
Come si possono raccontare cent'anni in pochi giorni? Quali sono i dieci avvenimenti emblematici del ventesimo secolo in Europa? La selezione è inevitabilmente arbitraria, ma possibile. Konstanty Gebert la fa in dieci racconti, quasi in forma di reportage, ambientati in altrettante città europee. Prende spunto da una data e un evento memorabili, che hanno segnato il secolo e consentono di ricostruirne, ciascuno, un decennio. Per conoscere e interpretare i fatti si basa sulle fonti scritte, sui ricordi dei testimoni o dei loro discendenti, sulla conoscenza diretta dei luoghi, passando da un estremo all'altro del continente. Ne scaturisce una lettura molto personale della realtà europea, un affresco di un passato che si riflette sul presente, nel contrastato rapporto fra storia e memoria. Si comincia da Vienna, il 12 giugno 1908, con la parata imperiale per il sessantesimo anniversario di regno di Francesco Giuseppe; si passa poi alla battaglia di Ypres, dove si inaugurò l'uso dei gas letali, nel 1915; seguono la prima dell'"Opera da tre soldi" di Brecht a Berlino, nel 1928, per finire con l'incendio della biblioteca di Sarajevo, il 25 agosto 1992. Nel quadro del rispettivo decennio, a fianco di fatti e interpreti della grande Storia si sentono le voci di più umili protagonisti e si respira il clima socioculturale dell'epoca. L'evento è l'occasione per una riflessione più complessiva sul ricordo e l'oblio, sulla memoria e le identità comuni nell'eredità dell'Europa che oggi si dice unita.
La città di Sarajevo ha avuto il paradossale destino di essere insieme un simbolo della violenza politica lungo l'intero ventesimo secolo e un modello europeo di cosmopolitismo e pacifica convivenza tra identità religiose, etniche e culturali diverse, grazie alla coscienza civica dei suoi abitanti. Fin dalla fondazione nel quindicesimo secolo, è stata città multiconfessionale e multietnica. Vi hanno convissuto le comunità musulmana, cattolica, serbo-ortodossa ed ebraica. I cittadini erano bosniaci, serbi, croati, ebrei sefarditi e askenaziti, rom e di altre minoranze. La vita cittadina venne però stravolta quando nel 1941 Sarajevo cadde sotto il controllo della Germania di Hitler e fu incorporata nello Stato indipendente di Croazia, uno dei più brutali stati satellite del nazismo, sotto il regime degli ustascia. Il suo complesso mosaico di identità, caratteristico dei vecchi imperi multinazionali, iniziò a incrinarsi. Saltarono equilibri e si manifestarono spinte centripete, quando gli ustascia sferrarono il loro feroce attacco a serbi, ebrei e rom, e poi con l'esplosione della guerra civile sotto l'incalzare dei partigiani comunisti e dei cetnici. Greble analizza le scelte quotidiane e le misure concrete dei leader locali, per capire che cosa ne sia stato in quel drammatico frangente del multiculturalismo incarnato da Sarajevo. Un caso significativo per gli interrogativi urgenti che pone sulla convivenza nel pluralismo culturale e religioso.
Nel 2009 Barack Obama è diventato il primo presidente afroamericano degli Stati Uniti. La sua elezione ha segnato una svolta epocale nella storia americana, le cui radici si possono rintracciare nelle lotte e rivendicazioni dei movimenti sociali che negli anni sessanta hanno combattuto contro la segregazione razziale e per i diritti civili. Questa era solo una delle battaglie di verità dell'epoca. Lotte di liberazione contro condizioni sociali, culturali e politiche oppressive furono anche quella contro la guerra in Vietnam e contro la discriminazione sessuale. Quel passato in cui ci si divideva su questioni di razza, sesso e guerra torna ora di attualità e la "memoria divisa" di quegli anni, quando si contrapposero culture e visioni del mondo differenti, è materia di nuova riflessione. Nei "lunghi" anni sessanta, che iniziano già nelle lotte antisegregazioniste dei neri del Sud negli anni cinquanta e si protraggono nei settanta con il movimento di massa delle donne, si assisté a uno straordinario mutamento culturale e dei costumi. La trasformazione non si può ridurre alla sola controcultura, che ebbe il suo apice a Woodstock nel 1969, e non riguardò soltanto i giovani, coinvolse invece l'intera società. Sul senso di quegli anni, sui quali la storiografia si era a sua volta divisa nel giudicare le responsabilità del potere e i suoi contestatori, si interroga oggi Bruno Cartosio, ripercorrendone miti e realtà, cultura e politica, la fondamentale spinta liberatoria.
Nel 1989, la caduta del Muro di Berlino ha messo fine al XX secolo. Ciò che sino al giorno prima era percepito come presente è diventato storia. Scossa da questa svolta, la storiografia ha dovuto rivedere i propri paradigmi, interrogarsi sui propri metodi, ridefinire i propri campi di ricerca. Le rigide partizioni della guerra fredda sono state sostituite da un mondo "liquido" e la nuova storia globale, al posto di un secolo diviso in blocchi, inizia a vedere una rete di scambi economici, di movimenti migratori, di ibridazioni culturali su scala planetaria. La storia fondata sulla "lunga durata" ha lasciato spazio alla riscoperta dell'avvenimento, imprevedibile, eruttivo e spesso enigmatico. In questo libro, Enzo Traverso ricostruisce il quadro d'insieme dei mutamenti che sono al centro dei grandi dibattiti storiografici attuali. Affronta le grandi categorie interpretative, sia classiche (come rivoluzione, fascismo) sia nuove (come biopotere), per mettere in luce tanto la fecondità quanto i limiti dei loro apporti o delle loro metamorfosi. Interroga il comparativismo storico, studiando dapprima gli usi della Shoah come paradigma dei genocidi, quindi mettendo a confronto l'esilio ebraico e la diaspora nera, due delle maggiori questioni della storia intellettuale. Analizza infine le interferenze tra storia e memoria, tra presa di distanza e sensibilità del vissuto, che sono al cuore di ogni narrazione del XX secolo.
Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia.
John Maynard Keynes e Friedrich von Hayek si ritrovarono su fronti opposti in una contrapposizione che si fece sempre più netta e che diede luogo al maggiore scontro in campo economico della storia contemporanea. Al centro della contesa si impose la questione se spettasse ai governi e allo stato intervenire nel mercato e in economia, o meno. Tutti e due poterono osservare l'espansione e la recessione del ciclo economico dell'epoca, ma giunsero a conclusioni molto differenti in proposito. Hayek era convinto che il fatto di alterare l'"equilibrio" del libero mercato avrebbe provocato una selvaggia inflazione. Keynes credeva invece che per contrastare la disoccupazione di massa e favorire la crescita alla fine di un ciclo servisse la spesa pubblica. Sarebbero stati in disaccordo per il resto delle loro vite e per vent'anni si confrontarono per lettera, con sapienti articoli e interventi accademici, in accalorate conversazioni private e infine tramite i ferventi discepoli: da John Kenneth Galbraith a Milton Friedman. Dalla Grande depressione alla seconda guerra mondiale e dal dopoguerra al presente, Nicholas Wapshott, nel suo stile narrativo e con grande capacità di rendere comprensibili complesse questioni economico-finanziarie, riporta in vita gli animati dibattiti tra questi due giganti del ventesimo secolo, la cui eredità condiziona tuttora il dibattito politico.
Questa non è una "storia" del Mossad nel senso proprio del termine, quanto piuttosto una galleria di "storie" del Mossad, una raccolta di episodi, ritratti e momenti chiave, che copre l'arco di tempo tra gli anni cinquanta e oggi. Il Mossad, sin dalla spettacolare cattura di Adolf Eichmann a Buenos Aires nel 1960, è considerato una delle organizzazioni di intelligence più efficaci al mondo. In quest'opera di giornalismo d'inchiesta viene in parte sollevato il fitto velo di segretezza che l'avvolge per osservare da dietro le quinte alcune delle sue principali missioni. Michael Bar-Zohar e Nissim Mishal come in un autentico romanzo di spie, raccontano alcune delle operazioni più emblematiche (nomi in codice Camaleonte, Pigmalione, Diamante, Tigrotto...), rivelando particolari inediti e mostrando secondo quali logiche si muove e colpisce il servizio segreto israeliano. Si svelano le identità di alcuni degli agenti e capi del servizio segreto, la cui vita è indissolubilmente legata a quella dell'organizzazione e le cui personalità hanno influito sulle sue strategie. Rientrano nella ricostruzione i vicini arabi, come Siria e Giordania, nemici vecchi e nuovi (dai nazisti a Hezbollah), ma anche i sovietici e Chruscev, i falasha etiopi e l'Iran dei nostri giorni. Un racconto che si rivolge tanto agli appassionati di storie di spie quanto a chi voglia scoprire qualcosa di più su come funziona un servizio segreto ancora attivo, per definizione imperscrutabile.
Il 19 marzo 1944 le truppe naziste invadono l'Ungheria. La guerra va male per la Germania e Hitler teme l'abbandono dell'Asse da parte del governo di Miklós Horthy. A Budapest si installa un dipartimento per la "soluzione del problema giudaico" agli ordini del colonnello delle SS Adolf Eichmann. Nel paese opera da anni un'organizzazione sionista - la Vaada - che offre assistenza agli ebrei dell'Europa centrale e balcanica. Una vasta rete di soccorso diretta dai coniugi Joel e Hansi Brand e da Rudolf Kasztner. In aprile Eichmann propone alla Vaada la "vendita" alle potenze alleate di un milione di ebrei in cambio di merci e danaro. Se l'accordo non andrà in porto, i tedeschi li spediranno nei campi della morte. Tra le alte gerarchie naziste - Heinrich Himmler in testa, il Reichsfilhrer delle SS che ha architettato il piano "Blood for Money" - si sta diffondendo il panico per l'imminente disfatta militare. Le truppe sovietiche e anglo-americane avanzano su tutti i fronti e i capi del Reich germanico pensano già ad assicurarsi una via di fuga in America Latina. Inizia così l'avventura di Brand per tentare di salvare gli israeliti presenti sul territorio ungherese, una drammatica corsa contro il tempo che si svilupperà tra Europa, Turchia e Medio Oriente. È una storia in gran parte inedita che Fabio Amodeo e Mario José Cereghino raccontano sulla base di un'ampia indagine realizzata negli Archivi nazionali britannici di Kew Gardens, dove sono conservati centinaia di documenti del Foreign Office...
La prima globalizzazione, nella seconda metà dell'Ottocento, fu accompagnata, e in un certo senso guidata, da un'élite internazionale ristretta e potente, artefice di un nuovo sistema economico. A propria capitale eresse la più grande metropoli di allora, Londra, sede di due imperi: quello diplomatico-militare vittoriano e quello informale, dai confini mobili, della finanza. I merchant bankers londinesi furono un'aristocrazia atipica, che intrecciava il potere del denaro con quello delle relazioni istituzionali e sociali. In questo libro si racconta l'ascesa di tale élite imperiale, capitalistica e aristocratica insieme, e se ne descrivono il profilo sociale e la cultura operativa. Si parte dalla scoperta della globalizzazione, si analizzano poi da una parte la diffusione di speculazione e gioco di Borsa e dall'altra la concentrazione in poche mani di un colossale potere economico e politico. I finanzieri internazionali si erano dati tacite ma stringenti regole comportamentali che delimitavano lo spazio tanto della concorrenza quanto della cooperazione. L'epoca in cui la globalizzazione si delineò non fu affatto un periodo di anarchia economica, bensì di regolazione dell'economia, sebbene su basi rigorosamente privatistiche. E forse è questa la differenza più profonda rispetto alla globalizzazione del nostro tempo, che ha sottratto la dinamica della finanza a ogni regola.
Il Giro d'Italia ha un sapore mitico: sembra esistere da sempre, eppure ha una sua storia, che accompagna e in cui si riflette la storia culturale e sociale dell'Italia. Questo libro la ripercorre, dagli esordi e nei suoi sviluppi, per circa un secolo. A fianco della narrazione scorrono, diventandone parte integrante, oltre duecento immagini d'epoca, in gran parte provenienti dall'archivio Torriani. Mimmo Franzinelli, da appassionato delle due ruote, ricostruisce le vicende del ciclismo agonistico italiano e della sua gara principale partendo dalla creazione stessa della bicicletta e dalle grandi innovazioni di fine Ottocento. Rievoca le gare pioneristiche, dal Giro di Lombardia del 1905 alla Milano-Sanremo del 1907, per concentrarsi poi sul Giro d'Italia, modellato sul Tour de France, la prima classica corsa a tappe. Ne sono protagonisti campioni quali Girardengo e Binda, Bartali e Coppi, ma anche straordinarie donne come Alfonsina Strada e oscuri gregari come Carrea e Malabrocca. Nel microcosmo delle due ruote si intravedono in filigrana i mutamenti epocali del Novecento italiano. Ci sono infine, ma non da ultimo, gli organizzatori, con cui il Giro d'Italia degli anni d'oro si è identificato: Armando Cougnet, promotore nel 1909 della prima edizione, e Vincenzo Torriani, il Patron dal 1949 al 1992. La narrazione culmina nell'ultima grande stagione del ciclismo, animata da Adorni, Gimondi, Moser, Merckx... Postfazione di Marco Torriani.
Marlene Dietrich e Leni Riefenstahl sono state due icone del cinema del loro tempo, dalla Germania di Weimar all'America di Hollywood. Interpretando a modo loro "la donna nuova" hanno incarnato due differenti tipi di erotismo e di seduzione, mettendoli in scena sullo schermo, come attrice e cantante Marlene, come regista Leni. I loro destini speculari, incrociati e opposti attraversano un periodo cruciale della storia. Marlene, dopo il successo de "L'angelo azzurro", si trasferisce presto in America diventando una diva internazionale. Leni invece in Germania mette la sua straordinaria creatività registica al servizio del nazionalsocialismo (Il trionfo della volontà, Olympia) e alla seduzione di massa esercitata dal suo Führer. Con lo scoppio della guerra la Dietrich, antinazista dichiarata, usa la sua arte a favore della truppa combattente, ritornando nella sua Berlino in divisa americana. La Riefenstahl, invece, in nome della "apoliticità" dell'arte continua a inseguire i suoi modelli di estetica cinematografica. Ricostruirne, come fa Gian Enrico Rusconi in questo libro, i percorsi biografici consente di scoprire le molte espressioni del loro erotismo. Ironico e tenero ma anche sfacciato quello di Marlene; distaccato, estetizzante, opportunistico quello di Leni che come regista non perde mai di vista la sua performance professionale. Il saggio così getta luce sull'altra faccia, apparentemente "minore", della cultura del Novecento tedesco, e non solo.

