
Questo libro parla di Venezia, delle sue pietre e dell'acqua con la quale da sempre fa i conti. Delle sue storie e dei suoi protagonisti: dai primi insediamenti veneziani alla Repubblica dei commerci, da Shakespeare a Byron che in Laguna alimentò il suo talento letterario e visse i suoi amori più brucianti. Un libro che ribalta anche uno stereotipo: la stagione d'oro della Serenissima non va cercata nel Sei-Settecento, bensì alla fine dell'Ottocento, nella Venezia di D'Annunzio che nel suo discorso di chiusura per la prima edizione della Biennale d'Arte veneziana proclamò la nuova formula vincente della città: Venezia non più centro-cuore dei commerci di gemme e sete come al tempo del Milione, bensì luogo ideale per lo scambio delle idee. La Venezia centro di networking internazionale prende ispirazione proprio da quell'intuizione. Rafforzata poi, dal 1932, dalla Mostra del Cinema nata per volontà del conte Volpi di Misurata. Il libro raccoglie infine le ambiziose sfide del futuro: la risoluzione del problema del contenimento della forza dell'acqua con il Mose e la candidatura della città come capitale della cultura per il 2019, dove gioca la carta vincente, da secoli: la sua unicità.
Dal Prometeo incatenato di Eschilo, al Negromante dell'Ariosto, dal Candelaio di Giordano Bruno fino alla Vita di Galileo di Brecht (e oltre), la scienza del tempo ha profondamente influenzato il linguaggio teatrale fornendogli la materia prima per dei veri capolavori. Grazie alla sua profonda conoscenza della storia del teatro, Andrea Bisicchia costruisce così un affascinante percorso trasversale che ci permette di scoprire una dimensione fino a oggi del tutto trascurata e di capire ancora meglio quali siano state le più profonde fonti di ispirazione di capolavori senza tempo. Per questo "Teatro e scienza" è un punto di svolta cruciale nella storiografia teatrale e aprirà la strada, senza alcun dubbio, a un nuovo mondo di ricerche e di indagini.
Oggi siamo abituati a considerare il teatro come la fusione di diversi aspetti: il testo, la regia e la recitazione. In realtà, quanto adesso ci appare scontato, è frutto di una radicale trasformazione che maturò in Italia alla fine dell'Ottocento (per la precisione tra il 1860 e il 1890). Come mostra Gaetano Oliva in questo libro, infatti, prima era l'attore a dominare: si costruiva le parti, si organizzava la regia e spesso modificava come meglio credeva il testo in modo da poter primeggiare. Era molto comune che i testi di Shakespeare o Ibsen o Cechov venissero tagliati e riassemblati in funzione delle esigenze dell'attore. Fu solo nella seconda metà del XIX secolo che cominciò a delinearsi la nuova figura del drammaturgo professionista, che non era al servizio stabile di una compagnia, né voleva scrivere per attori o per capocomici, ma intendeva produrre testi originali. Il tramonto del Grande Attore lasciò lo spazio alla nascita di una nuova figura: quella del regista. Questi era l'esperto addetto alla supervisione generale dell'opera ed era colui che acquisiva il compito di interpretare l'idea dell'autore, ponendosi come intermediario tra il testo e l'attore.
Il "Manuale del film" è divenuto negli anni un punto di riferimento per l'insegnamento del linguaggio cinematografico nei corsi universitari e una guida per tutti coloro che, amando il cinema, cercano con i film un rapporto che vada di là della loro semplice visione. Attraverso ampie analisi di scene e sequenze tratte da film che appartengono a diversi momenti della storia del cinema, a differenti generi, stili e autori, il libro studia il linguaggio cinematografico in tutte le sue componenti: dalla sceneggiatura alla scenografia, dal punto di vista della macchina da presa a quello dei personaggi, dal fuori campo ai movimenti di macchina, dal montaggio al rapporto fra suono e immagine. Questa nuova edizione del "Manuale del film" nasce dal bisogno di rendere conto dei grandi cambiamenti avvenuti in questi anni sia nel cinema in quanto tale, sia negli studi a esso dedicati. Sono stati quindi aggiunti, da un lato, argomenti che erano stati omessi o poco sviluppati nella prima edizione, come le osservazioni sul colore, quelle relative al lavoro dell'attore e quelle inerenti ad aspetti più tecnici. Dall'altro lato, sono stati inseriti quegli elementi che il cinema contemporaneo, postmoderno e digitale hanno introdotto nella rappresentazione e comunicazione filmica e che hanno quindi assunto un ruolo fondamentale nello studio di questa disciplina.
Un viaggio in treno fino a Pavana, lungo la ferrovia Porrettana, per avvicinarsi nel modo più autentico allo spirito delle canzoni e dei luoghi di Francesco Guccini. È il viaggio, metaforico e reale, che intraprende l'antropologo Marco Aime, e insieme a lui ogni lettore, che ha con questo libro l'occasione di scoprire, attraverso la viva voce di Guccini, i ricordi più personali, insoliti e inaspettati attinti da una vita intera tra musica e poesia. Un viaggio emozionante e suggestivo, ma al contempo molto concreto, fatto di paesaggi aspri come i boschi dell'Appennino che Guccini ci invita da sempre, attraverso i suoi versi, a scoprire. E popolato di personaggi curiosi come la vecchia signora di Pavana che indica ad Aime - appena sbarcato nel borgo gucciniano per eccellenza - la casa del cantautore annunciando, con il tono fiero e rispettoso di chi segnala a un turista il museo del Louvre a Parigi, o il Colosseo a Roma: "Lì c'è Guccini". "Tra i castagni dell'Appennino" è, naturalmente, anche un viaggio nella memoria, che ripercorre l'evoluzione artistica ed esistenziale di una delle più grandi voci del panorama musicale italiano. Dai primissimi dischi ed esibizioni nelle osterie alle influenze letterarie che percorrono tutta la sua produzione, dagli anni delle contestazioni politiche ai piccoli vezzi privati che hanno accompagnato decenni di concerti, fino a diventare mitici rituali collettivi.
Miliardi di foto postate e condivise sui social network, di macchine analogiche e digitali sempre più sofisticate ma anche sempre più superate da tablet e smartphone. Miliardi di immagini da cui nei prossimi anni saremo invasi, perché mai come oggi la fotografia accompagna ogni momento delle giornate di noi tutti: fotografi più o meno consapevoli, che, con il semplice gesto di estrarre dalla tasca il telefonino, abbiamo imparato a consegnare vite intere, ricordi e bellezza, a flussi di immagini archiviate (e spesso dimenticate) in una memoria esterna artificiale. Immagini che crediamo eterne ma che sono, in realtà, molto più effimere e destinate all'oblio delle vecchie diapositive. Scatti che possiamo sì moltiplicare all'infinito ma che si riescono a visualizzare al meglio solo nelle ridottissime dimensioni della cornice di uno smartphone. Selfie che dimostrano fino a che punto la nuova fotografia dell'era digitale stia diventando sempre più specchio, e non finestra sul mondo. Perdendo per sempre la sua magia. Ma che ne sarà della verità e della potenza della fotografia? Che ne sarà della sua particolarissima magia, che rivela e spiega, che denuncia e mette a nudo? Se lo chiede Roberto Cotroneo in questo saggio sulla fotografia e la sua storia che è al contempo un personalissimo memoir, in grado di evocare sulla pagina la magia stessa delle immagini fotografiche.
L’anima di una città abita i suoi muri, vive negli stili con cui sono eretti i palazzi del centro, nel modo in cui sono collocati i giardini e i monumenti. Le città – tutte le città – sono in questo senso l’esito di una riconoscibile intenzione estetica. Per afferrarla, non basta disporsi in contemplazione delle carte antiche o dei palazzi, come davanti a un quadro, occorre invece praticare l’arte di camminare passo passo e soprattutto di vedere – non guardare soltanto – ogni strada e ogni piazza.
La guida turistica chiusa nello zaino, lo sguardo verso l’alto, il viaggiatore dovrà farsi condurre dalle sue sensazioni, da ciò che attrae il suo occhio. Un occhio che, come spiega Marco Romano, dotto urbanista e instancabile camminatore, va nutrito con la curiosità e allenato con lo studio, perché l’estetica della città è una disciplina consolidata e rigorosa, che non differisce in niente dalla valutazione di qualsiasi opera in ogni altro campo della critica d’arte.
A saperli riconoscere, tutte le città hanno i medesimi temi collettivi, le medesime strade e le medesime piazze, ma disposti sempre in maniera diversa: è l’osservatore che deve saperli di volta in volta individuare. Dalle piazze decentrate ai boulevard asimmetrici, è negli scarti dalla norma, nella variazione di uno schema storico tipico, che si manifesta la specificità di ogni singolo agglomerato urbano, che sia una sconfinata metropoli come New York o un piccolo centro come Abbiategrasso.
Come è andata radicandosi la curiosa e unica varietà di piazze monumentali di Torino? Da dove viene la pianta stellata di Palmanova? Come nasce quella lunga città lineare che circonda Parigi? Rispondere a queste domande significa tracciare di ciascuna città un ritratto: un’operazione inventiva, fatta di documentazione, cultura e istinto, ma soprattutto di lunghe e avventurose passeggiate.