
Pubblicato una prima volta nel 1955 in occasione del decennale della Liberazione, "Uomini e città del Resistenza" è il testo fondatore della nostra epica resistenziale. Questa edizione riproduce l'originale anche nell'immagine di copertina. La disegnò Carlo Levi per l'occasione, in ricordo di un episodio che più di qualunque altro sembrava evocare lo spirito della Resistenza. Un attimo prima di soccombere ai nazisti nel rogo di Sant'Anna di Stazzema, una giovane donna, Genny Marsili, aveva scagliato contro gli aguzzini uno zoccolo: il simbolo, insieme, della sua fierezza e della loro abiezione. Prefazione di Carlo Azeglio Ciampi.
L'esperienza bellica è per il giovane Calamandrei un tornante decisivo, un momento di scoperta di sé e delle proprie vocazioni. Abituati a rapportarsi a lui come a un padre della patria, è una scoperta trovarlo qui ragazzo innamorato, militare controvoglia, interessato alle fotografie più che alle armi, pieno di rimpianti per una carriera interrotta e spaesato di fronte a un evento decisivo, un momento di scoperta di sé e delle proprie vocazioni.
Pubblicato una prima volta nel 1955 in occasione del decennale della Liberazione, "Uomini e città del Resistenza" è il testo fondatore della nostra epica resistenziale. Questa edizione riproduce l'originale anche nell'immagine di copertina. La disegnò Carlo Levi per l'occasione, in ricordo di un episodio che più di qualunque altro sembrava evocare lo spirito della Resistenza. Un attimo prima di soccombere ai nazisti nel rogo di Sant'Anna di Stazzema, una giovane donna, Genny Marsili, aveva scagliato contro gli aguzzini uno zoccolo: il simbolo, insieme, della sua fierezza e della loro abiezione. Prefazione di Carlo Azeglio Ciampi.
"Bisogna fare di tutto perché quella intossicazione vischiosa non ci riafferri: bisogna tenerla d'occhio, imparare a riconoscerla in tutti i suoi travestimenti. In quel ventennio c'è ancora il nostro specchio. Solo guardando ogni tanto in quello specchio possiamo accorgerci che la guerra di Liberazione, nel profondo delle coscienze, non è ancora terminata." I capitoli inediti di un'opera di Piero Calamandrei: un bilancio del ventennio all'indomani della Liberazione, un inno alla libertà ritrovata, un'analisi a caldo del regime.
Nel 1972 il giovane diplomatico Enrico Calamai viene inviato dal Ministero degli affari esteri in Argentina con la carica di viceconsole. A Buenos Aires sembra di stare in Occidente, in Italia o in Spagna, e in effetti metà della popolazione è di origine spagnola e l'altra metà italiana. Sono tanti gli argentini con doppio passaporto, figli di emigrati che hanno la cittadinanza italiana. La comunità italoargentina è forte, variegata e ben integrata. Ci sono una miriade di associazioni italiane e non mancano quelle legate alla destra fascista, alla Dc, alla Cgil e al Pci. La situazione economica non è rosea, il clima politico è teso e sono molti i giovani impegnati. I militari aspettano e Isabelita Peron è sempre meno credibile. Nel 1974, poco dopo il golpe cileno, Calamai viene spedito a Santiago del Cile: l'ambasciata si è riempita di rifugiati di origine italiana (450 persone) che chiedono un asilo politico che il governo italiano non vuole concedere per non pestare i piedi all'esercito cileno e agli americani. Calamai, invece, aiuta i rifugiati: mette a punto una strategia che consente loro di scappare in Italia. Il periodo cileno è un'esperienza fondamentale per il giovane diplomatico. Nel 1976, quando i generali argentini prendono il potere, il governo italiano (siamo nel periodo non solo della guerra fredda ma anche della p2) è stato avvisato in tempo e l'ambasciata ha rafforzato i suoi dispositivi di sicurezza per impedire agli italoargentini in cerca d'asilo di entrare. La repressione argentina è più dura e subdola di quella cilena, ma Calamai riesce comunque ad aiutare molte persone, in maniera discreta, con una rete di soccorso e informazione che comprende l'inviato del ?Corriere della Sera”, il rappresentante della Cgil a Buenos Aires, un frate coraggioso, alcuni volontari dell'ambasciata e suo fratello, che lavora a ?Rinascita”. Ne salva tanti e cerca di avere notizie anche dei desaparecidos, fino a quando viene richiamato a Roma nel 1977.
Tutto quello che la gente sa sul cosiddetto caso Moro, cioè sulla strage efferata della sua scorta in via Fani, la lunga prigionia dello statista democristiano e la sua sconvolgente morte, si basa in gran parte su una ricostruzione dei fatti frutto di un compromesso volto a formulare una «verità accettabile» sia per gli apparati dello Stato italiano, sia per gli stessi brigatisti. Tutto questo provocò un processo di rielaborazione, molto tortuoso ed ex post (durato oltre dieci anni, da quel tragico 1978 al 1990), su che cosa era veramente accaduto durante l'«Operazione Fritz», il nome in codice dell'«operazione Moro». E ancora oggi, a ben guardare, noi non sappiamo tutta la verità sulla morte di Aldo Moro. Le verità emerse dalla nuova Commissione d'inchiesta Moro 2 sono sconcertanti. Quattro anni di lavoro, migliaia di documenti desecretati degli archivi dei servizi segreti italiani, centinaia di nuove testimonianze, nuove prove della Polizia scientifica e dei RIS dei Carabinieri hanno rivelato molti nuovi, sorprendenti elementi. Qualche esempio. Moro guardò negli occhi chi gli sparava, non morì sul colpo, ma in modo atroce, dopo una lenta agonia. Il suo carceriere trovò rifugio da latitante in una palazzina dello IOR, la banca vaticana. L'omicidio ben difficilmente è potuto avvenire nel box di via Montalcini 8, così com'era nel 1978. Almeno 2 terroristi della Rote Armee Fraktion potevano essere in via Fani. Fu un imprenditore israeliano che fornì i 10 miliardi del riscatto consegnati a Paolo VI. Le fazioni palestinesi giocarono un pesante ruolo nella trattativa. Durante il sequestro passarono alle BR documenti top secret della NATO. Infine emerge uno scenario internazionale del delitto che i brigatisti hanno sempre negato. Purtroppo anche in molte rievocazioni in occasione dei quarant'anni del rapimento è stata riproposta la vecchia narrativa, messa a punto come un abito su misura. Allora, la sola «verità» dicibile, ma oggi del tutto insoddisfacente.
Residuo d'un lavoro, vagheggiato fin dalle prime esperienze giovanili maturate nell'Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli (1947-52), L'Europa di Croce, il cui punto di riferimento principale è la Storia d'Europa nel secolo decimonono (1932), intende - al di là delle vicende narrate - segnare le linee essenziali del tracciato dell'Europa moderna, seguito nell'intreccio tra la molteplicità irriducibile dei "contenuti" culturali, e l'assunzione della "forma", del "dover essere", capace di integrare quei "contenuti", storicamente e socialmente condizionati. È il problema, tanto dibattuto e contrastato della generazione seguita al Dilthey, all'avvento delle "scienze umane" o "scienze dello spirito", che hanno prodotto una frattura sostanziale nella storia del pensiero occidentale, una fase che ha inizio da più d'un secolo, con in più, ai giorni nostri, l'esigenza d'una risposta intuitiva di immediata comprensione.
L'arte è un linguaggio? Questo interrogativo percorre la storia delle idee estetiche e della critica d'arte per tutto il nostro secolo, e costituisce il tema di uno dei più importanti dibattiti moderni sulla materia. Questo libro ripercorre la storia e definisce i diversi metodi di indagine di coloro che pensano che l'arte abbia lo stesso statuto del linguaggio e traccia una mappa delle diverse correnti che considerano l'arte in quanto comunicazione.
Antonio Ruffo, principe della Scaletta, collezionista nella Sicilia del Seicento, il più importante esponente del ramo isolano della sua casata, è uno straordinario personaggio in cui si coniugano prudenza in politica, abilità negli affari, notevole ricchezza, grande passione per l’arte, originalità di gusti e profondità d’interessi. Accanto a lui, il nipote Giacomo, visconte di Francavilla, allievo e sodale di Giovanni Alfonso Borelli e Marcello Malpighi, è un intellettuale e uno scienziato curioso di leggere, come lo zio, nel ‘gran libro della Natura’ ogni espressione di arte e di scienza. Grandi personaggi i Ruffo di Sicilia, uomini e donne. Questo libro racconta la loro storia che si dipana dalla Calabria alla Sicilia, da Messina a Madrid, a Malta e a tutto il Mediterraneo, teatro di traffici commerciali, di relazioni economiche, di scambi culturali e di opere d’arte. La vicenda dei Ruffo si inquadra in un percorso di studio dei casati nobiliari che, dal Piemonte alla Sicilia, è ormai considerato essenziale per interpretare i processi storici e i meccanismi delle società in cui agirono. Una parabola locale che si fa trama di una grande storia.
Cinquecento anni fa, il 29 marzo 1516, il Senato della Serenissima Repubblica di Venezia deliberò che gli ebrei di diverse contrade cittadine si trasferissero "uniti" (cioè tutti) nella corte di case site in Ghetto, presso San Girolamo. Nasceva così il primo "recinto degli ebrei". Si trattava in origine del "geto de rame", il luogo in cui venivano riversati ("gettati") gli scarti della lavorazione delle fonderie presenti nella zona. Nel corso dei secoli, e su tutti i continenti, questa parola veneziana sarebbe presto diventata sinonimo di segregazione. Nato come misura di confinamento, il Ghetto diviene in breve un luogo effervescente e cosmopolita, che accoglie gli ebrei provenienti dai luoghi più diversi, oltre a rappresentare uno dei centri di commercio fondamentali della Repubblica veneziana. La struttura architettonica delle sue case, inusuale per Venezia - con i suoi caseggiati stranamente sviluppati in altezza per far posto al numero crescente di abitanti confinati nel luogo -, si intreccia alla vicenda storica del luogo, decisamente centrale per l'Italia e per l'Europa. Qui sorgono i banchi di pegno dai quali passerà buona parte del prestito di denaro della potenza lagunare, ma nel Ghetto non mancano le professioni liberali e la cultura, che fanno di Venezia una delle capitali indiscusse del mondo ebraico e non solo.
Caratteristica di questo volume è l'arco cronologico interessato alla trattazione, anticipato rispetto alle storie canoniche del periodo: non è il 1492 l'anno di partenza, ma l'intero corso del Quattrocento, nell'ipotesi che già agli inizi di quel secolo si profilino nuove strategie urbane, distinte da quelle medievali. La città quattrocentesca risulterà assimilata quindi a un lungo Rinascimento, in una stagione ricca di rinnovamenti e di sperimentazioni. Analogamente, il punto di arrivo della narrazione coincide più o meno con la metà del XVI secolo, poiché quello successivo è ormai un periodo di conferme, di sedimentazione e di abbellimento.
Il saggio ripercorre, alla luce degli studi più recenti, la vita e le opere dello storico Flavio Giuseppe, mettendo a fuoco un tema che ha a lungo appassionato gli studiosi: fu un traditore della sua patria o un eroe? Diversi fattori hanno influenzato la risposta a questa domanda, non ultimo l'uso che in chiave anti-giudaica fecero della sua opera i primi cristiani. Una lettura equilibrata dei suoi scritti consente di giungere a una soluzione per certi versi paradossale: la sua condotta, non sempre trasparente nelle prime fasi della guerra giudaico-romana, rende fondata l'accusa di tradimento verso i suoi connazionali, tuttavia il suo odio contro i ribelli, una volta passato nel campo romano, rivela un amore profondo e incompreso per il suo popolo.