
Gli americani sono europei che hanno lasciato il proprio paese natale per sfuggire a persecuzioni religiose o politiche, alla povertà, alle barriere dei rapporti di classe o alla mancanza di opportunità di miglioramento economico o sociale. Non stupisce quindi che l'Europa si sia configurata nella coscienza degli americani come una madre-matrigna, sede di intolleranza religiosa o politica, di falsi splendori per pochi e di terribili miserie per molti. Storico delle dottrine politiche, Massimo Salvadori analizza l'idea di Europa nella rappresentazione del pensiero politico americano, dalla fine del Settecento alla metà del ventesimo secolo, evidenziando come un certo antieuropeismo americano abbia origini antiche.
"Noi ragioniamo di centocinquant'anni di Italia unita, ma non dobbiamo perdere di vista che l'unità italiana ha conosciuto tre fondazioni. Alla prima fondazione, che ebbe luogo a conclusione del Risorgimento e diede vita nel 1861 allo Stato monarchico liberale, seguirono la seconda nel 1922-25 con la formazione dello Stato fascista e la terza nel 1945-1947, dopo la fine della guerra civile e della Resistenza, che costituì lo Stato democratico repubblicano. Fondazioni di 'tre Italie' prodotte una dalla fine degli antichi Stati e le altre due da crolli o crisi di regime. Non deve sfuggire che ciascuno di questi eventi segnò la nascita di una 'nuova Italia', con un inevitabile lascito di laceranti discordie. L'Italia del Risorgimento si ammantò della virtù di avere finalmente ridato alla penisola l'indipendenza perduta nel Cinquecento, di aver posto fine alla secolare frammentazione e congiunto lo Stato nuovo agli Stati liberali d'Europa, con l'estensione delle istituzioni del Piemonte al resto del paese. Poi il fascismo si assegnò la gloria di rappresentare un secondo Risorgimento, che faceva rivivere l'anima migliore del primo e dava vigore a quell'unità nazionale che prima era propriamente mancata: un'unità eretta sulla fine degli antagonismi politici e sociali, sulla raggiunta concordia tra capitale e lavoro, sul governo di un capo infallibile, sulla riconciliazione tra lo Stato e la Chiesa e sull'ingresso della nuova Italia nel novero delle grandi potenze d'Europa".
L'Italia è stata caratterizzata per secoli da accentuate contrapposizioni, che ne hanno fatto un "paese diviso" per unanime riconoscimento. Molti altri paesi del mondo occidentale hanno conosciuto nella loro storia profonde divisioni interne, ma in nessuno di essi, secondo l'autore, questo tratto si è presentato e riprodotto in maniera tanto continuativa. L'Italia, per ricorrere a un'abusata ma sempre significativa metafora, è rimasta nei secoli la terra dei Guelfi e dei Ghibellini. Le tre Italie susseguitesi dopo il 1861, quella liberale monarchica, quella fascista e quella democratica repubblicana, hanno avuto tutte l'ambizione di dare allo Stato una base di consenso capace di saldare attorno alle istituzioni una coscienza unitaria stretta da un vincolo comune che andasse al di là delle inevitabili, necessarie differenze ideologiche, culturali, politiche e sociali. Ma il progetto, nella tesi di Salvatori, è sistematicamente fallito, con la conseguenza che la dialettica tra le forze di governo e le forze di opposizione si è configurata in modo tale da produrre l'atavica "anomalia italiana", segnata da una politica altamente conflittuale, dal contrasto tra il senso dell'etica pubblica e della legalità e la sua negazione, dalle culture della contrapposizione. L'insieme dei saggi qui proposti mettono a fuoco lo svolgersi della dialettica "amico-nemico" nelle varie fasi della storia politica dello Stato unitario, evidenziando in che modo questa si sia riflessa nella storiografia italiana.
Per capire la crisi di sistema che sta vivendo il nostro Paese occorre andare indietro nel tempo, fino alle origini, ai nodi irrisolti dell'intera vicenda storica nazionale. La guerra civile ideologica che ha da sempre inquinato il rapporto tra forze di governo e di opposizione - dall'Italia liberale a quella repubblicana - ha impedito il normale avvicendamento tra due schieramenti stabili e la reciproca legittimazione dei partiti, cosicché il cambiamento è passato attraverso traumatiche crisi di regime. Anche il primo esempio di alternanza di governo, che ha posto fine al ciclo storico dei regimi bloccati ,è avvenuto solo nel segno di una profonda crisi di sistema, crisi che si ripete oggi, a distanza di vent'anni, con le crepe che si sono aperte nel fragile e rissoso bipolarismo sorto dalle elezioni del 1994.
In tutti i tempi è stato comune destino dei grandi leader essere al tempo stesso osannati e violentemente denigrati. Si pensi a Giulio Cesare, Cromwell, Robespierre, Napoleone, Bismarck, Lenin, Stalin, Hit ler; per l'Italia, a Cavour, Crispi, Mussolini e De Gasperi. E, nel nostro caso, a Giovanni Giolitti, uno dei maggiori statisti della storia dello Stato unitario. Ripetutamente presidente del Consiglio tra il 1892 e il 1921, egli ha lasciato un'orma profonda nel nostro paese. Ebbe la soddisfazione di vedere l'Italia conoscere uno sviluppo che è stato definito «una primavera economica». Eppure, la sua figura ha suscitato polemiche accesissime, generando immagini estremamente controverse, tanto da indurre Massimo L. Salvadori a parlare di una delle grandi «polemiche» del Novecento italiano.Giolitti ha diviso i suoi contemporanei e gli storici in correnti opposte: da un lato i suoi intransigenti detrattori, fra i quali spiccano Salvemini, Sturzo, Einaudi, Gramsci, che lo definirono cinico, corruttore, dittatore, un inveterato nemico del Mezzogiorno, il «ministro della mala vita», il «Giovanni Battista del fascismo», i nazionalisti che lo accusarono di essere un «criptosocialista».
Questo libro è una vera e propria apologia della storia, una difesa appassionata dello studio di una disciplina, che, seguendo una tendenza sempre più affermatasi nelle scuole di ogni ordine e grado, oggi viene spesso posta in secondo piano rispetto alle scienze fisiche e naturali. Sennonché, sottolinea Massimo L. Salvadori, per quanto le scienze e la tecnologia occupino un'importanza che cresce in modo esponenziale nel mondo attuale, l'utilizzazione in senso positivo o negativo degli straordinari strumenti che esse forniscono dipende dalle scelte compiute in primo luogo dai gruppi dirigenti cui i cittadini affidano il potere. Infatti, la qualità di queste scelte è in indissolubile rapporto con i tipi di cultura, gli orientamenti morali, politici e civili. Qui entra in ballo l'importanza della formazione intellettuale che sta alla base della politica e dell'economia nelle varie forme di società. Le persone sono quel che sono, pensano quel che pensano, amano quel che amano, avversano quel che avversano sotto l'influenza delle molteplici e contrastanti eredità che trasmette loro il passato.
Sulla scia dei numerosi storici che nel corso dei secoli, con esiti naturalmente assai diversi, si sono posti lo scopo di scrivere la storia del proprio tempo, Massimo L. Salvadori in questo saggio ricostruisce le vicende che dall'avvento del governo di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e della presidenza di Ronald Reagan negli Stati Uniti e dal profilarsi della crisi strutturale culminata nel crollo dell'impero guidato dall'Unione Sovietica giungono ai giorni nostri. Un quarantennio che, in un quadro segnato dalle accelerate trasformazioni provocate sia dagli straordinari progressi scientifici e tecnologici sia dalla globalizzazione dell'economia, ha dato un nuovo volto alla storia del mondo. Caratteristica precipua del secolo XX è stata infatti la rapidità dei mutamenti in ogni settore dell'attività umana: senza precedenti per quantità e qualità. Si è assistito a radicali sconvolgimenti, poi a guerre e rivoluzioni che hanno ridisegnato in maniera profonda la mappa geopolitica, la dislocazione della potenza politica, economica, militare degli Stati e delle alleanze tra di essi. La fine della guerra fredda aveva suscitato negli Stati Uniti l'illusione che al grande scontro epocale potesse seguire una globalizzazione politica posta sotto il segno della democrazia liberale e da una globalizzazione economica ispirata ai principî del capitalismo, entrambe sotto la tutela di quella che nell'ultimo decennio del secolo si presentava come l'unica superpotenza. Ma la «globalizzazione democratica» ha fallito, e anche quella economica, dopo un primo periodo di successo, è entrata in una fase involutiva. Un grande libro di scenario, necessario più che mai in un momento come quello attuale, per comprendere come le vicende geopolitiche degli ultimi quarant'anni abbiano condotto a una nuova recrudescenza dello scontro tra due blocchi, e come l'Europa abbia in larga parte mancato la sua funzione storica di unione e di pace.
Un unico modello, il Santo Sepolcro, cuore dell'ecumene cristiana, moltiplicato in centinaia di repliche diverse le une dalle altre, sparse in Europa, nei paesi mediterranei, in Africa. Un caleidoscopio di forme, di strutture, di spazi costruiti per riti e celebrazioni che vengono ripetuti inalterati nell'impostazione a rinnovare un solo mistero, eppure sono variati nel tempo secondo le trasformazioni della Chiesa e delle chiese. L'exemplum di Gerusalemme e i simulacra costruiti nel mondo tra l'età tardoantica e i primi secoli dopo il Mille sono legati da rapporti che non sono solo devozionali, ma formano un fitto tessuto di relazioni culturali, figurative, ecclesiali, politiche. Vi si intrecciano immagini del cosmo, proiezioni ideali, forme del disegno, committenze di vescovi, ordini religiosi e ordini militari, esperienze di pellegrinaggio, memorie e celebrazioni di spedizioni armate. Lo stesso prototipo è cambiato nel tempo, edificato, distrutto e ricostruito più volte. Sono mutate le percezioni che ne hanno riportato i pellegrini e sono variate le sue copie, in un processo plurimo scandito da eventi singoli, rielaborazioni locali e percorsi artistici di lungo periodo. Buona parte della società medievale finisce, così, per riflettersi nella relazione profonda tra la tomba vuota di Cristo e le sue innumerevoli riproduzioni, che sono per noi oggi altrettanti specchi, talvolta deformati e frammentati, di un mondo straordinariamente ricco di scambi e di contaminazioni.
Il secolo che si è appena concluso è oggetto di un vivace, a volte aspro, dibattito tra gli storici. La sua eredità è controversa, la memoria ancora divisa. Il volume di Mariuccia Salvati è un'agile guida alle idee, alle passioni e alle diverse interpretazioni del Novecento. Mariuccia Salvati insegna Storia contemporanea all'Università di Bologna.
Perché leggere la costituzione italiana? E perché viene così spesso evocata nei dibattiti politici e citata sulle pagine dei giornali, a volte senza neanche essere ben conosciuta? Che cosa hanno di speciale i dodici articoli con cui si apre? I principi e i diritti fondamentali che vi sono enunciati sono viva realtà? Nel settantesimo anniversario della sua nascita, una serie di brevi volumi illustra la straordinaria ricchezza di motivi e implicazioni racchiusa nei principi fondamentali della nostra costituzione ricostruendone la genesi ideale, ripercorrendo le tensioni del dibattito costituente, interrogandosi sulla loro effettiva applicazione e attualità. Come mai il diritto al lavoro compare tra i principi fondamentali della nostra costituzione, mentre nelle altre costituzioni europee è posto nella sezione dei rapporti economici? La risposta a questa domanda va cercata ricostruendo il dibattito e il ruolo delle diverse personalità dei protagonisti dell'assemblea costituente, e analizzando le culture politiche che in essa hanno prevalso, sintesi delle battaglie per il diritto del lavoro che si sono combattute in Europa tra settecento e novecento. Di fronte alle difficoltà attuali appare quantomai utile conoscere la genesi di questo principio e il tentativo della sua attuazione nelle conquiste della giuslavoristica italiana in materia di diritti del cittadino-lavoratore.
La fine del secondo conflitto mondiale lascia sullo scenario europeo, segnato dai lutti e dalle distruzioni, una moltitudine di persone che nel corso della guerra sono state deportate o hanno dovuto abbandonare il proprio paese. Nella sola Germania occidentale sono circa sette milioni. Frutto di un'approfondita ricerca, il volume riporta alla luce questa storia largamente dimenticata. L'autrice espone in primo luogo le politiche adottate dagli Alleati per risolvere la questione delle "displaced persons", dai primi piani di rimpatrio ai successivi programmi di emigrazione nei paesi occidentali. Ricostruisce poi la quotidianità dei campi di raccolta, attraverso le storie di uomini, donne e bambini che hanno alle spalle l'esperienza della deportazione o della fuga, vivono la precarietà del presente e devono confrontarsi con le incertezze del futuro. Nel concreto di quell'esperienza umanitaria trova origine l'approccio delle società contemporanee alla questione dei profughi e vengono poste le basi del regime internazionale per i rifugiati ancora oggi vigente.