversità.
Il volume presenta alcuni percorsi della storiografia artistica del Novecento raccogliendo i testi "in memoriam" dedicati da illustri studiosi a storici dell'arte europei che ne sono stati tra i maggiori protagonisti. La peculiarità del genere, che sull'antica radice umanistica ha visto fiorire la tradizione anglosassone degli "obituaries", sta nell'intreccio di dati biografici e riflessione critica sull'attività delle singole figure che emerge attraverso la lente di un confronto ravvicinato. Nella loro varietà cronologica e geografica questi epitaffi restituiscono il dialogo tra le generazioni e, nel rapporto tra destini individuali e sviluppi della disciplina, disegnano una mappa degli scambi di idee, dei temi di ricerca, dei problemi di metodo che hanno segnato la storia dell'arte sullo sfondo delle maggiori vicende politiche del XX secolo.