
L'"arcipelago Gulag", l'ampia e fitta rete di campi di concentramento sovietici, è affiorato alla coscienza del mondo solo nel 1973, con la pubblicazione del romanzo autobiografico di Aleksandr Solzenicyn. Da allora, e in particolare dopo il crollo dell'Unione Sovietica, documenti a lungo tenuti nascosti hanno gettato nuova luce sul ruolo svolto dal Gulag: oltra a essere lo strumento repressivo di ogni forma di opposizione politica e sociale, esso fu l'arma segreta di Stalin, che fece del lavoro coatto la base dell'industrializzazione del paese. In questo libro Anne Applebaum ricostruisce il sistema sovietico dei campi, dalla sua nascita subito dopo la Rivoluzione d'ottobre al suo smantellamento negli anni Ottanta.
Alla fine della seconda guerra mondiale l'Unione Sovietica si trovò a controllare gran parte dell'Europa orientale, e i suoi leader, che avevano instaurato con pugno di ferro nelle varie regioni dell'ex impero zarista un regime totalitario, non esitarono a imporlo anche ai paesi europei caduti sotto la loro occupazione. Così il tallone sovietico subentrò a quello nazifascista, e in un arco di tempo straordinariamente breve l'Est europeo venne isolato dietro una "cortina di ferro" in un senso ben più che metaforico: a separarlo dall'Occidente erano barriere e recinzioni di filo spinato sorvegliate da uomini armati. E nel 1961, l'anno in cui fu eretto il Muro di Berlino, si sarebbe detto che quel possente sbarramento fosse destinato a durare per sempre. Anne Applebaum ricostruisce in dettaglio ogni fase dell'implacabile processo di stalinizzazione che travolse Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Germania orientale, Romania, Bulgaria, Albania e Iugoslavia, e che si realizzò attraverso il sistematico annientamento delle loro istituzioni: partiti politici, Chiesa, media e organizzazioni giovanili furono ben presto liquidati o messi al bando. In quest'opera di disarticolazione della classe politica e della società civile ebbe un ruolo fondamentale, accuratamente studiato già negli anni del conflitto, la polizia segreta, abile e spietata nell'individuare e soffocare ogni forma di opposizione o di potenziale dissenso.
Nel 1929 la politica di collettivizzazione agricola forzata promossa da Stalin costrinse milioni di contadini russi a consegnare allo Stato bestiame, attrezzi e ogni scorta alimentare fino all'ultimo chicco di grano. È l'inizio di una catastrofica carestia, la più letale nella storia d'Europa, che causò, tra il 1931 e 1933, oltre 5 milioni di vittime, in gran parte nella Repubblica socialista sovietica di Ucraina, una delle più popolose dell'URSS. Un vero e proprio «sterminio per fame» (in ucraino, «Holodomor»), frutto della criminale operazione architettata dal governo di Mosca e attuata con particolare ferocia nel «granaio d'Europa»: la proprietà collettiva era infatti uno dei pilastri del marxismo-leninismo professato dal Partito comunista sovietico e la campagna doveva fornire ogni possibile risorsa alla crescita delle città e dell'apparato industriale e militare del Paese. Dell'erronea valutazione del limite invalicabile oltre il quale il contributo delle campagne si sarebbe capovolto in un'immane strage di vite umane, Anne Applebaum incolpa l'arbitro assoluto di ogni decisione, Stalin, sordo alle suppliche dei dirigenti comunisti ucraini e ai circostanziati rapporti della polizia segreta che lo informavano della situazione sempre più critica della popolazione. E spiega l'accanimento contro il popolo ucraino e la rancorosa rivalsa nei confronti di coloro che, durante la guerra civile degli anni 1918-1920, avevano avanzato pretese d'indipendenza proclamando l'effimera Repubblica nazionale ucraina, fautrice di una rinascita culturale e linguistica autoctona, tornata minacciosamente in auge nei primi anni Trenta in quella terra da sempre contesa. Di questa tragedia, occultata per decenni in Unione Sovietica e sepolta altrove sotto una cortina di silenzio, Anne Applebaum offre una ricostruzione vivida e impressionante, rigorosamente basata su documenti governativi desecretati e testimonianze inedite dei sopravvissuti. Una crudele verità storica in cui sono visibili sottotraccia le radici dell'odierno conflitto armato che oppone l'Ucraina, in cerca della propria identità di nazione, e la Russia; e dietro cui trapelano, nell'atteggiamento dei «nuovi zar» del Cremlino di allora e di oggi, gli inquietanti sintomi di una comune volontà genocidaria.
Dalla scomparsa dell'Unione Sovietica, la Federazione Russa s'interroga sulla propria posizione nel mondo, tra la nostalgia del passato imperiale e il ridimensionamento della nuova Russia. Le risposte a questo interrogativo sono state diverse negli anni, riflettendo, da un lato, la situazione politica ed economica interna e, dall'altro, i mutamenti del contesto strategico globale. Si è passati così dall'«occidentalizzazione» della presidenza Elstin al cambio di rotta di Putin, con il recupero del ruolo di potenza euroasiatica, la centralizzazione e verticalizzazione del potere e la promozione dei valori considerati permanenti della civiltà russa. Questo saggio, a cura di ISPI, analizza i vari aspetti storici, economici, politici di questi passaggi cruciali, fornendo una mappa fondamentale per comprendere le complesse dinamiche di un attore di primaria importanza nell'ordine mondiale degli ultimi decenni.
La notte del 24 aprile 1915 iniziava l'orrendo sterminio del popolo armeno nei territori dell'Impero ottomano. In un solo mese, più di mille intellettuali (giornalisti, scrittori, poeti, politici) furono deportati verso l'interno dell'Anatolia e massacrati. A costoro si unirono altre centinaia di migliaia di persone uccise con ferocia inaudita. Alla fine gli armeni cristiani "martirizzati" furono circa un milione e mezzo. A distanza di cento anni da quel genocidio parlano da Yerevan gli ultimi sopravvissuti di una tragedia che ancora oggi la Turchia si rifiuta di riconoscere. Oltre alle eccezionali e uniche testimonianze, il libro descrive il terrificante passato facendo i dovuti parallelismi con quanto accade ora in Medio Oriente, in cui il governo di Ankara, ancora oggi, persegue una politica brutale e finanzia movimenti come l'Isis. E così gli eccidi di ieri sono attualizzati dalla incredibile disinvoltura dei vertici dello stato turco che finanziano e foraggiano, sotto gli occhi di tutti, i tagliatori di teste, compresi quelli che massacrano gli armeni di Aleppo e della Siria. Un libro che occorre leggere per non dimenticare e, soprattutto, per non ripetere gli stessi errori.
Con l'entusiasmo, l'audacia e l'erudizione che lo distinguono, Daniel Arasse invita il lettore a una carrellata sulla storia della pittura lunga sei secoli, dall'invenzione della prospettiva sino alla scomparsa della figura. Evocando sia le grandi tematiche - la prospettiva, l'Annunciazione, il dettaglio, le fortune e le sfortune dell'anacronismo, il restauro e le condizioni di visibilità e di esposizione - sia quadri e pittori particolari, Arasse fa rivivere con intelligenza e fervore diversi momenti chiave della storia dell'arte: il Rinascimento italiano, il manierismo, Vermeer, Ingres, Manet. La sua analisi si nutre di esempi concreti - La Madonna Sistina di Raffaello, La Gioconda, la Camera degli sposi di Mantegna, Il chiavistello di Fragonard - e si conclude toccando alcuni aspetti dell'arte contemporanea. Il lettore ritroverà il gusto di vedere con occhi nuovi celebri momenti della pittura, grazie a un approccio sensibile e aperto. Prefazioni di Bernard Comment e Catherine Bérard.
Che cosa si intende per storia culturale? Un campo d'indagine fra i tanti oppure un modo diverso di leggere il passato? Il volume rintraccia i sentieri sin qui percorsi da questo particolare approccio storiografico, passando in rassegna sia la varietà delle forme che di volta in volta ha assunto (storia di idee e concetti, di mentalità, di discorsi e rappresentazioni), sia il ventaglio dei fenomeni che ha permesso di mettere in luce (dal corpo e dalla sessualità alle emozioni, alla cultura materiale e ai consumi, alle forme e ai mezzi di comunicazione).