Le radici cristiane dell'Europa sono uno dei grandi miti del nostro tempo. Le radici cristiane dell'Europa sono un mito storico-identitario. Pretendono di dirci non soltanto da dove veniamo, ma anche chi siamo e, soprattutto, non possiamo non essere, perché - come affermano i sostenitori del mito - un albero cui vengono tagliate le radici muore. Nei due secoli abbondanti della loro storia, le radici cristiane dell'Europa hanno cercato soprattutto di elevare alcuni (la Chiesa e i cattolici) al di sopra degli altri. Questo libro costituisce la prima storia del mito, dalla Rivoluzione francese ai giorni nostri. Anche perché le radici cristiane dell'Europa sembrano essere giunte a una svolta. Spesso c'è un confine sottile - anzi, sottilissimo - tra il vero e il falso. È questo il caso delle «radici cristiane dell'Europa», che possono essere tanto una rappresentazione oggettiva, perfino scientifica, della realtà, quanto una rappresentazione ideologica della realtà stessa, cioè un mito. Da oltre due secoli, infatti, si confrontano due modi apparentemente simili, eppure estremamente differenti (se non opposti), di raccontare la storia europea e, in particolare, il ruolo esercitato, al suo interno, dalla religione cristiana. Il primo, che affonda le sue radici nella riscoperta romantica della religione, presenta semplicemente il cristianesimo come un elemento fondamentale del passato dell'Europa; il secondo, che risale alla Controrivoluzione francese ed europea dell'ultimo decennio del Settecento, presenta il cristianesimo, invece, come l'elemento chiave di quel passato. Questo libro ricostruisce la lunga storia del secondo, dall'assedio di Lione da parte dell'esercito rivoluzionario francese (1793) all'attuale presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni, passando per tanti altri luoghi, attori (praticamente tutti maschi) ed eventi della storia europea degli ultimi due secoli. Le radici cristiane dell'Europa sono un mito in tutti i sensi. Innanzitutto, sono un racconto falso (anche se non fantastico) sulle origini di una cultura, tramandato - e continuamente trasformato - per legittimare un certo sistema sociale. Inoltre, rappresentano il frutto dell'idealizzazione di eventi e personaggi del passato, a cominciare dalla «cristianità» medievale.
Per vent'anni Benedetto Croce fu l'unica voce libera del nostro Paese. L'unico intellettuale a cui il regime fascista, per il suo prestigio e il suo carisma, concedeva una certa libertà di espressione. Da solo, attraverso i suoi libri, la sua rivista e le sue relazioni, riuscì a tenere accesa la fiamma della speranza in tanti giovani. Un racconto che ripropone l'eterna battaglia tra libertà e asservimento della cultura. Benedetto Croce non è stato soltanto uno dei più grandi intellettuali italiani del Novecento ma ha svolto una funzione fondamentale durante il Ventennio fascista, impedendo al regime di ottenere una egemonia assoluta sulla cultura del nostro Paese. Con un taglio originale, questo libro, oltre a seguire l'atteggiamento di Croce dinanzi al fascismo - accolto con simpatia, poi combattuto con tenacia e inventiva -, ricostruisce non soltanto la biografia del filosofo nel ventennio più tormentato del Novecento, ma ricollega lo studioso liberale ai protagonisti della cultura italiana ed europea, da Thomas Mann a Stefan Zweig. Con una ricca documentazione inedita, Franzinelli illustra l'offensiva degli squadristi e la 'macchina del fango' scatenata contro il filosofo dissidente, la sua rete di corrispondenti e le schedature poliziesche di chiunque lo frequentasse o gli scrivesse. Emerge il ruolo di Croce nella formazione di giovani che - da Giorgio Amendola a Vittorio Foa, da Leone Ginzburg a Piero Gobetti - lo presero quale riferimento in momenti decisivi della loro esistenza. Una particolare attenzione è dedicata alla battaglia di Croce contro il razzismo: era nota la sua contrarietà alla persecuzione degli ebrei, ma ora emergono la continuità e la profondità del suo impegno, che non trova pari in nessun altro intellettuale italiano.
Nel 1494, solo due anni dopo la 'scoperta dell'America', a Tordesillas, una piccola località della Castiglia, veniva firmato un trattato tra Spagna e Portogallo che divideva il mondo in due e inventava l'Occidente come spazio, comunità e cultura. Mai nessuno si sarebbe potuto aspettare che una semplice firma avesse conseguenze così gigantesche e durature. Questa è la storia di come, tra medioevo ed età moderna, le società europee (all'inizio spagnoli e portoghesi in testa) spinsero le proprie ambizioni sempre più verso l'oceano e così facendo trasformarono l'idea che esse avevano dell'Ovest: quella che era una direzione divenne poco alla volta uno spazio pensabile. È perciò una storia di grandi navigatori e di dibattiti violenti tra geografi, una storia di sfide e di esplorazioni che solcarono l'ignoto. Ma è anche la storia dei dibattiti culturali che ne seguirono e che inventarono e definirono quell'Occidente che prima mancava dalle mappe. E il punto di arrivo di questa storia siamo noi. In un momento in cui tutto questo appare ormai largamente messo in discussione, forse vale la pena riprendere il discorso da capo e chiedersi come si sia giunti alla nostra idea di Occidente. Come una direzione geografica ha fatto nascere e maturare un'idea di appartenenza. Quel che non possiamo fare è darlo per scontato. Pensare che noi si sia davvero da sempre così, che la nostra storia, la nostra cultura e la nostra civilizzazione corrispondano da sempre a quello spazio indistinto con i piedi in Europa e la testa nell'Atlantico: quell'Occidente che in questo secolo faticoso appare sempre più difficile da stringere nelle nostre idee e nelle nostre mappe
Per molto tempo gli storici si sono interrogati sul consenso al regime fascista e hanno dedicato poca attenzione all'uso della violenza da parte dei fascisti e al ruolo anche simbolico che questo ha avuto. John Foot, nel solco della migliore divulgazione inglese, ne ricostruisce la storia a partire da singole storie individuali, spesso dimenticate. Rivoltelle, bombe a mano, manganelli e olio di ricino: questo era l'armamentario delle 'squadracce' fasciste che cento anni fa imperversavano per l'Italia, lasciando una scia di morte e di devastazione. Una violenza che sconvolse la penisola e ne paralizzò ogni reazione.
La storiografia antica ha dato dell'imperatore Commodo un giudizio decisamente negativo, come è avvenuto per Caligola e Nerone, mostrandolo come un giovane non solo inesperto ma anche inetto, del tutto inconsapevole della grande responsabilità del suo ruolo a cui preferiva il lusso, i vizi di una vita smodata e la sua sfrenata passione per i giochi gladiatori. Commodo, ancora troppo giovane quando divenne imperatore, non possedeva certo l'auctoritas del padre Marco Aurelio e le qualità di leader politico di altri imperatori della dinastia degli Antonini, ma non era però così debole di carattere e indolente come gli autori antichi tendono a rappresentarlo. Ad ogni modo, la fine del suo principato segnò l'inizio del declino dell'Impero romano, immerso in una crisi che nei decenni a venire diverrà sempre più irreversibile.
Fra tutti i Paesi dell'Europa orientale soggetti al giogo comunista, l'Albania è quello in cui la persecuzione contro la Chiesa cattolica è stata più violenta. Sotto il regime di Enver Hoxha, nel 1967 il Paese fu dichiarato primo Stato ateo al mondo. Tutte le chiese vennero distrutte. Dom Simon Jubani è stato uno dei tanti custodi silenziosi della fede, nei ventisei anni di carcere subiti nell'Albania comunista solo perché sacerdote. In questo libro dom Simon racconta la sua vita e il lungo periodo trascorso nelle carceri comuniste albanesi, dove subì torture tali da perdere tutti i denti. Arrestato e rinchiuso nel carcere di Burrel, in una cella di otto metri per quattro con altri 36 prigionieri, dom Simon e i suoi compagni vennero picchiati, torturati e vessati senza motivo e alcuna pietà. Durante la prigionia dom Simon scrisse queste sue memorie, per evitare che quanto subirono lui e i suoi compagni venisse cancellato dalla memoria e dalla storia. Dom Simon Jubani è nato a Scutari l'8 marzo 1927. A 16 anni iniziò la Scuola apostolica dei gesuiti. Dopo la chiusura delle scuole cattoliche, nel marzo 1946 passò al Liceo statale. Successivamente si trasferì a Tirana. Dopo aver lavorato per un periodo nell'ospedale militare della capitale, venne mobilitato nell'esercito. Nel 1957-'58 ricevette gli ordini sacerdotali e fu inviato come parroco a Mirdita, dove venne arrestato e imprigionato per 26 anni. Il 4 novembre 1990 celebrò la prima Messa pubblica, nella cappella bruciata del cimitero di Rrëmaj, alla presenza di centinaia di fedeli. Nel 1992 l'Università di San Francisco, in California, gli ha conferito la laurea honoris causa in discipline umanistiche. È morto il 12 luglio 2011, nell'ospedale di Scutari.
Le Mura di Roma - Aureliane, Leonine e Gianicolensi - sono il più esteso monumento storico-archeologico della città (ben 19 km di fortificazioni) inserito nel nuovo Piano Regolatore di Roma. Sopravvissute alle demolizioni della modernità, le Mura sono il palinsesto della storia dell'Urbe e una straordinaria risorsa urbana che fa da "sfondo" ai più importanti fatti urbani e architettonici della città - chiese, edifici, complessi, ville, giardini, acquedotti, monumenti. In quanto tali, esse sono una potenziale infrastruttura culturale, ambientale e narrativa che potrebbe riunire in un sistema anulare luoghi di particolare pregio storico-artistico e paesaggistico e favorire funzionamenti ecologici e sociali attraverso la riconnessione ai circuiti vitali della città, insieme a nuove forme di promozione e condivisione di un bene storico-archeologico unico al mondo.
L'aggressione della Russia in Ucraina sembra aver dato vita a una nuova stagione di violenza contagiosa. In realtà, come l'autore dimostra con dovizia di dettagli, la situazione in cui ci troviamo non è "nuova" sia perché preceduta fin dagli anni Novanta - dopo la fine della Guerra fredda tra Est e Ovest - da una costellazione di conflitti e di prepotenze "locali", sia perché molti antichi nodi mondiali di potere e di politica attendevano di arrivare al pettine. Questo libro mostra la reale portata di ciò che sta avvenendo in questi anni e il ruolo che l'Occidente, l'Europa e l'Italia sono chiamati a ricoprirvi, perché non accada di peggio.
Nell'Ottocento il colonialismo europeo andò di pari passo con il ricorso alla deportazione, basti pensare al caso dell'Australia o quello della Guyana francese. Anche in Italia, all'indomani dell'Unità, si immaginò che la deportazione potesse essere lo strumento ideale per sconfiggere i briganti, tanto da essere al centro dell'attenzione del partito colonialista italiano e di molte iniziative di esploratori e avventurieri italiani che cercavano terre da conquistare in quadranti che vanno dal Marocco al Mar Rosso, dal Borneo alla Polinesia. Molti vedevano nella deportazione l'occasione per dare il via all'espansione coloniale e nei loro scritti attingevano a un immaginario utopico che si nutriva dell'idea che i criminali, deportati in lande selvagge, potessero rigenerarsi lavorando la terra e dominando i selvaggi. Fondato su una ricerca d'archivio originale e solidissima, questo libro riporta alla luce un tema dimenticato della nostra storia, di grande attualità oggi con il ritorno delle 'classi pericolose' e del tema del controllo sociale al centro del dibattito pubblico.
Cominciamo col dire che non erano tre. Le caravelle, ovviamente. Si tratta di un mito durevole, entrato prepotentemente nell'immaginario. Tre come i Magi, come i Moschettieri, per non citare altri e più sublimi paragoni. Volendo essere precisi, due caravelle e una nao: una grossa nave commerciale. Ma poco importa: il mito si costruisce a suon di semplificazioni. L'invito è a salire a bordo e a ripercorrere, passo dopo passo, le tappe del primo viaggio di Cristoforo Colombo, proprio quello che il 12 ottobre del 1492 porterà l'Ammiraglio ad avvistare la terra (le Indie o una sconosciuta?). Come per ogni navigazione, dovremo prepararci imparando a conoscere i tipi nautici, il regime dei venti, strumenti come la bussola, le carte, le tavole di martelogio per il calcolo del punto nave. Ma soprattutto saremo introdotti alla vita di bordo e incontreremo gli uomini che stanno per compiere la traversata. A guidarci sarà il Giornale di bordo, il diario su cui Colombo annotava tutto ciò che viveva in quelle settimane.
Dalle desolate brughiere del Settentrione britannico alle dinamiche città carovaniere del Vicino Oriente, dagli infuocati deserti africani percorsi da nomadi e greggi alle onde ribollenti del Danubio e del Mar Nero, fino al limite delle steppe sarmatiche e delle impenetrabili foreste germaniche: per secoli i soldati di Roma sorvegliarono le frontiere del più grande impero dell'Occidente premoderno. Con il tempo, la prorompente espansione romana in remote province fu sostituita dalle crescenti incursioni degli innumerevoli popoli del barbaricum, sempre vendicate da spietate spedizioni punitive. E alla fine quei popoli si insediarono nelle province, ormai indifendibili. Una vicenda storica che non visse solo di battaglie, tradimenti e massacri, ma anche di una difficile dialettica intessuta di fragili tregue, incerti trattati, intensi scambi commerciali e culturali.
Il volume tratteggia la vita e l'azione di personaggi - suore, preti e laici - che hanno dato un contributo essenziale alla Resistenza cattolica a Milano e nelle zone limitrofe tra il 1943 e il 1945. Spiccano figure paradigmatiche come il cardinal Schuster e Giuseppe Lazzati, nonché quelle di alcune suore, come Enrichetta Alfieri, attiva nel carcere di San Vittore, e Rosa Chiarini Solari, che mise a disposizione un'ala del convento per le riunioni del Comitato di Liberazione Nazionale. Ampio spazio è dedicato ai «ribelli per amore», preti che hanno rischiato la vita pur di dare una testimonianza di carità, per esempio nascondendo degli ebrei, e ad alcuni imprenditori laici.