"La Guerra giudaica", scritto prima in aramaico poi in greco, narra uno degli eventi più drammatici della storia universale, ambientato in quegli stessi luoghi in cui pochi decenni prima aveva predicato Gesù Cristo. La prima parte del libro è dedicata ai delitti che funestarono la famiglia di Erode. Ma il cuore dell'opera è la lotta del piccolo popolo ebreo contro le legioni di Vespasiano e di Tito: esempi di coraggio disperato, di straordinaria astuzia guerriera e di folle fanatismo rivoluzionario si susseguono davanti ai nostri occhi, fino al momento in cui il Tempio, simbolo della tradizione ebraica, viene avvolto dalle fiamme di un incendio inestinguibile. Un'appendice al testo propone i frammenti di un'antica versione russa della Guerra giudaica, dove appare la figura di Gesù Cristo.
Pur fra molte incertezze, la leggenda ci narra che Akiva ben Joseph nacque attorno all'anno 50 dell'era volgare, forse nella città di Lod, nell'odierna Israele, e morì martirizzato attorno al 135 per aver continuato a insegnare pubblicamente la Torah nonostante la proibizione delle autorità romane. Si dice che fece in modo di spirare prolungando la parola echad, «uno», che conclude la prima frase della preghiera ebraica Shemà: «Ascolta Israele, il Signore nostro Dio, il Signore è uno». Rabbi Akiva, tuttavia, è una storia prima ancora che un uomo, e questo libro non può dunque essere una biografia nel senso comune del termine. È piuttosto un affresco, che attraverso la figura dell'uomo più saggio e ammirato del Talmud, fotografa la cultura ebraica palestinese del i secolo, nel drammatico momento della sua riconversione da antica religione centralizzata - fondata sul Tempio e sulla casta sacerdotale - a moderna religione diffusa di «maestri» (l'etimo di rabbini), fondata sullo studio e l'interpretazione della Torah. Tanto più che di Akiva abbiamo solo riferimenti interni a quel mondo e nulla di lui ci è invece pervenuto da fonti non ebraiche. Nel Talmud - un'immensa opera letteraria, giuridica, filosofica e religiosa, composta tra il I e il V secolo - Akiva viene descritto come il «capo di tutti i saggi», l'uomo di umili origini che studiò la Legge in età già adulta, il commentatore arguto e inventivo, quasi sempre vincente nelle dispute tra saggi. È l'esempio da seguire, e come tale è considerato l'iniziatore del rabbinismo. A questo Akiva «canonico», Holtz aggiunge qui mille sfaccettature, in un testo denso e godibile, che ci restituisce il senso di un vero e proprio eroe della sapienza, una figura sulla quale si è costruito per diversi secoli l'esempio per eccellenza del buon maestro ebraico. Questo libro può essere letto come un'introduzione al Talmud. Holtz, infatti, analizza la vita di Rabbi Akiva con una metodologia che riflette i procedimenti che si trovano in quell'opera. Così, leggendo queste pagine potremo apprendere due cose: chi fosse Akiva e quanto importante sia ancora oggi la tradizione che ce ne ha tramandato le idee; e in che termini e con quale logica si affrontano i problemi nel Talmud.
Nel 70 d.C. Tito distrugge il Tempio di Gerusalemme radicalizzando gli animi delle comunità ebraiche di Antiochia, Cipro, Egitto e Cirenaica. Durante l’esilio gli scampati alla catastrofe coltivano la speranza, politica e messianica, di rientrare in terra d’Israele e ricostruire il santuario, in una sorta di nuovo Esodo.
In questo contesto, Traiano, dopo aver conquistato la Dacia, si prepara ad invadere l’Oriente ma ha bisogno del supporto delle comunità giudaiche fiorenti nell’impero partico. Per questa ragione concede loro un aiuto finanziario, autorizzando l’allestimento di una via presidiata per il ritorno in Giudea e di banche per finanziare la ricostruzione del Tempio. L’imperatore conquista cosí Armenia e Mesopotamia.
Tuttavia, l’operazione diplomatica scatena aspre ostilità fra gli ebrei e le popolazioni greche cittadine. Le comunità ebraiche dei territori appena conquistati insorgono e l’interludio di tolleranza cede presto il passo a una guerra sanguinosa e distruttiva le cui ricadute dureranno millenni.
Che cosa significa essere ebrei? Nel rispondere a questa domanda il volume ricostruisce la storia del popolo ebraico, della sua religione e della sua cultura. Una vicenda iniziata 2000 anni prima della nascita di Cristo con l'insediamento di una tribù semitica nella terra di Canaan. L'esperienza dell'esilio, la distruzione del tempio di Gerusalemme ad opera dei romani, la diaspora, l'Olocausto, le sfide attuali: momenti fondamentali di un percorso che gli autori seguono con acume ed empatia, organizzando il racconto sul doppio registro degli eventi storici e delle correnti di pensiero teologico e filosofico mettendoci così in contatto con una delle tradizioni culturali che più hanno impregnato la nostra civiltà.
Quattro dialoghi che invitano a riflettere sul senso della vita, un alternarsi di voci che difendono la propria idea su Dio, sul mondo e sulla libertà o meno dell'uomo. Si presenta così questo testo di Mendelsshn, pubblicato nel 1755 in pieno clima illuminista, che nasce dall'intento di intervenire sulla "questione spinoziana", di difendere i diritti della filosofia e di riabilitare quella tedesca dalle accuse francesi di astrattezza e pedanteria. L'autore celebra la capacità della metafisica tedesca di mostrare la verità delle idee di Dio, di Provvidenza e di anima.
In un mondo dominato dalla tecnica, che consuma il tempo per guadagnare spazio, il sabato rappresenta la rivincita del tempo sullo spazio e del sacro sul profano, l'occasione per deporre il giogo della fatica ed entrare in contatto con una dimensione che è presagio dell'eternità. Muovendo da una riflessione sul valore che questo giorno riveste nella cultura ebraica, Heschel affronta con straordinaria competenza teologica, filosofica e letteraria il tema del significato della festa nelle grandi tradizioni religiose. Ma "Il sabato" (1951) non è soltanto un classico della spiritualità del Novecento: è in primo luogo una meditazione offerta a tutti i lettori, credenti e non, sull'importanza di riscoprire il tempo come cuore dell'esistenza, un invito a coltivare l'arte del riposo come armonia tra il corpo e la mente, un'esortazione ad ascoltare il richiamo del trascendente per dissetare vite inaridite dalla frenesia, dal vaniloquio, dai falsi bisogni.
Cos’è l’anima? Come si manifesta? Com’è possibile sentire la sua flebile voce? Cosa le accade dopo la morte? Come influenza la nostra vita? E perché è importante compiere uno sforzo per prestarle ascolto? Lo scopo di questo libro è quello di evidenziarne natura e manifestazioni per stimolare riflessioni che conducano il lettore a un livello più alto, da cui sia possibile iniziare quel lungo e difficile cammino che impegna tutta la vita: essere in contatto con l’anima e averne cura.
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Vittime di violenza politica e intolleranza religiosa, inassimilabili malgrado il battesimo forzato, perseguitati dalle prime leggi razziste, costretti a un'emigrazione interiore, non più ebrei, ma neppure cristiani, i marrani sono «l'altro dell'altro». La scissione lacerante, la doppiezza esistenziale conducono alla scoperta del sé, all'esplorazione dell'interiorità. Gli esiti sono disparati: vanno dalla mistica di Teresa d'Ávila al concetto di libertà di Baruch Spinoza. Pur iscritto nella storia, il marrano ne eccede i limiti rivelandosi il paradigma indispensabile per sondare la modernità politica. Sopravvissuti grazie alla clandestinità, alla resistenza della memoria, al segreto del ricordo, divenuto con il tempo ricordo del segreto, i marrani non possono essere consegnati all'archivio. Il marranismo non si è mai concluso.
I due testi di Cohen qui per la prima volta tradotti risalgono all'ultimo decennio della sua vita e mostrano la valenza etica dell'ebraismo. Il primo (1908) mette in luce l'impegno socio-sanitario di Salomon Neumann, tra i fondatori dell'Istituto per la Scienza dell'Ebraismo; il secondo (1910) è un serrato confronto con la teoria della ragione pratica di Kant, la quale attesta la sua affinità verso la tradizione filosofica ebraica. Un pensiero che declina i concetti di "umanità", "messianismo", "dover essere", "male radicale", in profonda analogia con il giudaismo, dove essi appaiono inscindibili dall'agire morale dell'uomo.
“Quando i giorni del Messia saranno vicini, in quel tempo il Libro dello Zohar sarà rivelato a tutti”
Lo Zohar (Libro dello Splendore) è una fonte senza tempo di saggezza ed è la base della letteratura kabbalistica. Fin dalla sua comparsa, circa duemila anni fa, esso è stato la fonte primaria, e spesso l’unica, usata dai kabbalisti. Per secoli la Kabbalah è rimasta nascosta al grande pubblico, che si riteneva non fosse pronto per riceverla. Tuttavia, la nostra generazione è stata designata dai kabbalisti come la prima pronta ad acquisirne i concetti. Scritto con un linguaggio unico e metaforico, lo Zohar arricchisce la nostra conoscenza della realtà ed espande la nostra visione del mondo, ma non va letto in modo classico. Dobbiamo riflettere pazientemente e ripetutamente su ogni frase, per cercare di penetrarne il pensiero, per estrarne tutte le sfumature. Anche se il testo ha un unico soggetto, la relazione con il Creatore, l’approccio ha varie angolature. Questo consente a ognuno di noi di trovare quella particolare frase o parola che ci aiuta a conoscere questa sapienza così profonda ed eterna. Il professor Michael Laitman prosegue la divulgazione della saggezza della Kabbalah, proponendo qui la sua traduzione e il commento a estratti dello Zohar e del Commentario di Rabbi Yehuda Ashlag. Il suo lavoro ha il grande merito di liberare lo studio dello Zohar da qualsiasi tentativo di ridurne il senso storico e spirituale profondo, e di restituirlo nella sua effettiva complessità.
Gli ebrei sono presenti sui territori italiani da tempi remoti. Cittadini dell’impero romano, sono stati riconosciuti come tali durante le prime fasi della cristianizzazione. Nel periodo dal IV all’XI secolo, nonostante le polemiche conversionistiche, gli ebrei sono stati uno dei molti gruppi che componevano la complessa e multicentrica realtà italiana. Dal XII secolo alla fine del Medioevo questa relativa normalità divenne gradualmente una condizione minoritaria. Benché la storiografia abbia abitualmente rappresentato gli ebrei italiani soprattutto come specialisti del prestito a interesse e usurai pubblici, la loro presenza, precedente alla cristianizzazione stessa della penisola, fu in realtà caratterizzata da numerose attività professionali e da un’intensa produzione culturale, letteraria e giuridica. La componente ebraica della società italiana ha dunque attraversato i dieci secoli del Medioevo interagendo in diversi modi con la maggioranza cristiana. La storia della mutevole relazione del mondo ebraico italiano con la popolazione cristiana e con le élite che la governavano consente di rileggere la storia d’Italia alla luce della varietà etnica e culturale che le è propria sin da tempi antichissimi.
Fare la storia degli ebrei presenti nell’Italia del Medioevo significa scrivere un pezzo di storia italiana. D’altra parte, proprio perché la storia medievale dei territori che formavano la penisola italica è il punto di partenza della futura complessità italiana, parlare degli ebrei in Italia come di una componente strutturale della storia italiana significa mettere in discussione l’idea molto diffusa dell’omogeneità culturale e religiosa di questa storia, rimettere in gioco, dunque, l’immagine di un’Italia come realtà compattamente latina e cristiana da sempre. La rappresentazione postrisorgimentale, ma specialmente caratteristica della revisione storiografica fascista, dell’Italia come soggetto storico naturalmente e tradizionalmente unitario, storicamente unificato dalla religione cristiana, ha influenzato in modi diversi, talvolta anche contraddittori, la ricostruzione della presenza degli ebrei in Italia. Da un lato gli ebrei e le loro comunità sono stati descritti come una sorta di complemento della nazione italiana, un’aggiunta più o meno ben tollerata, dall’altro come una presenza diffusa localmente e comprensibile solo alla luce di vicende strettamente regionali o cittadine. In entrambi i casi, si è presupposto che la storia nazionale avesse una sua compattezza politica o almeno religiosa, e che l’esserci degli ebrei ricavasse il proprio significato unicamente dal rapporto con questo soggetto collettivo cristiano o con le sue configurazioni locali. Ebrei come rappresentanti di un ebraismo visto come appendice italiana di un cristianesimo dominante, oppure ebrei come presenze significative all’interno di contesti estremamente specifici, a loro volta da intendersi come tasselli del grande mosaico nazionale cristiano. In questo quadro, l’epoca medievale, in tutta la sua estensione e la sua complessità, ha giocato un ruolo importante anche se abbastanza equivoco. Si è infatti dovuto constatare che i modi dell’esistenza ebraica in Italia sono stati molto diversi, in primo luogo dal Sud al Nord, e poi che questa differenziazione è stata ulteriormente accentuata dal carattere tutto speciale e dall’intensità della presenza ebraica in alcune città o regioni: a Roma, in Puglia, in Campania, in Calabria, in Sicilia, e anche, dal Duecento, nell’entroterra veneto e in Friuli, Toscana e Umbria, ma non in Piemonte, Liguria, Abruzzo e Molise. Nonostante questo panorama molto variegato e discontinuo, si è venuta tuttavia tendenzialmente descrivendo una convivenza ebraico-cristiana che, seppure segmentata dalla differente conformazione politica del Sud e del Centro-Nord (Regno di Napoli e di Sicilia, e repubbliche, comuni e signorie centrosettentrionali) e poi spezzata dall’espulsione alla fine del Quattrocento degli ebrei dai territori italiani posseduti dalla Corona spagnola, avrebbe avuto una sua continuità tutto sommato pacificamente omogenea, caratterizzata dalla funzionalità delle presenze ebraiche all’organismo nazionale cristiano. In altre parole, la rappresentazione piuttosto artificiosa di un’Italia armoniosamente cristiana dal IV al XV secolo ha prodotto di conseguenza una complementare raffigurazione degli ebrei analogamente caratterizzata dall’univocità del senso di questa presenza.
Un senso che rimanderebbe, secondo questo schema semplificato, alla tolleranza o all’intolleranza religiosa cristiana, oppure ai bisogni e ai problemi economici e politici della società dei cristiani.
L'ultimo discorso di Mosè Poco prima di morire alla fine del libro del Deuteronomio, Mosè affronta per l'ultima volta il popolo di Israele. Tiene allora un discorso: è un messaggio coraggiosamente originale sulla religione, il potere e l'umanità. Nell'interpretazione di Micah Goodman Mosè cerca qui di modellare il futuro del proprio popolo reinterpretando radicalmente la Bibbia dei libri precedenti. In questo senso il Deuteronomio è anche il primo vero libro umano della Bibbia in quanto consiste nelle parole scelte da Mosè in persona. Secondo Goodman, il messaggio di Mosè anticipa Platone come anche i padri fondatori americani per il suo contenuto sorprendentemente progressista e democratico. Innovativo e provocatorio, questo testo può anche essere di grande ispirazione per comprendere come nei testi religiosi si possano trovare concetti rilevanti per le sfide cui devono fare fronte le società contemporanee.