
Tra il 1943 e il 1945 molte donne aderirono alla Repubblica sociale italiana e si schierarono a fianco dei tedeschi. Una parte di loro erano 'donne in armi'; inquadrate in bande e brigate nere, parteciparono a rastrellamenti e stragi, commisero omicidi e torture nei confronti di civili e partigiani. Altre erano spie al servizio dei tedeschi o degli uffici politici della RSI, denunciarono ebrei e partigiani contribuendo attivamente alla loro cattura e molto spesso alla loro morte. Nel dopoguerra furono processate e condannate per collaborazionismo. Le storie di queste fasciste saloine (e di alcuni loro camerati) permettono di riflettere su alcuni temi rilevanti per comprendere l'Italia uscita dal fascismo e dalla seconda guerra mondiale: il rapporto di queste donne con la violenza, le posizioni di dura condanna o di clemenza assunte dalle Corti nei loro confronti, le strategie che misero in atto per negare le accuse o per difendersi, l'atteggiamento dell'opinione pubblica. È una storia che non si conclude nelle aule dei tribunali. Le scelte politiche dei governi del dopoguerra, i numerosi provvedimenti di clemenza (amnistie, grazie, liberazioni condizionali), a partire dall'amnistia Togliatti del 1946, permetteranno, nel giro di un decennio, il ritorno in libertà degli ex fascisti, uomini e donne.
Nel 1480 l'impero ottomano era in prepotente espansione verso l'Europa e il Mediterraneo. Sulla sua traiettoria, l'Italia lacerata da congiure e lotte intestine fra le più splendide signorie rinascimentali. In questa storia c'è il sogno di un sultano affascinato dai fasti dell'antichità, che intende riunificare l'impero romano. Ci sono gli interessi della Repubblica di Venezia. Lorenzo il Magnifico, appena scampato alla congiura dei Pazzi. Un ex gran visir caduto in disgrazia. Le mire di dominio sulla Penisola del re di Napoli. Un pontefice che, mentre pensa alla decorazione della Cappella Sistina, briga per favorire i propri nipoti. Condottieri al servizio del miglior offerente, il coraggio dei Cavalieri di Rodi. Un grandioso mosaico che profetizza l'avvento del Male. Alla fine della guerra di Otranto non ci saranno vincitori, se non la peste. Si cercherà di recuperare gloria almeno dai resti delle vittime, facendone dei 'martiri della cristianità', contro ogni evidenza e testimonianza. Su tutto, l'indifferenza del potere nei confronti degli umili, degli ultimi, degli inermi, costretti a pagare il prezzo delle altrui ambizioni.
"Finalmente vedo Lenin, prima di profilo, poi di fronte, poi di nuovo di profilo. È tutto vestito di nero, e il corpo è appiattito. Ha la giubba chiusa dei primi bolscevichi. La testa la fisso a lungo, per decidere se è una statua o un uomo vero: può sembrare assurdo, ma la cosa non appare affatto chiara. E non tanto perché il volto di Lenin, come le sue mani, sembra di cera, ma perché la domanda che mi sta più pressando dentro è questa: cosa aggiunge alla verità che è per noi Lenin vederne così il corpo? Lenin è somigliantissimo a quello che si vede nelle fotografie: la fissità e la mancanza di espressione hanno rinsecchito l'aspetto puramente morfologico, che è così molto vicino al vero, ma come in una copia mummificata. Una fotografia ha gli occhi vivi; qui c'è il corpo vero, ma gli occhi sono chiusi. Cosa vale di più?" È il 31 agosto del 1963. Claudio Pavone sale sul treno che lo porterà oltre la cortina di ferro. L'occasione del viaggio è un programma di scambio italo-sovietico per raccogliere informazioni sui documenti italiani presenti nei diversi archivi sovietici e, prima, la III Conferenza internazionale della Resistenza che si tiene a Karlovy Vary in Cecoslovacchia. Da Praga un treno lo condurrà attraverso la Polonia, le pianure ucraine, fino a Mosca e poi a Leningrado e Kiev. Di questo viaggio Claudio Pavone tiene un diario in cui annota impressioni, incontri, discussioni, immagini restituendo intatto quel mondo sovietico non più staliniano, ma non ancora attraversato dal disgelo.
La scoperta dei nuovi mondi fu anche la scoperta di uomini mai prima d'allora apparsi nelle grandi storie universali. Il racconto di questo libro, ricco di volti e di storie, si snoda dal Messico alla Cina, passando per le isole Molucche e il Perù, ma anche per le botteghe dei tipografi veneziani e le grandi corti rivali di Spagna e d'Inghilterra. Ci svela così un Rinascimento dagli orizzonti globali, in cui il recupero dell'antichità classica si accompagnò a una disorientante scoperta: le culture con cui gli europei erano entrati in contatto fra Quattro e Cinquecento avevano anch'esse un passato da decifrare. Qual era la storia di popolazioni, come gli indios delle Americhe, di cui gli europei non avevano mai sentito parlare? In che modo spiegare le tracce di tempi lontani di cui non davano conto né la Bibbia, né gli autori greci e latini? Come riconciliare un'improvvisa molteplicità di storie con il crescente senso di unità del globo? Le risposte che furono date a queste domande si misurarono con la difficile sfida della varietà del mondo che segna ancora il nostro presente.
I film raccontano sempre due epoche. Una è quella in cui sono ambientati, il contesto storico in cui si dipana la trama. L'altra è quella in cui vengono realizzati. In 1860 Blasetti descrive il Risorgimento come impresa 'dal basso' per creare una continuità con il fascismo, che vedeva come fenomeno rurale e popolare. Cosa che a Mussolini, da un certo punto in poi, non piacque più. Nei libri di Guareschi, Don Camillo è incredibilmente più violento e sanguigno mentre nei film lui e Peppone vengono ammorbiditi e resi simpatici. Perché? È un caso che Tutti a casa di Comencini, film sulla nascita goffa e incompiuta della nostra democrazia, esca nel 1960, l'anno di Tambroni e dei morti di Reggio Emilia? Questo libro parla del fascismo utilizzando Amarcord di Fellini, del '68 con Sandokan di Sollima, degli anni 70 con Salò di Pasolini, passando per la caduta del muro con Palombella rossa di Moretti, fino all'attualità politica sconfortante della serie tv Gomorra. II viaggio sarà lineare e cronologico per quanto concerne gli eventi storici, mentre compirà un continuo andirivieni nella storia del cinema: incontreremo fenomeni come colonialismo, fascismo, Resistenza, dopoguerra in film di epoche disparate, diversissimi fra loro.
Crimini di guerra sono stati perpetrati in Italia fin dall'Unità con la repressione del brigantaggio e altri sono stati commessi da italiani già a partire dalle spedizioni coloniali in Africa Orientale e in Libia. Ma è soprattutto durante il ventennio fascista che l'Italia si rende responsabile della violazione dei più elementari diritti umani nelle guerre in Etiopia, Somalia, Spagna e - ancor più - nel corso della seconda guerra mondiale. In particolare, tra il 1940 e il 1943, insieme alla Germania, è protagonista di numerosi eccidi di civili in Jugoslavia, Grecia, Albania, ma anche in Russia e in Francia. Poi, tra il 1943 e il 1945, il nostro paese subisce stragi efferate a opera dei nazisti, sostenuti dai fascisti della Repubblica di Salò. Per questo motivo, l'Italia viene a trovarsi nella particolare situazione di essere considerata responsabile e vittima di crimini di guerra al punto da impedirle, nei decenni successivi, di riconoscere tanto le responsabilità dei propri soldati in Africa Orientale e soprattutto nei Balcani, così come di perseguire i nazifascisti colpevoli delle stragi compiute sul suo territorio. Questa vera e propria strategia politica di occultamento ha subito un parziale ripensamento solo dopo la fine della guerra fredda. Dal 2005 a oggi sono state emesse numerose sentenze che hanno contribuito a rinnovare il rapporto tra storia e memoria su una delle questioni più tragiche e controverse della storia nazionale.
Bruno Caccia fu ucciso dalla 'ndrangheta, senza alcun dubbio. Ma nell'anomala vicenda dell'unico omicidio di un magistrato commesso da un'associazione mafiosa nel Nord Italia rimangono molte ombre. Come sancì la seconda sentenza di appello per il delitto, infatti, e come confermò la Cassazione, il Procuratore fu ucciso in quanto «ostacolava la disponibilità altrui», cioè la disponibilità di altri magistrati verso i malavitosi. Esistono dunque, al di là degli esiti processuali, ben più ampie responsabilità che spiegano anche l'oblio a cui la vicenda è stata destinata. Il libro passa in rassegna le inchieste aperte da Caccia e prende in esame documenti inediti e nuove testimonianze. Quello che emerge è una fitta trama di relazioni pericolose tra alcuni magistrati, alcuni esponenti della criminalità organizzata e gli indagati nelle inchieste 'scandalo', che in quel terribile 1983 coinvolgevano esponenti delle istituzioni, Guardia di Finanza, massoni. La magistratura nel suo insieme ha avuto in questa vicenda - secondo l'autrice - responsabilità gravissime. E arrivato il momento di riconoscerle.
La vittoria ha mille padri ma la sconfitta è orfana. Di certo non in Italia, dove è figlia legittima di uomini che hanno fatto la storia col sangue di altri uomini. Loro malgrado.
«La guerra è una cosa troppo seria per farla fare ai militari». Per non farla fare solo ai militari i politici dell’Italia unita ci hanno messo di loro, riuscendo a realizzare un perverso mix che ha portato a una lunga teoria di eclatanti sconfitte. A Custoza si perde una battaglia già vinta perché La Marmora e Cialdini conducono una guerra privata. A Lissa l’inesperto ammiraglio Persano e i suoi vice neppure si parlano, e i sogni di gloria vanno a picco assieme alle navi e ai marinai. A Caporetto Badoglio, pur sapendo che gli austro-tedeschi stanno per attaccare, se ne va a dormire. L’attacco alla Grecia soddisfa solo le manie di grandezza di Ciano e Mussolini e si incanala subito verso un clamoroso disastro che fa sogghignare mezza Europa. Una tragedia che è la prova generale della campagna di Russia…
Ma le sconfitte non hanno pesato solo sul piano militare. Spesso sono state l’occasione per scatenare psicodrammi assurdi o ancora più ridicole cacce a capri espiatori di comodo, rivelando tutta la fragilità della nostra identità nazionale, come accaduto con il disastro di Adua e la caduta di Crispi. In altri casi hanno prodotto una presa di coscienza e uno scatto di orgoglio che ha mutato, in meglio, la storia successiva.
Cinque battaglie, cinque sconfitte che hanno contribuito a ‘formare’ l’Italia.
Una prosa lieve e arguta fatta di descrizioni minute e deliziose ci accompagna a vagabondare dall'alba al tramonto in una immaginaria città del Due-Trecento: una finestra sulla vita medievale.
Dal colonialismo al moderno populismo, dai fallimenti del liberalismo ottocentesco ai limiti di quello contemporaneo, dal caudillismo all'autoritarismo, dall'indipendenza ai giorni nostri. Loris Zanatta ricostruisce la storia complessa e affascinante dell'America Latina.
Che cosa sono le felicità d'Italia? La musica, il cibo, la biodiversità agricola, il paesaggio, la tradizione artistica e culturale. Ovvero tutto ciò che rende il nostro Paese e i suoi costumi speciali agli occhi degli stranieri che vengono a visitarlo o di quelli che ne apprezzano e adottano lo stile di vita. Ma perché queste 'felicità' hanno avuto origine proprio qui? Come mai la Penisola possiede una eredità tanto ricca e varia di questi tesori? Carlo Cattaneo sosteneva che la cultura e la felicità dei popoli non dipendano tanto dai mutamenti della 'superficie politica' quanto dall'influsso di alcune 'istituzioni' che agiscono inosservate nel fondo delle società. Sono creazioni del popolo (norme consuetudinarie, strutture organizzative, tradizioni culturali) che sono state elaborate dal basso e che contano più delle scelte dei governi per il progresso dell'umanità. Il libro racconta la storia di quattro di queste 'felicità': l'alimentazione, dipendente dall'originalità storica e geografica dell'agricoltura italiana; le città, con il loro patrimonio di bellezza, che per secoli hanno costituito la forma più alta di organizzazione della vita sociale; la musica e la canzone napoletana, esempi della creazione di un immaginario poetico da parte di un popolo; la tradizione cooperativa, che ha dato un'impronta di egualitarismo sociale e di avanzato civismo.
Due città rivali, Siena e Firenze. Due fazioni in lotta, guelfi e ghibellini. Due poteri che si scontrano, Impero e Chiesa. Tutti questi conflitti convergono il 4 settembre 1260 a Montaperti per dare vita a una battaglia che sembrò segnare una svolta nella storia d’Italia. Lo scontro fu durissimo. La sera sul campo rimasero così tanti cadaveri di uomini e cavalli che il sangue, come scrive Dante, «fece l’Arbia colorata in rosso». Verso Siena si incamminavano le migliaia di prigionieri che erano tutto ciò che restava dell’imponente esercito messo insieme da Firenze e dalle sue alleate, sconfitto dai ghibellini e dai cavalieri di Manfredi.
Per uno dei paradossi della storia, la vittoria dei senesi e degli svevi ebbe esiti opposti rispetto a quanto ci si sarebbe potuti aspettare all’indomani della battaglia. Il trionfo ghibellino, infatti, rafforzò la scelta anti-sveva dei papi. Una vittoria, quindi, che si trasformò rapidamente nell’inizio della crisi del ghibellinismo e della svolta che riportò i papi e i guelfi nuovamente al centro della vita politica italiana.