Mentre è in viaggio in Italia con il suo amante Vrónskij, Anna Karénina avvia quasi per caso una corrispondenza con Emma Bovary, una signora francese che abita in provincia. Per sfuggire alla monotonia della propria vita, Emma cerca rifugio nei piaceri della letteratura e quindi non esita a consigliare ad Anna di leggere "L'epistolario" di Abelardo ed Eloisa, che l'ha conquistata. Anche sulla spinta di questa comune passione, le due donne iniziano a scriversi con assiduità e a scambiarsi racconti, chiacchiere e considerazioni sulle rispettive esistenze, che in parte ricalcano la trama dei romanzi di cui sono protagoniste, in parte la reinterpretano o la reinventano. Mentre la corrispondenza tra Anna ed Emma si fa sempre più intima e disinibita, a una festa in casa Guermantes Anna incontra Charles Swann, che la introduce nei fascinosi ambienti di una Parigi a lei sconosciuta, l'accompagna al Père-Lachaise sulla tomba di Abelardo ed Eloisa, all'atelier di Degas, ai caffè degli impressionisti e soprattutto le presenta la sua amante, la cocotte Odette de Crécy. Nel frattempo, a Rouen, Emma incontra a teatro Rossella O'Hara e Rhett Butler: prigioniera delle sue passioni e ostinata nel desiderio di evadere dal meschino orizzonte borghese, progetta di partire per l'America con la sua nuova ed effervescente amica...
A poco più di vent'anni, con un dolore da smaltire, Alice lascia gli Stati Uniti e parte per Milano a occhi chiusi, all'avventura: ragazza alla pari per sei mesi. Ovvero baby-sitter, autista, cuoca, confidente e orecchio assoluto per una famiglia da riformare. Una madre in carriera, un padre piacione, un'adolescente pestifera, un ragazzino eccentrico, un piccolo alieno e una governante dispotica. "Sei qui per darci una mano con i ragazzi ma, soprattutto, per dare stabilità e tranquillità alla nostra famiglia", le hanno spiegato. Ecco che Alice, una mail dopo l'altra - scrivendo al fratello, alla nonna, agli amici lasciati dall'altra parte dell'oceano -, compone un involontario e divertentissimo romanzo epistolare a senso unico. A colpi di battute e di rimpianti, di sorrisi e di rimproveri, la protagonista di "Alla pari" conoscerà se stessa e troverà la propria famiglia, anzi due: quella da cui viene e quella in cui si è imbattuta. E mentre il suo sguardo cambierà il mondo intorno, il mondo cambierà lei. Perché il caos, l'amore e persino i pidocchi hanno un lato davvero imprevedibile.
"Non è mica detto che un figlio arrivi subito." In effetti no, per Roberta ed Eugenio, una coppia normale, una coppia come ce ne sono milioni, il figlio, la figlia che desiderano non arriva subito. Anzi, sembra non voler arrivare mai. Più volte nel ventre di Roberta qualcosa inizia ad accadere, ma nessuna gravidanza prosegue. Eugenio e Roberta provano con l'inseminazione artificiale, ma non funziona nemmeno quella. I mesi e gli anni passano e l'attesa si fa intollerabile, come se uno stesso giorno ripiegato su se stesso si ripetesse all'infinito, un giorno di figli desiderati, sfiorati, e poi perduti. L'esplorazione interminabile dell'incertezza li conduce al limite, come singoli individui e come coppia, ma li fa anche evolvere, ed Eugenio e Roberta, in un gesto di resilienza e di libertà, non si arrendono. Decidono di affidarsi al mare imprevedibile dell'adozione, di affrontare le pratiche, i colloqui, la burocrazia. Decidono di esercitare e guarire le loro anime per trovare la forza di prendere un ultimo respiro prima del tuffo. Decidono di affidarsi a un sogno che li porterà altrove nel mondo. Questo romanzo è la storia di una paternità desiderata, cercata, sofferta. Una vicenda individuale che grazie alla forza della letteratura diventa universale, una singola voce, voce di un uomo, voce di un padre, che si fa coro di una moltitudine di donne e di uomini, della loro volontà di essere famiglia, di donarsi, di amare.
I Felici, una famiglia, ma anche un'identità in cammino. E un luogo d'incontro di tanti interrogativi sul senso della comunità, sul modo di vivere la fede, sul dovere dell'impegno civile e sul peso della responsabilità, sul perché del male e sulla legittimità di tornare a sogni "dalla pelle dura". Alexander Dubcek che si racconta in una visita inverosimile e il "Rossini" che fugge; la "torinese" con le sue sorprendenti battute e la sua ricerca senza fine; Sabato Felici, il vecchio combattente contro malattie e ingiustizie, preso dalle sue memorie e immerso nelle sue carte; la priora Letizia che si fa chiamare la Minore; Borges che appare in sogno nella notte di Baires; e soprattutto, gli ex ragazzi della Piana e i sentieri percorsi dalle loro vite e dalle loro speranze, tra successi effimeri e "sconfitte degne di risurrezione". Nel caleidoscopio dei colori che il romanzo teologico di Borgognoni di continuo compone e ricompone, in un crescendo di tensione che è insieme narrativa, religiosa e politica, il verde chiaro degli occhi di Evel sembra mescolarsi con il verde di uno scassatissimo Maggiolino, il rosso di uno straccio che sa di Resistenza e di giustizia sociale richiama quello di una scritta murale che parla di risurrezione, la luce della candida tunica di Marco pare fondersi con il bianco della barba del padre di Evel, complice un abbraccio lungo e muto.
"Se scrivessi la mia biografia, stupirei il mondo", ha detto Caterina Sforza. Figlia illegittima di Galeazzo Maria Sforza, Caterina ha dato prova del suo carattere già a dieci anni, quando si è proposta per diventare la moglie di Girolamo Riario, in sostituzione della cugina undicenne, giudicata troppo giovane per consumare il matrimonio. Dotata di una cultura vastissima, si è distinta in discipline considerate appannaggio esclusivo degli uomini, come l'alchimia, la chimica e le arti belliche. Dopo la morte del marito, ha governato da sola Imola e Forlì, guidando persino l'esercito in battaglia. Durante l'assedio della rocca di Ravaldino, non si è lasciata mettere con le spalle al muro da chi le aveva intimato di arrendersi, minacciandola di ucciderle i figli; al contrario, Caterina ha risposto sollevando la gonna e urlando: "Fatelo, tanto qui ho lo stampo!" Nella sua breve vita, Caterina ha fatto di tutto, tranne scrivere una biografia. Seicento anni dopo, è una sua discendente, Francesca Riario Sforza, a celebrare la straordinarietà della sua antenata in un romanzo che ci restituisce l'immagine di una donna in anticipo sui tempi, che non si è rassegnata al ruolo di moglie e madre, ma ha lottato per farsi strada in un mondo dominato dagli uomini. Una donna forte, indipendente e incredibilmente moderna.
Lo chiamano "il nido degli angeli" perché è un istituto che accoglie bambini senza famiglia. Mario è uno di loro, ha dodici anni, è stato abbandonato alla nascita ed è solo al mondo. Quando vi arriva, ha già alle spalle una lunga esperienza di brefotrofi e collegi, ma spera di trovare finalmente calore umano e affetto. Tanto più che la direttrice, una ex suora che gode fama di donna caritatevole, afferma di voler essere per i suoi sfortunati ospiti "la mamma che non hanno mai avuto". La realtà è ben diversa. Quello che dirige con spietata crudeltà è un vero e proprio inferno in cui i bambini devono fare i conti con la fame, il freddo, i maltrattamenti, le infami punizioni corporali. Eppure la luce della speranza non si spegne, alimentata da gesti semplici e quotidiani. Mario riesce perfino a trovare un amico, Francesco. Insieme condividono piccole gioie e grandi sofferenze, ma una notte Francesco scompare nel nulla e a Mario non resta che sperare che sia riuscito a realizzare il suo sogno di fuga. Fino a quando, sfidando una ragnatela fittissima di protezioni e omertà, un carabiniere coraggioso non riesce a fare irruzione nell'istituto. E a scoperchiare l'orrore. Molti anni dopo la liberazione da quell'incubo, durante i lavori di demolizione di quel luogo di dolore, il ritrovamento di un corpicino avvolto nel cellophane riapre una ferita che non si era mai rimarginata, e Mario deve affrontare di nuovo i fantasmi della sua infanzia rubata.
È una sera stellata di ottobre. Massimo Galbiati, un professore di chimica di una tranquilla università di provincia, e Virginio de Raitner, suo inossidabile ex collega ultracentenario, corrono verso la Svizzera a bordo di una Jaguar coupé, sulle sponde selvagge del lago Maggiore, in compagnia di un bassotto fonofobico e mordace. Non è che si conoscano molto. De Raitner mantiene uno studio in Dipartimento nonostante sia da trent'anni in pensione, ha pure un suo laboratorio, Il Laboratorio Chiuso, in cui nessuno osa mettere il naso, e i docenti e i tecnici si prostrano ai suoi piedi. Massimo invece è solitario, orgoglioso, non lecca i piedi a nessuno, tantomeno al vecchio professore, ed è stato uno dei migliori scienziati italiani nel campo della chimica che era d'avanguardia fino a dieci anni fa. Ma de Raitner lo ha convocato a sorpresa per farsi accompagnare a Locarno, verso un convegno avvolto nella discrezione e nel riserbo più assoluto: e tu vuoi non andare? Vuoi non suscitare l'invidia feroce di tutto il Dipartimento, che brama anche solo di far da autista al vecchio professore sulla sua magnifica E-Type? Poi, quando arrivano a Locarno e il congresso inizia davvero, Massimo scopre che è strapieno di premi Nobel e che gli speaker sono gli scienziati di grido di quella sua stessa amata chimica ormai non più d'avanguardia.
Siamo all'inizio del secolo scorso. La promessa sposa è giovane, arriva da lontano, e la famiglia la accoglie, quasi distrattamente, nella elegante residenza fuori città. Il figlio non c'è, è lontano, a curare gli affari della prospera azienda tessile. Manda doni ingombranti. E la sposa lo attende dentro le intatte e rituali abitudini della casa, soprattutto le ricche colazioni senza fine. C'è in queste ore diurne un'eccitazione, una gioia, un brio direttamente proporzionale all'ansia, allo spasimo delle ore notturne, che, così vuole la leggenda, sono quelle in cui, nel corso di più generazioni, uomini e donne della famiglia hanno continuato a morire. Il maggiordomo Modesto si aggira, esatto, a garantire i ritmi della comunità. Lo zio agisce e delibera dietro il velo di un sonno che non lo abbandona neppure durante le partite di tennis. Il padre, mite e fermo, scende in città tutti i giovedì. La figlia combatte contro l'incubo della notte. La madre vive nell'aura della sua bellezza mitologica. Tutto sembra convergere intorno all'attesa del figlio. E in quell'attesa tutti i personaggi cercano di salvarsi.
Stefano Benni sfida il racconto di genere e apre la porta dell'orrore. Lo fa con ironia, lo fa attingendo al grottesco, lo fa tuffandosi nel comico, lo fa tastando l'angoscia, lo fa, in omaggio ai suoi maestri, rammentandoci di cosa è fatta la paura. E finisce con il consegnarci una galleria di memorabili mostri. E allora ecco gli adolescenti senza prospettiva o speranza, ecco il Wenge, una creatura misteriosa che semina panico e morte, ecco il plutocrate russo che vuole sbarazzarsi di un albero secolare, ecco una Madonna che invece di piangere ride, dolcemente sfrontata, ecco il manager che vuole ridimensionare un museo egizio sfidando una mummia vendicativa. Stefano Benni scende negli anfratti del Male per mettere disordine e promettere il brivido più cupo e la risata liberatoria. E in entrambi i casi per accendere l'immaginazione intorno ai mostri che sono i nostri falsi amici, i nostri veleni, le nostre menzogne.
Il libro racconta l'invenzione di un dolcissimo rito di salvezza: in una famiglia contadina muore la madre, e tutta la famiglia lavora a richiamarla in vita per sempre. Traducendo questo libro in francese, l'editore Gallimard lo dedicò a Roland Barthes, scomparso da poco. La traduttrice rumena a sua figlia, vittima di un incidente. Un lettore americano, ebreo, ne lesse tre pagine per dare l'addio al padre. L'editore islamico di Istanbul ne fece leggere alcuni capitoli in una madrassa della Moschea Blu. In America Raymond Carver lo definì "a sublime work of art". In Francia "Express" avvertì i suoi lettori: "Attention: chef-d'oeuvre".
Le vicissitudini sveviane con gli editori sono ben note, e si spiega così l’incipit del racconto, in cui subito ci coinvolge questo letterato quasi sessantenne che ha pubblicato un romanzo quarant’anni prima, e adesso poteva anche risultare morto: nessuno se ne sarebbe accorto. eppure non demorde, aspetta ancora il bacio voluttuoso della gloria, con qualche osso rotto, ma con gli organi più importanti intatti, e una grande stima di se stesso.
E questo dipende dallo spirito dello stesso Svevo, che in quegli anni viveva un ritorno alla gioia del raccontare e che riflette anche la ricomposizione di una coscienza critica a fronte della traumatica tensione della precedente stagione. Circola, perciò, ne La burla riuscita, come una temperie di accettazione della propria condizione umana, che appartiene alla biologia, all’età, al mondo generazionale: un complesso di riflessioni che appartengono all’inesorabilità della legge umana e sociale. Del resto – Nietzsche insegna – il cosiddetto superomismo altro non è se non la consapevolezza della propria altera solitudine, in mezzo alla sordità degli uomini.
Con una chiara intenzione autobiografica, alla svolta di una “vita” condotta fra i meandri della riflessione, il protagonista si presenta come un personaggio anziano, animato e al contempo frustrato dal trauma esistenziale della perduta gioventù: è languido e sensuale il gusto della ricordanza, che produce un fatale e inevitabile sobbalzo di coscienza, nel momento in cui si accorge che il malore è superato, ma al contempo lo illumina sui disastri che potrebbe provocargli un ritorno d’amore per una giovinetta: ecco il grande e dolente nodo tematico del personaggio, che vive e sconta il proprio novellare assorto e drammatico, ora che il duello dolente è vissuto come una implacabile tragedia. C’è tuttavia il sollievo della forma, ormai specchiata e limpida, ad alleviare la ferita dell’età. Il sollievo che acquieta le sommosse dell’io proviene sì dalla scrittura, non più nevrotica e analitica, bensì risolta e rasserenante a sospingere il protagonista a scegliersi un’altra vita, un nuovo progetto in cui l’essere e l’esistere possano reperire un nuovo punto di raffronto.