
Il volume ripercorre la storia dell'Anci dal 1901 al 1924, evidenziando il grande lavoro svolto da Luigi Sturzo a favore dell'Associazione (di cui fu Vice Presidente per 9 anni), pur fra i tanti impegni da lui presi a livello locale e nazionale. L'appendice riporta i commenti e le relazioni di Luigi Sturzo ad alcuni Congressi dell'Anci.
Agli albori della Seconda Repubblica era radicata la convinzione di vivere una svolta epocale: dopo la "democrazia bloccata" sarebbe arrivata la "democrazia dell'alternanza", dopo la "repubblica dei partiti" la "repubblica dei cittadini". Cosi non è stato. A vent'anni di distanza scopriamo che la democrazia non si è affatto compiuta, che la corruzione non è stata debellata, che la crescita si è addirittura rivoltata in recessione. Cosa non ha funzionato? Per rispondere a questa domanda - sostiene Roberto Chiarini - è utile tornare alle origini della Repubblica, alla ricerca di quei tratti genetici che, se nell'immediato hanno consentito di creare dal nulla le basi di una democrazia industriale di massa, nel lungo periodo ne hanno fatto emergere gravi disfunzioni. Il libro si sofferma sulla nascita della nostra democrazia, mettendone in evidenza alcuni tratti originali. Primo: manca da sempre un "accordo sui fondamenti", per cui il gioco politico si sviluppa costretto tra due opzioni delegittimanti estreme, l'antifascismo e l'anticomunismo. Secondo: destra e sinistra sono state (a diverso titolo e con modalità differenti) sì protagoniste, ma incapaci di avanzare una propria candidatura autonoma alla guida del Paese. Terzo: resiste nel tempo una difficoltà strutturale a risolvere la stridente asimmetria esistente tra "paese reale" e "paese legale".
È difficile trovare fasi della nostra storia così conflittuali, anche nella memoria, come la guerra civile che ha visto fronteggiarsi tra il 1943 e il 1945 gli irriducibili del fascismo e i partigiani, i "ribelli dell'onore" e i "ribelli della libertà". La lacerazione consumatasi in quegli anni si è perpetuata ben oltre la rinascita democratica. Non solo per le ferite - mai davvero rimarginate - riportate dai reduci degli opposti fronti, ma anche per la mancata elaborazione di una memoria condivisa della lotta di Liberazione, pur se elevata a evento-mito fondativo dell'identità repubblicana. È da questa premessa che Roberto Chiarini muove per illustrare la storia della Repubblica di Salò. Del suo esercito dissanguato dalle continue diserzioni e delle sue formazioni di volontari decisi a tutto. Della sua pretesa di fungere da "scudo" contro l'occupante nazista e della sua determinazione a essere una "spada" contro i partigiani. Della sua velleità di attuare una "rivoluzione sociale" e della sua responsabilità di esercitare una violenza sanguinaria, in particolare contro gli ebrei. L'autore affronta anche il tema cruciale della memoria divisa che di quegli anni hanno elaborato nostalgici e antifascisti e del conseguente impatto da essa esercitato sulla vita della Repubblica. L'indagine è stata condotta senza lasciar spazio a facili amnesie e senza indulgere ad acrimoniosi risentimenti di parte, senza concedere colpevoli sconti e senza emettere sbrigative sentenze.
La Primavera di Praga rivela come la contraddizione fra libertà e ideologia non può non emergere dove l'uomo guarda con realismo alla sua dignità e al suo compito storico. «La Primavera è stata vista come lo scontro fra quelli che volevano conservare il sistema così com'era e quelli che lo volevano riformare. Così facendo si dimentica che questo scontro era solo l'ultimo atto di un lungo dramma condotto nell'ambito dello spirito e della coscienza della società. All'inizio di questo dramma ci furono da qualche parte degli individui che anche nei momenti più duri riuscirono a vivere nella verità. Il tentativo di una riforma politica non fu la causa del risveglio della società, ma il suo esito ultimo». V. Havel Antologia di documenti realizzata in occasione della mostra presentata alla XXIX edizione del Meeting per l'amicizia fra i popoli di Rimini.
L'11 settembre 2001 è cominciata una guerra che non ha precedenti nella storia dell'uomo. E' lo stadio finale di quella "postmodernità" in cui abbiamo creduto di vivere. Questa guerra è l'ultima fase della globalizzazione americana, l'ultima sua conseguenza. Non è una guerra per il controllo delle risorse e non è neppure un'operazione per l'estensione del controllo geopolitico. Queste erano le caratteristiche delle guerre precedenti, condotte da potenze economiche e militari in lotta tra loro. Adesso non ci sono più potenze, poiché ce ne è una sola. Questa è una guerra per il dominio mondiale. C'è però un interrogativo aperto: questa guerra si può anche perdere.
"Storia e cultura della Scandinavia" presenta un ritratto del mondo scandinavo come una grande regione culturale prima che geografica. Opera unica nel suo genere, risultato di lunghi anni di ricerche, il testo attraversa la storia della regione e dei popoli, le loro espressioni sociali e religiose, gli sviluppi politici ed economici seguendo il reale percorso che, al di là di preconcetti e stereotipi, ha accompagnato la formazione dei moderni Stati nordici. I quali, pur presentando le caratteristiche di quella che è solitamente intesa come comunità scandinava, hanno avuto una storia propria, che non solo ne ha definito i tratti distintivi, ma nel corso dei secoli ha dato luogo a guerre, rivalità e rappresaglie. E tuttavia questo lavoro mostra al contempo come si sia giunti all'attuale clima di cooperazione e alla considerazione di cui essi godono come modelli di democrazia, senza dimenticare di sottolineare il contributo che possono portare all'attuale mondo globalizzato. Il volume, arricchito da illustrazioni, affianca alla trattazione storica, momenti di approfondimento culturale, così come citazioni di testi originali che offrono un approccio diretto a diversi e significativi stadi nello sviluppo di Paesi che la geografia ha relegato all'estremo Nord, ma che da sempre sono interlocutori e protagonisti di primo piano nello scenario della vecchia Europa.
In un'opera scritta da un frate milanese del Trecento, Galvano Fiamma, si nasconde una breve menzione di una terra chiamata Marckalada, situata a ovest della Groenlandia. I marinai che viaggiano per i mari del Nord ne parlano come di una terra ricca di alberi e animali, dove si trovano grandi edifici e vivono dei giganti. È una notizia sensazionale: la prima menzione del continente americano nell'area mediterranea, un secolo e mezzo prima del viaggio di Colombo. Ma chi è Galvano Fiamma e da dove ricava queste informazioni? Cosa si sapeva davvero in Italia delle regioni al di là dell'oceano? Per rispondere a queste domande sarà necessario interrogare molti suggestivi personaggi: gli esploratori vichinghi che dall'Islanda approdarono sulle coste americane; il prete del porto di Genova, che tracciava carte geografiche; i mercanti che dal Mediterraneo si recavano al Nord per acquistare pellicce e uccelli da preda; gli imbarcati sulle galee genovesi scomparse nell'Atlantico mentre cercavano di raggiungere l'India navigando verso ovest. Il risultato è una ricerca appassionante come una spy story, una trama internazionale ricca di colpi di scena.
Gloria Ghilanti aveva 12 anni la sera dell'8 settembre 1943 quando a Roma iniziò la guerra di Liberazione nazionale e i 271 giorni dell'occupazione nazista nella città. Bambina intelligente e sin troppo vivace era figlia di un giornalista antifascista che aveva già scontato due anni di confino e faceva parte del gruppo dirigente del Movimento Comunista d'Italia. Gloria tenne un diario di quei giorni e quel diario ha attraversato mezzo secolo per giungere a noi. E' la stessa Gloria a spiegarci perché ha aspettato tanti anni per pubblicare il libro: modestia e convinzione di non aver fatto nulla di eccezionale.
Potremmo disgiungere la nostra identità (personale e geografica) dal cibo che mangiamo? No di certo. E non è forse vero che nel nostro immaginario, quando pensiamo a una civiltà lontana nel tempo o nello spazio, parte dello scenario è costituito da ciò che c'è nel piatto? Una chiave di lettura straordinaria per comprendere un popolo o un'epoca si cela proprio nel modo in cui l'essere umano processa ciò che la natura fornisce, preparandolo, mescolandolo, cuocendolo, conservandolo. E offrendolo ai propri ospiti, mentre sullo sfondo la grande Storia accade. Questo volume approccia con metodo scientifico l'arte culinaria medievale: scopriamo tutto ciò che è possibile saperne, e ci viene esposto con rigore da dove sono attinte le informazioni di cui disponiamo. Si parla del legame fra dieta e religione (a cominciare dai giorni di magro, su cui scopriamo curiosità sorprendenti), del diverso apporto della civiltà romana rispetto a quelle identificate come barbariche. Si racconta delle convinzioni mediche del tempo, in fatto di nutrizione. Sono descritte le esigenze delle dispense delle abbazie e di quelle dei signori, considerando anche la disponibilità locale degli ingredienti: vicino al Trasimeno, per esempio, l'anguilla era un ingrediente assai apprezzato. D'altro canto, se la cucina popolare rimase relativamente simile nel corso degli anni, quella nobiliare fu sorprendentemente aperta alle novità e alle contaminazioni, includendo - oltre agli elementi autoctoni - spezie di Paesi lontani acquistate a caro prezzo. Ecco dunque qualcosa che sembra attraversare tutte le epoche: l'idea che la propria tavola debba riflettere lo status, l'appartenenza a un ceto o a una categoria di persone. "La storia dell'alimentazione è storia culturale: storia di come l'uomo abbia definito sé stesso e il mondo che lo circonda in base al cibo, alla sua preparazione, ai complessi rituali con forte valenza sociale e culturale, nonché religiosa, che definiscono il sistema alimentare alla base di numerose culture".
Tra il 1404 e il 1421 Brescia fu capitale di un piccolo stato retto da Pandolfo III Malatesta, esponente dell'antica famiglia riminese e signore di Fano. Dopo aver ricevuto in pegno la città dalla duchessa Caterina Visconti, il Malatesta approfittò della grave crisi in cui era piombato il ducato di Milano ed estese temporaneamente il suo dominio a Bergamo e a Lecco, diventando, per alcuni anni, uno dei protagonisti dei conflitti attraverso i quali si precisò meglio la nuova geografia degli stati territoriali del Nord e del Centro Italia. In questo volume si ricostruisce a più voci la storia della dominazione malatestiana tra la Lombardia e l'Italia centrale. In particolare l'attenzione verte sulla capitale, Brescia, una delle maggiori e delle più ricche città lombarde: un centro urbano e un territorio che hanno dimostrato di possedere delle importanti potenzialità agrarie, commerciali e manifatturiere, soprattutto nei settori tessile e metallurgico. Condotti a partire da ricerche originali e innovative, i contributi raccolti permettono di conoscere meglio un periodo e una dominazione fino ad ora poco studiati, e toccano questioni come l'assetto del territorio, la delimitazione dei confini e i modi della gestione agraria. Nonostante la precarietà e lo stato di guerra pressoché continuo, la corte malatestiana ebbe un certo splendore e vi confluirono pittori, artisti, letterati e musici, la cui attività è qui studiata, principalmente, grazie ai ricchi registri contabili.
Per un quarto di secolo (1929-1953) Iosif Stalin è stato il padrone assoluto dell'Unione Sovietica. Dall'ufficio al Cremlino, o dalle dacie fuori Mosca dove spesso risiedeva, il dittatore gestiva con pugno di ferro ogni aspetto della vita sociale, sulla base di un'interpretazione estremistica e ultrasemplificata del marxismo. Ossessionato dall'idea di "nemici interni" pronti a tradirlo, Stalin instaurò un regime di terrore che non permise mai a nessuno dei suoi sudditi di sentirsi al sicuro. Si calcola che ben 60 milioni di persone incolpevoli abbiano subito i tragici effetti della discriminazione e repressione, fino alla pena capitale. Eppure, oggi in Russia sembra rifiorire il mito di Stalin quale figura storicamente "necessaria", che ha avuto quantomeno il merito di trasformare un paese arretrato in una superpotenza industriale in grado di affrontare e sconfiggere Hitler. Oleg Chlevnjuk, considerato il maggior esperto mondiale di Stalin e del suo tempo, si oppone a tale tendenza "giustificazionista" sfatando vari miti sul despota sovietico, da quelli celebrativi che lo dipingono come "amministratore eccelso", "stratega militare lungimirante", "vittima di ambiziosi e avidi collaboratori" agli altri, opposti, che lo vorrebbero "traditore del lascito di Lenin", o addirittura, e unicamente, "belva assetata di sangue" e "criminale sadico e paranoico".