Che fine hanno fatto le armi
chimiche e batteriologiche
sperimentate nei laboratori del
Duce? Tutta la verità sul nostro
pericoloso e potente arsenale
segreto. Una macchina di morte
che continua silenziosa a
inquinare la vita degli italiani.
”Io non so con quali armi sarà combattuta la Terza guerra mondiale, ma so che la Quarta guerra mondiale sarà combattuta con pietre e bastoni.”
Albert Einstein
Nel 1941 l’Italia disponeva di uno dei più grandi arsenali di armi chimiche del mondo. Antrace, iprite, virus, batteri: la fabbrica dei veleni creati per costruire l’impero della dittatura fascista ha divorato vittime in Libia e in Etiopia, ha colpito i combattenti spagnoli che lottavano per la libertà, lasciando dietro di sé una scia di malattie e dolore. Ma la creazione di questi stessi veleni ha preteso un prezzo altissimo anche all’Italia: durante le fasi di sperimentazione, e poi con il concludersi della guerra, intere zone del nostro Paese sono state contaminate dagli esperimenti, ordigni sono stati abbandonati davanti alle coste delle Marche e della Puglia, testate letali sono state scaricate attorno a Ischia. Tutto ciò, a partire dal dopoguerra, è scivolato nel più assoluto silenzio.
Gianluca Di Feo ricostruisce la sorte delle fabbriche di queste sostanze e dei laboratori usati per studiare i distillati tossici e mai bonificati: nel Golfo di Napoli, sulla costa di Pesaro, sulle rive del Lago Maggiore, nei boschi della Tuscia. Industrie e depositi nascosti per decenni da ministri, generali, industriali, un segreto vissuto nel silenzio per generazioni. Attraverso documenti inediti e secretati, denunce inascoltate delle popolazioni, testimonianze e sopralluoghi, Di Feo compie un viaggio nell’abisso più nero della nostra storia. Un abisso ancora aperto.
“Un libro meraviglioso.”
- Antonio Damasio
“Il libro che scatena nei lettori passioni e umori, come dovrebbe fare ogni buon lavoro di storia intellettuale. Imparerete moltissimo leggendolo.”
- Washington Post Michael Dirda
"Bellissimo... affascinante... incredibilmente preciso... ricco di dettagli intriganti... molto profondo"
- New York Sun Eric Ormsby
Gli umori - sangue, flemma, bile gialla e bile nera - sono le sostanze che si pensava scorressero all’interno del corpo, e ritenute responsabili della salute e della malattia, degli stati d’animo e del carattere delle persone. Si credeva, ad esempio, che la malinconia fosse causata da un eccesso di bile gialla. Il sistema umorale è rimasto, per secoli, una chiave di interpretazione inesatta ma potentissima, sopravvivendo alle innovazioni scientifiche, e aiutando i medici nelle loro diagnosi.
Questo libro segue il destino di tali fluidi, dalla loro origine nel mondo occidentale - risalente all’antica Grecia - fino alle loro versioni contemporanee, individuandone la loro presenza costante nel corso dei secoli - dai manuali di medicina antichi fino ad arrivare alle ultime mode in tema di salute - attraverso le teorie di scienziati, medici e filosofi. Intrecciando le storie di medicina, scienza, filosofia e psicologia, Noga Arikha rivisita e corregge il modo in cui concepiamo la nostra identità fisica, mentale ed emotiva...
“Non è il cervello a essere malato, come avrebbero detto i Monty Python, ma il corpo che lo contiene, a causa degli umori, vecchi e nuovi. Per conoscerli meglio bisogna leggere il meraviglioso libro di Noga Arikha.”
- Antonio Damasio, autore di L’errore di Cartesio, Alla ricerca di Spinoza, e di Emozione e coscienza.
Scoprire che la Legge dell’Amore
è in grado di cambiare radicalmente le nostre vite
è la cosa più straordinaria che ci possa capitare.
Dopo Il Libro dei Desideri, Pierre Franckh ci offre un altro bestseller ricco di suggerimenti e consigli per affrontare la vita di ogni giorno in piena armonia con gli altri, riscoprendo l’essenzialità di ogni relazione affettiva.
Con la forza dei nostri sentimenti possiamo cambiare ciò che ci sembra immutabile. E non c’è sentimento più forte, più trascinante dell’amore.
La strage di Erba: quattro vittime tra cui un bambino di due anni; Rosa e Olindo; processo e sentenza. L’inquietante presenza di Azouz. Su questa scena tragica e feroce si affaccia Carlo Castagna che, pur annientato dal dolore, da subito pronuncia parole di perdono che in seguito ripete più volte. Gli hanno ucciso la moglie Paola, la figlia Raffaella, il nipotino Youssef. Come fa a perdonare? Il suo perdono pare incredibile, incomprensibile, forse disumano. Eppure Carlo non è un superuomo, ma un “povero cristiano” che, di fronte a una ferocia assassina, riesce a mettere in pratica – ispirato e aiutato dall’Alto – il perdono evangelico. Non è facile perdonismo, è Vangelo vissuto. Questo è un libro-testimonianza.
L'Italia: un Paese che sta in piedi perché non sa da che parte cadere. Un Paese dove le maschere hanno sostituito i volti. Dove "la legge è uguale per tutti", ma non tutti sono uguali davanti alla legge. Un Paese dove d'insormontabile ci sono solo i cavilli. Un Paese di fedeli "praticanti", non di credenti. Un Paese che crede nei santi solo se gli fanno il miracolo. Un Paese dove quel che è pubblico, non è di tutti: è degli altri. Un Paese dove la dietrologia è un bene di prima necessità. Un Paese che vive alla giornata in attesa di passare la nottata. Un Paese di furbi che trovano sempre qualcuno più furbo che li fa fessi. Un Paese dove non è tanto la serietà dei problemi che preoccupa, quanto la mancanza di serietà di chi dovrebbe risolverli. Un Paese diretto da una classe politica senza classe. Un Paese, come diceva Longanesi, dove si è "estremisti per prudenza". Un Paese anarchico, conformista e trasformista. Il Paese di Arlecchino, Pulcinella, Fregoli, Pinocchio, Bertoldo, Maramaldo, Cagliostro. Un Paese di furbi e furbetti, che tirano l'acqua al proprio mulino, infischiandosene degli "interessi generali", che saranno anche "caciocavalli appesi", ma senza i quali un Paese rischia la deriva e il naufragio. Un Paese poco serio, ma creativo, fantasioso, intelligente, maestro nell'arte di arrangiarsi, versione bizantina e levantina del pragmatismo sassone.
Un Paese dove è più facile sopravvivere che vivere. Ma un Paese, un'Italia, che non si può non amare.
Come impedire che lo Stivale zoppo perda il tacco, la tomaia, la suola? Facendo il proprio dovere e bene fino in fondo. Ripristinando i valori e le gerarchie fondate sul merito. Dicendo basta ai marpioni, ai tromboni, ai fighetti in blazer e parrucchino che dettano legge dopo aver violato la più elementare: quella della decenza.
Con questo libro Eugenio Scalfari abbraccia per la prima volta l'intera avventura della sua esistenza: a partire dalla stagione magica dell'infanzia, passando per gli anni della formazione (la scoperta della filosofia al liceo di Sanremo, compagno di banco di Italo Calvino), l'educazione fascista, la scoperta della politica, le grandi scelte esistenziali. Fino all'impegno giornalistico, che dura da oltre sessantacinque anni, e al tempo lungo della vecchiaia.
Ma ogni ricordo vive e perdura in funzione di una continua tensione intellettuale: l'autore non entra nelle stanze della memoria, se prima non è certo di intravedere dalla soglia il bagliore di un fuoco razionale che possa ampliare il dato autobiografico fino a farsi meditazione sulla vita, sui valori di ogni gesto compiuto. Ogni ricordo è un pensiero: perché vale la pena riordinare la vita tutta intera - con spirito geometrico, sia pur venato di scetticismo - solo se la conoscenza di sé resta il primo passo per comprendere e raccontare gli altri; per mostrare senza infingimenti quali forze, quali ambigui meccanismi regolino il vivere sociale di ogni uomo.
La globalizzazione non è un fenomeno
recente. Perché non ha ancora
eliminato la diversità culturale? La storia
mescola da secoli le nostre civiltà.
Tuttavia, il panorama culturale del pianeta
mostra un livello di diversità complessiva
elevato e sostanzialmente
costante nel lungo periodo.
Questo può derivare da diversi
motivi: siamo più sensibili alla diversità
proprio perché scarseggia o perché
abbiamo migliorato la nostra capacità
recettiva; oppure ancora (e questo non
esclude la precedente spiegazione)
ordine e disordine culturale si creano
insieme. Se fosse così, non dovremmo
solo difendere una diversità creatasi,
chissà come, in passato, ma preoccuparci
di assicurare le migliori condizioni
per la sua riproduzione oggi.
Quali sono queste condizioni? Due
filoni di pensiero sono alla base del
ragionamento: quello della complessità
e quello evolutivo.
Il primo ci dice che l’emergere di sistemi complessi, in
questo caso aggregazioni discrete, coerenti, che rompono
il continuum del disordine culturale rendendosi riconoscibili,
è possibile in condizioni lontane dall’equilibrio, al
cosiddetto “margine del caos” (la frontiera cui allude il
titolo). Sfortunatamente le politiche culturali contemporanee,
soprattutto quelle dei musei, non rispettano queste
mostrano una tendenza verso l’equilibrio:
una bella parola nel linguaggio
quotidiano, ma un concetto pessimo
per l’evoluzione della vita, anche di
quella culturale.
Il secondo ci dice che l’evoluzione è
una partita complessa, che si gioca su
più livelli: individuale, di specie e di
ambiente collettivo. Solo quando si
realizzano determinati cambiamenti,
coerenti fra loro a ogni livello, si ha
evoluzione vera, ossia duratura.
Sfortunatamente le politiche che pretenderebbero
di far evolvere i musei, si
limitano il più delle volte a modificarli
su un piano definibile, in analogia con
la biologia, somatico e lamarkiano ma
non genetico. Incentivi e disincentivi,
regole e standard, possono produrre
mutamenti anche visibili, ma effimeri:
come quelli di un atleta i cui muscoli si
sono formati in palestra, non dureranno
nelle generazioni successive.
La conclusione è che nuove e più efficaci politiche
museali dovrebbero essere più indirette, operare “lungo la
frontiera” e occuparsi di modificare l’ambiente in cui si
muovono le creature culturali, più che di modificare direttamente
le creature stesse. E’ un cambiamento profondo e
coraggioso, necessario per dare un futuro alla straordinaria
bellezza che osserviamo nel mondo.
Maurizio Maggi è nato nel 1956 a Torino. Laureato in Scienze politiche con indirizzo economico, ricercatore dirigente dell’Ires, ente di
ricerca della Regione Piemonte. Ha insegnato presso Università Statale, Cattolica, Politecnico e Bocconi di Milano, Università di
Goteborg, Valencia e Bilbao oltre che per diversi Master universitari a Torino; autore di numerosi testi di economia della cultura e di
museologia. Fra gli altri: Economia e politica dei beni culturali (1993, con Luigi Bobbio), Ecomusei: cosa sono e cosa possono
diventare (2001, con Vittorio Falletti), Ecomusei. Guida Europea (2002). Ha pubblicato su riviste di museologia internazionali
(Museum International, International Journal of Cultural Heritage, Chinese Museum) e italiane (Rivista di Economia della Cultura,
Nuova Museologia). Impegnato sul campo nella comunità di pratica ecomuseale Mondi Locali.
A cura di Loris Mazzetti
Disse Otello: “Abbiamo imparato a uccidere, siamo anche
capaci di essere crudeli. Mi pare impossibile che adesso uno
si svegli e vada a lavorare, che a mezzogiorno si mangi,
che la sera si chiuda la porta, poi a dormire”.
“Si è combattuto” dissi “soprattutto per questo.”
Il giovane Enzo era fresco di matrimonio quando, come molti suoi coetanei d’allora, si trovò davanti a un bivio. Siamo all’inizio del 1944 e in Italia, per un ventenne come Biagi, è l’ora delle scelte radicali: da una parte l’adesione alla Repubblica sociale nell’ora più buia del fascismo, dall’altra la scelta fuorilegge di andare in montagna e unirsi ai partigiani.
Una mattina Enzo scelse la sua strada e pedalò verso i boschi d’intorno, fissando il cielo primaverile. Guardava le nuvole cambiar forma e ancora non sapeva che quel viaggio in bicicletta lo avrebbe portato a essere l’uomo che sarebbe diventato. Qualche ora dopo, Biagi si univa a una compagnia di perfetti sconosciuti che in poco tempo sarebbe diventata la sua seconda famiglia: la brigata partigiana di Giustizia e Libertà.
Giudicato troppo gracile per combattere, il suo comandante pensò che il partigiano Biagi avrebbe servito meglio la lotta antifascista facendo il suo mestiere: gli venne affidata infatti la stesura del giornale partigiano “Patrioti”, del quale era in pratica l’unico redattore. Del giornale uscirono tre numeri, fino a quando i nazisti non individuarono la tipografia e la distrussero.
Appena tre numeri, eppure Biagi considererà sempre quell’anno di clandestinità, quei “quattordici mesi” da partigiano, come il momento più importante della sua vita, alla base della sua etica, nel lavoro come nella vita.
Progetto sempre cullato e mai ultimato, I quattordici mesi è un libro che ripercorre l’intera opera di Biagi, raccogliendone memorie e brani d’epoca oggi introvabili. Un testo che ci riporta indietro nel tempo per raccontarci la storia di un giornalista clandestino che si rifugiò sulle montagne. Lo stesso giornalista che, un anno dopo quel fatidico viaggio in bicicletta, annuncerà alla radio della quinta armata la liberazione di Bologna.
Loris Mazzetti, nato a Bologna nel 1954, regista e giornalista, ha lavorato dieci anni a Rai1 con Enzo Biagi. Con la Bur ha pubblicato Il libro nero della Rai e La macchina delle bugie. Attualmente è capostruttura a Rai3. Insegna Teoria e tecnica del linguaggio radiotelevisivo all’Università di Modena- Reggio Emilia.
Convocando i ricordi di un lungo sodalizio, Giorgio Torelli – imbarcato con Montanelli fin dalla fondazione de Il Giornale (1974) – rivisita «l’Indro che fu». Durante anni di dedizione a ideali politici e morali sopraffatti dal progressivo avvizzirsi delle indipendenze di giudizio, Montanelli divenne personaggio di riferimento per tanti lettori che si consideravano naufraghi civili in gurgite vasto. Amato quanto discusso, anche aborrito e preso di mira, non indovinò tutto. Ma svettò come nessuno che avesse uso di penna. Potrebbe bastare per accreditargli il rimpianto e avvertirne la cronica assenza. Fu un solitario mai negoziabile, un anacoreta sdegnato, già allora senza delfini e più che mai senza eredi visibili e controfigure. Chissà dov’è Indro. Chissà se freme dal non poter metter becco.
La femme fatale e la malafemmina, la divina cantata nei versi del poeta e la virtuosa catanese che ammicca per le strade in giochi furbeschi di seduzione, Carla Bruni che per dote naturale sa prendersi i cuori migliori, ma anche Brigitte Bardot, la bionda belva di Saint Tropez, ed Edda Ciano che fa innamorare il bel partigiano. E sullo sfondo il secolo passato, così mondano e sensuale: immortalato nelle feste scatenate dì Porfirio Rubirosa, nei salotti di Gabriele D'Annunzio, nella strada che fu di Ava Gardner e Walter Chiari, nel fascino luccicante delle passerelle di Parigi, nella schiena di Nicole Kidman in una pubblicità di Chanel, nei flash postmoderni delle feste ai Parioli. Pietrangelo Buttafuoco, con l'ironia e la grazia del seduttore, compone un quadro dove i ritratti di donne si alternano alle tecniche di seduzione e lasciano spazio agli aneddoti sui grandi amatori del secolo passato.
Il potere sovrano e il corpo dei miserabili
Un'"antologia di esistenze", a riunire in un pugno di parole una serie di vite singolari, con le loro avventure e sventure: era il progetto a cui Michel Foucault pensava riesumando, dagli archivi delle prigioni e dei manicomi parigini, i documenti di internamento degli "uomini infami". Di quel lavoro restano solo queste poche pagine, che evocano individui ignobili e sconosciuti, reietti e opachi, strappati alla loro notte solo perché il potere li ha attesi al varco, ha scagliato su di essi il lampo della decisione che annichilisce. Potenza di un testo breve, e dell'inconfondibile prosa tersa e tagliente del grande filosofo francese, colui che con la sua opera più d'ogni altro ha trasformato per sempre il panorama intellettuale contemporaneo.
Michel Foucault (1926-1984) ha insegnato al Collège de France. Fra le sue opere tradotte in italiano ci limitiamo a ricordare: "Storia della follia nell'età classica" (Rizzoli, 1963), "Le parole e le cose" (Rizzoli, 1967), "L'archeologia del sapere" (Rizzoli, 1971) e "Sorvegliare e punire" (Einaudi, 1976).
C'era una volta una città che aveva il nome della regina del cielo. Venne una notte e sembrò volersela portare via: degli edifici rimasero polvere e sassi e molti abitanti scomparvero sotto le macerie. Poi fu di nuovo mattina, con la tragedia da guardare negli occhi. Fabrizio Paladini ha sentito il dovere di raccontare il dramma degli aquilani, raccogliere le loro testimonianze, le parole dei sopravvissuti. Nasce così "Gli artigli dell'Aquila", un libro fatto appunto di testimonianze in prima persona, storie che danno voce ad altre migliaia vissute in silenzio. Prove concrete di come sia soltanto la tenacia di ognuno di noi a trasformare il dolore e lo sgomento in speranza per l'intera comunità.