
Muovendo dallo studio dei rilievi del prodigioso tempio giavanese di Barabudur (IX secolo), Bosch ci accompagna, attraverso una lussureggiante selva di richiami simbolici, fino al cuore della concezione indiana del mondo: Hiranyagarbha, il Germe d'oro del Rgveda, il principio unico della vita. Emerso dalle acque primordiali come pianta di loto, partecipe delle essenze opposte di Soma e di Agni, Hiranyagarbha diviene l'albero cosmico rovesciato, asse dell'universo, nel quale scorre il rasa, l'Acqua della Vita che anima e accomuna tutti gli esseri - animali, uomini e dèi. Così, i motivi che ai non iniziati potevano sembrare decorativi si rivelano carichi dei più profondi significati metafisici e religiosi. Guidato da un mirabile intuito per le immagini e da una rara familiarità con le fonti iconografiche e letterarie, Bosch ricostruisce la cosmologia che plasma non solo ogni forma dell'arte e dell'architettura indù e buddhista, ma anche la religione, il mito, la nozione stessa dell'uomo e della vita propri dell'India antica.
Come sappiamo dalle sue strepitose lettere, nonché dalla leggenda che circonda la sua carriera di attore, Groucho Marx era Groucho in ogni sua manifestazione, e la comicità che irradiava sullo schermo si nutriva delle ricche assurdità della sua vita. Così, un'autobiografia di Groucho non poteva certo somigliare alle tediose elencazioni di travolgenti successi che spesso costituiscono le vite delle star. E alla fine, usciremo da questo libro storditi e felici come dopo aver visto uno dei suoi migliori film.
«Così, dopo lunghe titubanze e una serie di soluzioni provvisorie, nel febbraio o marzo del 1893, meditando intensamente un giorno intero, alla sera abbozzai una memoria ... che fu come una rivelazione di me a me stesso» scrive Croce in "Contributo alla critica di me stesso". In effetti, a partire da questa «memoria» fervidamente antipositivistica ? volta a confutare le tesi di storici come Droysen e Bernheim ? Croce si libera dal suo passato, dalla «scrittura di erudizione» come lui stesso la definiva, e, nell'affrontare le complesse relazioni fra arte, scienza e storia, scopre la sua vera vocazione: l'interesse, prepotente, per le questioni teoriche e le indagini storiche di più ampio respiro. Leggendola, ritroveremo non solo «la facilità e il calore» con cui Croce la compose, ma tutta la forza dimostrativa di uno stile ineguagliabile.
«Il mio amico Serge ha comprato un quadro» annuncia Marc, da solo in scena, ad apertura di sipario. «È una tela di circa un metro e sessanta per un metro e venti, dipinta di bianco. Il fondo è bianco, e strizzando gli occhi si possono intravedere delle sottili filettature diagonali, bianche». Subito dopo Marc viene a sapere dallo stesso Serge che il quadro bianco a righe bianche è stato pagato duecentomila franchi: cosa che Marc giudica grottesca, poiché secondo lui è «una merda». Un terzo amico, Yvan - che ha già abbastanza guai con i preparativi del suo matrimonio -, non prende posizione, venendo accusato dagli altri due di pusillanimità e doppiezza. Così, la serata che i tre decidono di trascorrere insieme si trasforma in un regolamento di conti, in un gioco al massacro: il quadro bianco a righe bianche diventa il rivelatore da cui affiorano a poco a poco nevrosi, risentimenti e rivalità, mentre le parole si fanno sempre più velenose, sempre più acuminate, fino a ridurre in macerie la fragile impalcatura di un rapporto fondato sull'egoismo, la vanità e l'ipocrisia. Yasmina Reza, di cui conosciamo la penna affilata e lo sguardo chirurgico, tocca in questa commedia nera vette di comica crudeltà, si diverte e ci fa divertire - perché ridiamo molto, anche se sempre più a denti stretti, a mano a mano che da sotto la maschera buffa del théâtre de boulevard vediamo spuntare la malinconia.
Da Puškin a Mandel’štam a Brodskij, la letteratura russa ha continuato a sognare, evocare, scoprire l’Italia. E nessuno meglio di Pavel Muratov – che vi giunge nel 1907, subito avvertendo un «turbamento dello spirito, dolce fino al malessere», e fra il 1911 e il 1912 pubblica, con enorme successo, Immagini dell’Italia – può svelarci le ragioni di questa «italomania». A Venezia, spiega, «noi beviamo il vino dell’oblio ... Tutto quanto è rimasto alle nostre spalle, tutta la nostra vita precedente diviene un fardello leggero». E gli artefici del Rinascimento gli appaiono «semidei», «eroi del mito», un antidoto all’«accidia della vita russa», a Dostoevskij e Tolstoj. Non a caso nel 1923, invitato a Roma per una serie di conferenze, lascerà per sempre la Russia. «Apparteneva a quella schiera di scrittori come Ruskin e Walter Pater,» ricorda l’amico Sciltian «e aveva più sensibilità e talento di Berenson». Ma non è la sconfinata cultura che apprezzavano Savinio e De Chirico, De Pisis e Longhi a rendere, ancor oggi, la lettura di Muratov una rivelazione. Né l’influsso di Pater, Stendhal e Gogol’. Semmai, il suo procedere per folgorazioni lungo un pellegrinaggio che diventa «ricerca delle proprie radici spirituali» (Petrowskaja); la sua capacità di trasmetterci la vita delle opere d’arte; lo sfavillio delle ecfrasi e l’incanto di una lingua in virtù della quale una guida si trasforma in un «libro poema»; l’inclinazione a restituire atmosfere ed epoche attraverso la letteratura: da Casanova alla Divina Commedia, da Gozzi a Webster, miracolosamente prossimo alla «saggezza algida e scettica» del Cinquecento.
In un'aula giudiziaria, una donna vestita di nero accusa il capomafia che ha fatto ammazzare suo marito e poi anche suo figlio: «Loro sono venuti meno alla legge dell'onore,» dichiara «e perciò anch'io mi sento sciolta». Pur di vendicarli ha accettato di «dispiacere ai morti» - di infrangere le regole cui si erano sottomessi. Quella donna è Serafina Battaglia, testimone di giustizia nella Palermo dei primi anni Sessanta, devastata dai regolamenti di conti mafiosi. Ma il testo che ne evoca la «vindice inflessibilità» non è un racconto: è uno dei tre memorabili soggetti che Sciascia, realizzando un'antica vocazione - diventare regista o sceneggiatore -, ha scritto per il cinema, e che sono sinora rimasti inediti. Nata alla fine degli anni Venti nel «piccolo, delizioso teatro» di Racalmuto trasformato in cinematografo, e in seguito febbrilmente alimentata, la sua passione per il cinema è del resto sempre stata travolgente: «per me» ha confessato «... il cinema era allora tutto. Tutto». E ha suscitato, fra il 1958 e il 1989, acute riflessioni affidate ai rari scritti pure qui radunati: sull'erotismo nel cinema, sulla nascita dello star system, sul periglioso rapporto tra opere letterarie e riduzioni cinematografiche. Nonché splendidi ritratti: come quelli di Ivan Mosjoukine, dal volto «affilato, spiritato, di nevrotica malinconia», di Erich von Stroheim, «l'ufficiale austriaco che ha dietro di sé il crollo di un impero», o ancora di Gary Cooper, «eroe della grande e libera America» - vertiginosamente somigliante al sergente americano che nell'estate 1943 avanzava al centro della strada «fulminata di sole» di un paese della Sicilia.
"È come un pezzo di ghiaccio entro cui brucia una fiamma" scriveva Kandinsky in una lettera del 1925, alludendo alla sua pittura. Ma lo stesso si potrebbe dire del libro che egli avrebbe pubblicato pochi mesi dopo, "Punto, linea, superficie", testo capitale e rinnovatore per la teoria dell'arte e non solo per essa. Fra tutti i grandi pittori del '900 Kandinsky è quello che forse più di ogni altro ha sentito l'esigenza di dare una formulazione teorica ai risultati delle proprie ricerche e di allargarne il significato toccando tutti i piani dell'esistenza. Già nel 1910, quando appena cominciava ad aprirsi la strada alla terra incognita dell'astratto, Kandinsky aveva scritto "Über das Geistige in der Kunst", altro testo di grande risonanza, proclama mistico più che saggio di estetica, appello a un rivolgimento radicale della vita oltre che al rinnovamento dell'arte. "Punto, linea, superficie" si presenta come un'opera più fredda e tecnica, ma in realtà è l'espressione più articolata, matura e sorprendente del pensiero di Kandinsky. Alla base del libro sono i corsi che Kandinsky teneva dal 1922 al Bauhaus. In essi egli mirava soprattutto a individuare la natura e le proprietà degli elementi fondamentali della forma, perciò innanzitutto del punto, della linea e della superficie. Con estremo radicalismo Kandinsky dichiarava allora di voler fondare una scienza dell'arte: nel corso ulteriore delle ricerche i problemi avrebbero dovuto esser risolti matematicamente, e su questa strada si sarebbe mossa tutta l'arte futura. Per questo suo assunto e per le scoperte che per la prima volta vi sono esposte, "Punto, linea, superficie" ebbe un'influenza determinante in diversi campi, basti pensare alla grafica. Ma ciò che oggi colpisce nel libro è innanzitutto l'abbozzo di una metafisica della forma, ben più che il progetto di una scienza esatta.
«Immagini dell'Italia», ha scritto un amico di Muratov, Boris Zajcev, non è un manuale di storia dell'arte: piuttosto, «un libro di iniziazione, di consacrazione all'Italia in quanto categoria dello spirito», sorretto da una «capacità virtuosistica di sentire l'Italia» - e, aggiungiamo, di restituirla in tono confidenziale al lettore, trasformato in interlocutore e compagno di viaggio. Ne abbiamo la prova soprattutto in questo secondo volume, dove Muratov riesce a comunicarci quel «sentimento di Roma», simile alla «felicità della giovinezza», che suscita la presenza vivente dell'antico: così, di fronte ai lauri «quasi umani» che crescono accanto alla Casina Farnese sul Palatino, abbiamo anche noi l'impressione che la metamorfosi di Dafne divenga comprensibile, e che torni a manifestarsi «un mondo perduto di immagini per metà umane e per metà naturali». A Muratov infatti non importa tanto conoscere il passato, quanto stabilire con esso un contatto, sicché gli sarà propizio, più dei Musei Vaticani o Capitolini dalla sconfortante e cimiteriale magnificenza, il Chiostro di Michelangelo alle Terme di Diocleziano, dove le ombre delle foglie e dei rami che scivolano sui marmi «sono una sorta di "trait d'union" fra il nostro mondo e l'antico, e la sola cosa che consenta al cuore di riconoscerlo e di credere nella sua vitalità». Si rivela per questa via la verità segreta delle opere d'arte, e da ultimo quella delle metope di Selinunte: il mito è «rischiaramento del mondo, liberazione dell'essenza spirituale di ogni cosa».
«Sto preparando» scriveva Cirlot ad André Breton nel 1956 «una summa simbolica, nella quale vengono raffrontate le conoscenze sul simbolismo di occultisti, psicologi, antropologi, orientalisti, storici delle religioni e autori di trattati». Facendosi guidare da personalità quali Marius Schneider, René Guénon, Mircea Eliade, Ananda Coomaraswamy, Cirlot spalanca davanti ai nostri occhi un universo affascinante, dove il simbolo agisce su ogni piano dell'esistenza, in luoghi lontanissimi tra loro e sin dalle origini dell'umanità; e addita la «radice segreta di tutti i sistemi di significato», il «sostrato comune» a tutte le tradizioni simboliche, sia orientali che occidentali. Sin dall'Introduzione - un excursus vertiginoso che dallo sviluppo del simbolismo conduce fino al problema dell'interpretazione, passando, tra gli altri, per il simbolismo onirico, il simbolismo alchemico e la teoria degli archetipi di Jung - Cirlot ci immerge in un oceano di luminose analogie, segnalandoci infine che il suo è «più un libro di lettura che un testo di consultazione»: come tale lo leggeranno dunque i lettori avvertiti, che non potranno non restarne ammaliati.
Il mondo della pittura di icone, che Florenskij - soggiogante figura di mistico, filosofo, matematico e teologo, quale poteva apparire soltanto in quella prodiga fioritura di genialità che si ebbe in Russia nei primi anni del secolo scorso - ci svela in queste pagine, rimarrebbe per sempre incomprensibile se lo si avvicinasse con i consueti strumenti della critica d'arte. Esente dalla prospettiva, incompatibile con la concezione della pittura dominante in Occidente dal Rinascimento in poi, l'icona presuppone una metafisica delle immagini e della luce. Ed è a questa metafisica che Florenskij ci introduce, scendendo poi in analisi storiche acutissime, che svariano dalla pittura fiamminga alle tecniche della preparazione dei colori, dalle forme dei panneggi al significato dell'oro e al nesso fra le icone e la liturgia della Chiesa orientale. Accompagnati da questa guida incomparabile, possiamo così finalmente varcare le «porte regali» dell'iconostasi, «confine tra mondo visibile e mondo invisibile», luogo dove si manifesta una pittura sublime, in cui le cose sono «come prodotte dalla luce».
Il volume si presenta con una serie di esercizi destinati alla pratica della natura morta. Le foto del soggetto da realizzare, un testo introduttivo, una tabella dei materiali necessari e una sequenza di fotografie commentate di tutto il procedimento costituiscono lo schema di ciascun esempio proposto.
Massimo Cotto conversa con Giorgio Panariello e il comico, conduttore e uomo di spettacolo "racconta quel che è e quel che non è: un Grullo Parlante, un grande solista con la passione per il gioco di squadra, una persona semplice che sta sveglia tutta la notte quando il suo cane ha la dermatite e che non riesce a comprendere perché un manager o un cantante abbaino per il solo gusto di disturbare. Un uomo di parole e di parola. E adesso anche di canzoni" (Massimo Cotto).

