
In pagine teoricamente dense, tra pamphlet e dichiarazione di poetica, un grande architetto si interroga alla ricerca dei fondamenti e della specificità del suo mestiere. Vittorio Gregotti svolge il suo lavoro in tutto il mondo. Ha firmato progetti a Berlino, Shanghai, lisbona, Barcellona, Parigi, oltre che in tutta Italia. Ha insegnato in molte Università europee e americane e presso la Facoltà di Architettura di Venezia.
Il paesaggio italiano è stato smantellato, snaturato. Liquidato è la parola esatta, perché rende conto del guadagno ricavato. Sopravvivono molti frammenti ma l'antica interezza è perduta. Leonardo Benevolo ripercorre l'eclisse della progettazione territoriale e il degrado e lo sperpero dell'identità fisica italiana. Leonardo Benevolo è il più noto studioso italiano della storia dell'architettura.
Il liberty, il futurismo, l'art déco, il fascismo, il razionalismo, lo stile Olivetti, il neo-storico, l'high tech, il minimalismo, il radical design, fino all'era informatica: Renato De Fusco traccia la complessa evoluzione del design nel nostro paese privilegiando le continuità formali che la caratterizzano, piuttosto che la pura successione cronologica da cui è scandita Questo volume approfondisce le peculiarità proprie di una nazione come l'Italia dove mancano, o sono mancati, solidi riferimenti come risorse, grandi imprese industriali, vasta committenza: un contesto produttivo-commerciale che ha inevitabilmente influenzato la vivacissima parabola artistico-culturale del nostro design.
Stiamo assistendo a un cambiamento epocale nel consumo dei musei, le cui conseguenze non sembrano essere apprezzate nella loro reale portata: moltiplicazione e concentrazione dell'accesso, trasformazione in "brand name", assoluta preminenza del contenitore sul contenuto, caduta verticale della comprensione. In queste condizioni è sempre più difficile che gli oggetti conservati nei musei svolgano alcuna funzione culturale. Le tecnologie digitali possono costituire uno strumento fondamentale per correggere questa situazione, ma sono tuttora vittime di un approccio distorcente sia da parte dei ricercatori tecnologi che da parte dei curatori museali. Affrontare questo caso è importantissimo perché investe il problema del come (non) si promuove l'innovazione tecnologica e la sua ricaduta in un settore, quello dei beni culturali, strategico per l'Italia.
La parola più ricorrente in tutti i tentativi di osservare l'insieme del cinema italiano dalla fine degli anni sessanta a oggi è "crisi". In effetti un grande cinema, che aveva raggiunto una produzione di centinaia di titoli in grado di esercitare una vera concorrenza sul piano internazionale con la produzione americana, dalla metà degli anni settanta subisce una serie di mutamenti strutturali che ne modificano profondamente economia, mercato, modi di produzione, modelli narrativi, tematiche e poetiche autoriali. Lo sguardo sul presente di molti registi italiani si offusca e vengono a mancare le chiavi interpretative e le certezze che avevano sostenuto il percorso comune dal neorealismo al boom economico. Nello stesso tempo, con un movimento irreversibile, la fiorente industria cinematografica viene fagocitata dalle televisioni pubbliche e private. Ne sono le conseguenze più importanti la scomparsa del cinema di genere, la chiusura di migliaia di sale di seconda e terza visione, il passaggio di molti registi alla televisione. Nel pieno della "crisi", tuttavia, alcuni caratteri identitari del nostro cinema sopravvivono e producono svolte positive. Autori come Olmi, Bertolucci, i fratelli Taviani, Ferreri, Scola, Leone, Argento raggiungono una definitiva consacrazione internazionale; emerge una nuova ondata di comici, da Verdone a Troisi a Benigni; si compie il ricambio generazionale degli attori.
"Il dramma dell'architettura oggi è quello di vedersi obbligata a tornare pura architettura, istanza di forma priva di utopia, nei casi migliori, sublime inutilità. Ma ai mistificati tentativi di rivestire con panni ideologici l'architettura, preferiremo sempre la sincerità di chi ha il coraggio di parlare di quella silenziosa e inattuale purezza." Così scriveva Manfredo Tafuri nella premessa alla prima edizione del 1973 di un volume destinato a polarizzare il dibattito teorico e critico in architettura. Il suo libro, polemicamente "di rottura", rilegge la storia dell'architettura e dell'urbanistica moderna e formula un progetto per un radicale ripensamento del ruolo dell'architetto e, più in generale, dell'intellettuale. Riscontrato il fallimento dei grandi progetti ideali degli architetti novecenteschi, Le Corbusier in testa, Tafuri sostiene la necessità di abbandonare facili utopismi ideologici e si scaglia contro la pretesa che l'architetto contemporaneo possa, con la sua opera, risolvere le insolubili contraddizioni della società di oggi.
Come definire l'arte romana e, soprattutto, quando fissarne l'inizio? Possono considerarsi romane le opere create a Roma e per Roma dal VI al IV secolo a.C., o sono ancora espressioni dell'arte etrusca, riferibili a una generale arte italica? E come comportarsi con la stragrande maggioranza dei generi artistici romani, che perlopiù copiano o adattano analoghi generi greci? "Dell'arte romana ci interessano soprattutto il contesto storico e i messaggi delle immagini: non più l'arte come una dimensione autarchica, quanto piuttosto come medium della comunicazione sociale. Con un approccio di questo tipo, le immagini vengono intese come elemento integrato di una cultura definita in senso antropologico". Secondo questa prospettiva diventa naturale fissare un inizio orientativo dell'arte romana nel momento in cui essa sviluppa le sue caratteristiche specifiche, in risposta a una meglio definita organizzazione sociale e politica. Tale momento coincide con la trasformazione dello Stato al sorgere dell'Imperium romanum. L'ellenizzazione che andò di pari passo con la conquista delle città e delle monarchie greche modificò radicalmente le strutture politiche e sociali.
L'opera, gli scritti e la vita di Marcel Duchamp, per risalire alle radici storiche di scelte e processi che sono ancora oggi al centro del dibattito teorico e critico sul significato dell'opera d'arte. Sotto la lente analitica dell'autrice ogni elemento della vita e dell'opera di Marcel Duchamp si rivela connesso e indispensabile per comporre una visione integrale del suo essere artista, dai disegni dei primi anni ai successivi dipinti, al ready-made, al Grande Vetro, all'Étant Donnés, passando per gli scritti, le numerose interviste, l'abbandono della pittura, il gioco degli scacchi. Muovendosi tra i temi duchampiani più noti - il possibile, l'oggetto 'già fatto', l'arte come atto mentale, l'erotismo, l'ironia, il caso - Carla Subrizi ne rilegge l'intera parabola artistica, dall'atto di nominare opera d'arte un oggetto qualsiasi alla realizzazione di un'opera ai confini tra immagine e parola, alla decisione estrema di mantenere segreta un'opera per più di venti anni e rivelarla al pubblico solo dopo la propria morte.
È il problema che passa nella testa di ogni visitatore di musei e gallerie, che appassiona gli amanti dell'arte e tormenta i filosofi: che cos'è mai un'opera d'arte, se oggi persino una scatola di detersivo può esserlo? Nel rispondere a questa domanda, Arthur Danto compie uno straordinario tour de force attraverso l'espressionismo astratto e la Pop Art, l'arte concettuale e il minimalismo, i racconti di Borges e i quadri di Brueghel, le poesie di Auden e i grandi nomi della filosofia analitica e continentale, costruendo quella che è diventata una pietra miliare della filosofia dell'arte e un punto di riferimento imprescindibile per la critica d'arte contemporanea.
Ripulsa, accoglienza, orrore, aggressione, abbandono, sorpresa, spavento: il gesto nell'arte è un tema vasto che ha appassionato a lungo André Chastel, al punto tale che gli ha dedicato tre anni di seminari al Collège de France. Quest'opera raccoglie tre di quelle sue lezioni. Dal turbinio di gesti nel Martirio di San Matteo di Caravaggio, all'indice alzato del San Pietro Martire del Beato Angelico, alle 130 dita del Cenacolo leonardiano, dove i movimenti delle mani si legano agli sguardi e alla psicologia dei personaggi, Chastel decripta i segni visibili della comunicazione non verbale.
I greci costruivano i loro anfiteatri ponendo grande attenzione all'orientamento della struttura rispetto ai punti cardinali, in modo che la luce naturale illuminasse al meglio le rappresentazioni all'aperto, ma è solo a partire dalla nascita del teatro moderno che si può parlare di una vera e propria tecnica scenica dei sistemi di illuminazione. In queste pagine Cristina Grazioli traccia il percorso storico seguito dalla luce, intesa nella sua qualità di oggetto scenico, a partire dai sofisticati "ingegni" quattrocenteschi di Brunelleschi, per giungere al complesso uso dell'illuminazione fatto dalle Avanguardie storiche primonovecentesche, fino ai nostri giorni e alle infinite prospettive aperte, per esempio, dalle nuove tecnologie. Snodo centrale della trattazione è il periodo a cavallo tra Sette e Ottocento, quando significative innovazioni tecniche si coniugano a una notevole quantità di riflessioni teoriche sull'illuminazione teatrale, preparando l'epoca delle grandi "rivoluzioni" del settore: l'affermazione del gas e poi della luce elettrica.
Nel Settecento prende forma la metropoli moderna. Mentre nascono nuove capitali - come San Pietroburgo e Washington - si forma anche un nuovo proletariato che darà vita alle rivoluzioni americana e francese. Prima della rivoluzione industriale il 60-80% della popolazione attiva era impiegato in attività agricole e viveva in campagna; l'industrializzazione porta la gran parte della popolazione a trasferirsi nelle nuove metropoli e intellettuali, governanti e architetti s'interrogano sulla struttura di agglomerati urbani che sovraffollamento, concentrazione di attività produttive, nuove istanze di igiene e salubrità non consentono più di valutare unicamente in termini di "bellezza", "decoro" o monumentante. L'architettura ricerca nuovi materiali e nuovi sistemi di produzione da applicare su larga scala in inediti tipi edilizi - ministeri, caserme, carceri, ospedali, borse, teatri, biblioteche, musei, fabbriche e cimiteri - mentre gli edifici per il culto e i palazzi reali o dell'aristocrazia perdono centralità nella qualificazione degli spazi urbani.