
Sviluppatasi tra la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta del secolo scorso, la teologia della liberazione in America Latina ha messo in discussione i condizionamenti ideologici, socio-politici ed ecclesiali di una teologia segnatamente europea nelle sue preoccupazioni e nelle sue prospettive, e lo ha fatto a partire da un diverso rapporto con la realtà, sottolineando la necessità di adattare la teologia alle diverse situazioni culturali e socio-politiche. Il testo ripercorre l'itinerario essenziale della teologia della liberazione, così come si è articolato in America Latina, in contesti segnati dalla povertà e da una militarizzazione violenta.
Un vecchio popolo disperso e decimato, sotto l'impulso di un'ideologia nuova radicata nella memoria antica, il sionismo, ritorna alla terra che lo ha visto nascere, strappa l'indipendenza a un ambiente ostile, si forgia in uno Stato-nazione moderno e lo foggia nelle fattezze insite nei costumi ancestrali della sua tradizione, lo ricuce con la lingua degli avi, conquista con una lotta aspra il diritto alla "normalità", senza rinunciare perciò a rivendiacare una radicale alterità, e si dota di una temibile potenza militare, che è prima il suo mezzo di sopravvivenza e diventa poi strumento di dominio fino alla modernizzazione sociale, al prezzo però anche della brutalizzazione, della violenza, della "latente guerra civile" che investe la società e poi tragicamente la politica; fino al 4 novembre 1995, quando un giovane fanatico assassina uno dei principali responsabili del processo di pace, Rabin, il Primo ministro di una Repubblica democratica ormai inserita a pieno titolo nel novero delle nazioni "moderne" e che vive oggi la propria "normalità" nelle sue manifestazioni più complesse e drammatiche.
Già quattro anni dopo la sua creazione, avvenuta nel 1831 per volontà di Luigi Filippo, la Legione Straniera ha adottato il principio di "amalgamare" le nazionalità all'interno delle sue unità; come risultato, nei suoi 168 anni di vita, essa ha visto fondersi cento nazionalità diverse, unite da un unico scopo: sacrificare tutto per la Legione. È da questo sacrificio che nasce il mito del legionario che abbandona ogni cosa, affetti familiari compresi, e trascorre prima sedici, durissime, settimane nell'addestramento di base e poi almeno cinque anni all'interno del corpo. Ma chi sono davvero i legionari? Che cosa li ha spinti a tagliare i ponti col passato? E come si vive dentro la Legione?
Nel luglio 1942 l'Armata italiana in Russia contava circa 230.000 uomini, più veicoli, carri, materiali vari e animali. Per il trasporto furono necessari duecento convogli ferroviari. In seguito all'offensiva sovietica del dicembre di quell'anno, cominciò una disastrosa ritirata che continuò per centinaia di chilometri nella sterminata pianura russa: ogni giorno duri combattimenti falciarono migliaia di soldati. Il resto, e fu il più, lo fece il gelo. Male armati, peggio equipaggiati, in condizioni disumane, 70.000 vennero fatti prigionieri: la maggior parte morì di stenti nei campi di prigionia.
Il 7 ottobre 1571 le acque del Golfo di Patrasso si tinsero di sangue: le galee di una fragile alleanza cattolica, capitanata da don Giovanni d'Austria, sconfissero l'invincibile flotta turca di Mehmet Ali. Infranto il mito dell'imbattibilità ottomana, l'incubo di una conversione forzata all'Islam dell'Europa si dileguò. Insieme a Salamina, Waterloo e Stalingrado, Lepanto è entrata nella leggenda come una delle grandi battaglie che sono riuscite a fermare una potenza nemica inarrestabile, oltre a essere divenuta simbolo dello scontro tra Oriente e Occidente, tra Islam e Cristianesimo. Niccolò Capponi ne confuta i luoghi comuni, concentrandosi in particolare sulla strategia militare, sulla tecnologia delle armi e sui documenti originali dell'epoca (tra i quali spicca la testimonianza di Miguel de Cervantes, ferito nel corso dei combattimenti).
Un lampo di umanità tra gli orrori del primo conflitto mondiale. Sono passati sei mesi dall'inizio delle ostilità, le truppe tedesche e quelle alleate si fronteggiano in una estenuante guerra di posizione, sotto i colpi del fuoco nemico, della fame, del freddo e della paura. Ma all'improvviso, alla vigilia di Natale, in un luogo imprecisato delle Fiandre, dalle trincee tedesche si levano canti natalizi e cartelli con la scritta "We not shoot, you not shoot". Superata la diffidenza iniziale gli inglesi rispondono con i loro canti e i due schieramenti concordano una tregua di tre giorni ribellandosi agli ordini. Materiali d'archivio, diari, fotografie, lettere hanno consentito a Michael Jùrgs di raccontare questo piccolo e grande miracolo dimenticato dalla Storia.
Atene, 404 a.C. La città-Stato è devastata da una lunga e sanguinosa guerra con la vicina Sparta. Atene, faro della libertà e della democrazia nel mondo antico, è alla ricerca di un perché della sua crisi. La sua storia, la sua cultura leggendaria, il suo modello politico, la religione, la sua stessa identità sono in piena tempesta, ormai sull'orlo del crollo. Intanto la Grecia rimane senza guida: chi prenderà il comando? Chi sarà all'altezza? Città come Sparta e Tebe fanno le loro mosse. Grandi tiranni provano a calcare la scena mondiale. Alessandro Magno cerca di espandere il suo regno e conquista l'intero Impero persiano. Passano quasi 100 anni, neanche un secolo dopo la caduta di Atene, nel 323 a.C., alla morte di Alessandro, e tutta la Grecia e gran parte del mondo noto a quell'epoca si scoprono nelle mani di un monarca assoluto, modello di despoti per millenni a venire. Com'è stato possibile in questo arco di tempo precipitare da una società politica pluralista a un regime chiuso e dispotico?
La "Legenda aurea" è l'opera che meglio ha espresso in tutta la sua ricchezza e complessità l'originalità di una componente insostituibile della storia di una società umana, vale a dire il tempo. Dopo il trionfale successo riportato per oltre tre secoli, la "Legenda" è andata incontro a una sorta di eclissi, soprattutto tra XVII secolo e inizio del XX. È stata a lungo - ed è ancora oggi - classificata dagli specialisti come letteratura agiografica. Ma ai miei occhi l'opera è in realtà una summa sul tempo. La grande originalità di Jacopo da Varazze non è solo nel considerare e nell'abbracciare il tempo nella sua totalità, ma nel giungere alla totalità del tempo combinandone tre dimensioni: "temporale", vale a dire il tempo ciclico della liturgia cristiana; "santorale", il tempo lineare scandito dalla successione delle vite dei santi; "escatologica", ovvero il cammino dell'umanità cristiana nel tempo fino al giudizio finale. Originale è la combinazione di questi tre tempi, così come il ruolo essenziale di indicatori del tempo attribuito ai santi. Il nostro domenicano vuole mostrare come solo il cristianesimo abbia saputo strutturare e sacralizzare il tempo della vita umana e accompagnare l'umanità verso la salvezza; in effetti, il tempo della "Legenda" non è un tempo astratto, bensì un tempo umano, voluto da Dio e santificato dal cristianesimo.
Essere un uomo politico nell'Atene del V secolo significava senz'altro essere presente tanto nell'assemblea che in guerra. Ma se Aristide, Temistocle, Cimone, Pericle, Nicia e Alcibiade sono diventati uomini illustri è anche perché hanno saputo costruire un'immagine pubblica in cui i loro stili di vita erano parte del loro agire politico. Plutarco ci racconta come sono cresciuti nella fama, sono stati amati, celebrati, invocati: Cimone, dopo una gioventù dissipata, apre i suoi giardini al popolo di Atene e diventa uno dei leader della vita politica. Alcibiade ama giovinetti e fanciulle in uguale misura, seduce l'assemblea, conduce la flotta e guida le processioni. Sono comportamenti che, se ora ci sorprendono, erano perfettamente integrati in un'immagine complessiva del politico dalle molte sfaccettature, spesso emotive. La storia politica della Grecia antica considera, nelle fonti antiche relative ai leader, solo alcune delle loro attività: i discorsi all'assemblea, la gestione della guerra, le proposte di legge, i conflitti con gli altri leader per l'esercizio del potere. L'autore studierà i loro costumi, o meglio: i modi in cui si comportavano, nascevano, crescevano, abitavano, pregavano, si vestivano, mangiavano, si sposavano, morivano.
Pochi mesi dopo la Liberazione, nella Casa del Popolo di Lambrate, il comandante della 118 Brigata Garibaldi Giulio Paggio riunisce alcuni partigiani. Dice loro che la guerra non è finita, che bisogna riprendere le armi. La prospettiva ultima è quella di farsi trovar pronti, se la rivoluzione dovesse proseguire il suo cammino. Ma la spinta immediata, il pungolo all'azione, è il desiderio di stanare i fascisti impuniti, trovare quelli che sono sfuggiti al giusto castigo, e pareggiare finalmente i conti. Sotto la guida del "tenente Alvaro", la Volante Rossa ingaggia una lotta senza quartiere contro i rinati gruppi neofascisti, divenendo presto un punto di riferimento per i lavoratori milanesi. Tutti li chiamano: gli operai per difendere le fabbriche occupate dalla polizia, il PCI per il servizio d'ordine e la vigilanza notturna alle sedi del partito. Nel luglio 1948 il momento sembra arrivato: Togliatti è in un letto di ospedale, colpito da tre colpi di pistola. Gli uomini della Volante Rossa, armati di mitra e panzerfaust, si dirigono a bordo del loro camion verso una caserma dei carabinieri, intenzionati a prenderla d'assalto. Intanto, un'auto con a bordo un dirigente di spicco della Federazione milanese del PCI tenta disperatamente di intercettarli, prima che scatenino una guerra.
Pavia, qualche anno dopo il 774. Alla tavola di Carlo Magno, che festeggia la vittoria sui Longobardi, si insinua di nascosto Adelchi, il principe sconfitto. Ma perché si ingegna a spezzare diligentemente tutte le ossa di cervo, di orso e di bue che restano nei piatti? Fonte Avellana, XI secolo. Pier Damiani è malato da tempo. Il suo corpo è debilitato perché nell'eremo il cibo scarseggia, in particolare manca il pesce. I confratelli insistono perché mangi carne, ma lui li rassicura: abbiate fede, il pesce prima o poi arriverà. Sarà Dio stesso a pensarci. Alessandria d'Egitto, XIII secolo. Il cuoco Fabrat vede comparire un povero con un pane in mano. Non ha soldi per comprare altro cibo, tiene il pane sopra la pentola e intercetta il fumo che sale. Fabrat non è di buon umore; si rivolge al povero con modi sgarbati e gli dice: adesso pagami "di ciò che tu hai preso del mio". Il povero si schermisce: ma scusa, io non ho preso dalla tua cucina altro che fumo. Fabrat non molla: pagami quello che mi hai preso. Come andrà a finire? E che avventure sono quelle di Dante Alighieri ospite del re di Napoli, del contadino Bertoldo in fin di vita per non avere rape da mangiare, dei castelli di zucchero presentati al banchetto di nozze del signore di Bologna, del cuoco Martino che lavora a tu per tu con l'umanista Platina? Si leggono d'un fiato le storie di questo libro, senza perderne una.

