
Penultima bontà: perché quell'aggettivo? Perché 'penultima'? Domanda legittima, persino scontata, di fronte al titolo di questo libro del filosofo catalano Esquirol, la cui risposta si snoda lungo pagine di parole semplici e dense insieme, calde e profondamente vere, scritte con finezza di tessitura letteraria e originalità di pensiero. Abbiamo davvero bisogno di uscire da quell'orizzonte di senso che ingabbia la vita umana tra un inizio perfetto e perduto e una fine ineluttabile e definitiva, perché quello che avvertiamo, con la certezza di un'esperienza che ci percorre continuamente dalla pelle al cuore mentre viviamo qui e ora, è che il mistero della vita non risiede in un paradiso impossibile da cui siamo stati cacciati né nell'ultimità della morte, ma nella penultimità, appunto, della vita che vive e si sente vivere. Questa, ci dice qui Esquirol dialogando con il libro della Genesi, con Platone, con san Francesco e Zarathustra/Nietzsche, con Heidegger, Simone Weil e tante altre voci del pensiero filosofico, è la caratteristica propria dell'umano: sentirsi vivere, essere coscienti di un'esperienza vitale che non si fa rinchiudere, ma vibra e pensa e ama scoprendosi imperfetta, spesso ferita, mai compiuta e sempre penultima, eppure proprio per questo capace di riconoscere la stessa condizione negli altri e di creare comunità. Una comunità fraterna che vive ai 'margini', per usare la bella espressione con cui Esquirol indica il quotidiano, fatto di crepe, di deserto, di fatica, ma anche di prossimità, di resistenza, e soprattutto di cura e di gratitudine.
Sulla scena della storia, e soprattutto in questo nostro tempo disincantato e disorientato, sono tanti i momenti di buio che fanno parlare di morte di Dio, di silenzio divino, di notte della fede. Auschwitz, Hiroshima, i gulag, il terrorismo, la pandemia, ma anche l'esperienza dei dolori personali, l'angoscia del vivere quando il caos e l'assurdità sembrano avere la prima e l'ultima parola: tutto questo può portare a concludere che Dio sia lontano, nascosto. O che non esista. E, d'altra parte, le certezze delle routines spirituali, la verità rigida dei fondamentalismi, ma anche l'entusiasmo di una fede troppo facile finiscono per sfociare in una chiusura che impedisce di assaporare un vero incontro con Dio e con gli altri che lo cercano magari senza esserne consapevoli. Di fronte a questo stallo oggi più che mai evidente, Tomás Halík torna a invitarci a un cambio di prospettiva. Dio è mistero, e sia l'ateismo sia la fede intransigente mostrano l'impazienza di risolverlo. Troppa impazienza. Perché di fronte a un mistero occorre soffermarsi sulla soglia, serbarlo nel cuore come Maria nel Vangelo, attraversare il deserto e l'oscurità come Israele nell'esodo. Occorre avere «pazienza con Dio», che ci viene incontro nell'attesa, perché Lui per primo è paziente con noi, crede in noi. È qui che Halík ci parla di Zaccheo, il piccolo pubblicano che cerca confusamente Gesù ed è sorpreso dalla fiducia del Signore che lo chiama per nome e si invita alla sua tavola. E ci chiede di riconoscere gli Zacchei di oggi, quei 'cercatori' non credenti o credenti in un modo diverso che come noi sono in viaggio, qualcosa li attira, accanto a loro passa qualcosa di fondamentale. Forse dimostreremo allora la vicinanza di Dio cercando insieme a chi cerca, interrogandoci insieme a chi domanda, facendo di questi Zacchei i nostri prossimi. Uscendo dalle porte chiuse delle nostre certezze per andare insieme dove Dio ci precede e ci aspetta.
Fare l'elogio del rischio in un'epoca che cerca prima di tutto la sicurezza, l'azzeramento dell'incertezza e ci inonda di previsioni, calcoli delle probabilità, scenari politici e finanziari, valutazioni psichiche, sondaggi...sembra un'impresa impossibile, controcorrente, destabilizzante. Ma proprio questo fa Anne Dufourmantelle: rimette, si può dire, le cose a posto, restituendo al rischio la sua valenza di occasione per riattivare la libertà di decidere, per aprire una linea d'orizzonte nuova e trovare una dimensione del tempo e della relazione non più schiava del controllo e della dipendenza. Perché il rischio di cui parla in questo libro non è certo la temerarietà, la scossa adrenalinica di chi gioca a dadi con la vita, ma, nelle sue stesse parole, una «piccola musica», un «meccanismo segreto» in grado di condurci davanti alla notte, all'ignoto, al desiderio, per riconquistare la vita vera. È il rischio di affrontare e riconoscere le nostre «passioni negative», le esperienze critiche che ritmano la nostra esistenza, di fronte alle quali di solito indietreggiamo, e un po' moriamo. Perché spesso, per volerla proteggere troppo, finiamo per perderla, la vita. Quella vera, ricca di senso, di amore, di gioia. In brevi capitoli, con una scrittura che è la sua cifra personale, poetica e profonda, lancinante e delicata, Anne Dufourmantelle affronta «crisi» tra le più consuete e le più impegnative - la tristezza e la paura, la dipendenza, i traumi familiari e l'omologazione sociale, la solitudine e l'abbandono, i rimossi, le nevrosi - ben consapevole che superarle positivamente non è affatto facile. Ma, alla fine, prendersi il rischio della libertà interiore è prendersi il rischio di amare e di amarsi, di assaporare la vita come un dono quotidiano e aperto all'incognito, all'insperato.
Domande all'apparenza semplici quali «come va?» o «da dove vieni?» o «come ti chiami?», se colte nel loro senso più profondo, ci conducono al centro della nostra anima, là dove - ci spiega il filosofo catalano Josep Maria Esquirol nel saggio Umano più umano - siamo toccati da quattro realtà fondamentali con cui abbiamo a che fare per tutta la nostra esistenza: la vita, la morte, il tu e il mondo. L'incontro con questi «infiniti essenziali» segna una «ferita», un'apertura inesauribile che sottrae a ogni pretesa di autosufficienza e che ci costituisce nella nostra umanità. Imparare a vivere è imparare ad accompagnare queste ferite, non a suturarle. Esse infatti sempre ci sorpassano con il loro eccesso e chiedono la pazienza di continue risposte. Risposte da cercare non nell'oltre postulato dalle odierne tendenze transumanistiche, ma restando dentro questa condizione, intessuta di vulnerabilità e debolezza.
Proveniamo da un lungo periodo storico, quello della modernità, il cui imperativo era realizzare il sogno di un mondo disciplinato dalla ragione, finendo per addomesticare, e spesso negare come fragili e perdenti, l'esperienza del corpo, le pulsioni, i legami affettivi, l'interazione con la natura. Questo sogno dell'onnipotenza della ragione è stato travolto dall'irruzione della pandemia. L'incertezza, la complessità, la fragilità sono tornate con prepotenza nel nostro quotidiano, smascherando l'illusione del percorso moderno. È una presa di coscienza chiamata dal dolore e dalla paura, ma da questa fragilità può emergere qualcosa di nuovo e positivo. La crisi del coronavirus, secondo Benasayag e Cany, può diventare l'evento a partire dal quale immaginare nuovi rapporti di coabitazione tra il pensiero critico e la conoscenza che proviene da quel 'senso comune' che è la trama dinamica all'interno della quale le nostre vite acquistano senso.
La centralità moderna del soggetto ha sigillato la dignità di ogni singolo venire al mondo: umani si nasce. Tale conquista, però, non ha spostato di un millimetro la nostra resa all'insignificanza della destinazione di questo nascere: l'umano è un effetto senza causa adeguata - praticamente un miracolo - ma la sua morte azzera tutto. Insomma, si nasce per niente. Non abbiamo il coraggio di dirlo ai figli, ma ci siamo convinti, dati scientifici alla mano, che il passaggio della nascita non si ripeterà in nessun altro modo. Eppure, nemmeno l'astrofisica, oggi, lo giurerebbe in tribunale. I segnali più antichi dell'ominizzazione della vita della coscienza coincidono con la ritualizzazione della morte come passaggio: come se lo sapessimo da sempre. Il cristianesimo, poi, ha introdotto la generazione e la risurrezione nell'intimità dell'essere divino, aprendovi la destinazione per un'umanità imperfetta. Impensabile anche per la religione più alta: eppure la fede cristiana non si muove da lì. Credenti o non credenti, quanti siamo, abbiamo forse dilapidato l'eredità migliore della nostra storia?
Josep Maria Esquirol è il filosofo della prossimità. Contro il narcisismo e il solipsismo di questi nostri tempi disorientati e confusi, costruisce una riflessione sull'uomo e il mondo utilizzando, come gli è consueto, una metafora efficace: siamo tutti piccole verticalità che restano in piedi l'una grazie all'altra e nel calore della prossimità e della non-indifferenza riusciamo ad avvertire l'infinito che ci attraversa e a trovare la maniera di rispondergli generando legami e senso. Una cosa può avere un ruolo fondamentale nel coltivare questa attitudine alla risposta, nel sostenere ognuno nel proprio cammino verso una vita matura e feconda: è la scuola, intesa non solo come istituzione, ma, nel suo registro più ampio, come luogo in cui si allena l'attenzione alle cose del mondo e agli altri, un luogo dedicato all'insegnare e all'educare nel loro senso originario di indicare, mostrare e aiutare qualcuno a trovare in sé risorse e modi. È questa la 'scuola dell'anima', un'educazione alla cura che può esercitarsi nel luogo concreto di un edificio scolastico, ma che può anche durare tutta la vita, con la porta aperta per tutti e per ogni età. «Andare a scuola. Trovarvi qualcuno che ti aiuta a vedere che puoi, che sei origine. Prestare attenzione alle cose e cominciare a scorgere la profondità del mondo. Diventare manovale del mondo. Sostenere gli altri. Persistere e rispondere alla rivelazione del mondo e della vita. E trovare, così, la buona maniera di vivere».
Molti dei testi che introducono alla filosofia hanno un carattere storico. In questo volume, invece, l'autore segue un percorso tematico, attraverso l'esame e la lettura di diversi nodi concettuali (l'essere e la libertà, il male e la giustizia, la coscienza e la verità) che hanno accompagnato il pensiero dell'uomo attraverso i secoli. Il concetto, in filosofia, è una rappresentazione razionale di una realtà complessa, potenzialmente infinita, e nasce quando si pensa essa nella sua totalità, quando si ragiona secondo il tutto. Questo libro è dunque un approccio all'esercizio del pensiero critico sui temi più importanti della filosofia, per coglierne l'importanza e concettualizzarli, al fine di imparare a ragionare meglio e affinare quegli strumenti necessari a leggere la complessità, argomentando in modo corretto ed efficace il proprio pensiero.
DESCRIZIONE: L'interrogativo sull'uomo è fondamentale per chi voglia comprendere se stesso; esso anzi costituisce un problema di fondo anche per il pensiero filosofico contemporaneo, che cerca di conoscere l'uomo nella sua intima essenza. Oggi più che mai si sente l'esigenza di un'antropologia filosofica; essa richiede il posto che le compete nell'insieme dell'insegnamento e della ricerca, insidiata com'è da pretese egemoniche delle «scienze umane» in senso puramente empirico, da un lato, e contestata dall'altro da alcuni orientamenti esclusivamente fideistici di antropologia teologica.
Questo volume è derivato da corsi di lezione tenuti dall'Autore all'Università di Innsbruck, qui pubblicate in forma ampliata e completa. Il suo primo intento è quindi di servire agli studenti; vuole essere inoltre uno strumento per docenti e quanti lavorano nell'università; infine si rivolge a quella fascia più ampia di persone che cercano un orientamento riguardo al problema della realtà dell'uomo. Il tenore del libro è volutamente di carattere non troppo specialistico, e perciò scritto in maniera leggibile e didatticamente chiara.
COMMENTO: La settima edizione del volume, derivato dai corsi tenuti dall'autore all'Università di Innsbruck, che affronta il problema della realtà dell'uomo, scritto in maniera leggibile e didatticamente chiara.
EMERICH CORETH ha insegnato filosofia presso l'Università di Innsbruck. Tra le sue opere ricordiamo: Grundfragen des menschlichen Daseins, Innsbruck 1956; Metaphysik. Eine methodisch - systematische Grundlegung, Innsbruck 19642; Grundfragen der Hermeneutik, Freiburg im Br. 1969 (alcune tradotte in spagnolo), oltre ai numerosi articoli su ontologia e antropologia in importanti riviste o miscellaneee.
Cela un lato irrazionale il tema dell’immortalità: è la paura della morte alle origini dei culti primitivi, nonché delle religioni classiche e dei monoteismi – ebraismo, cristianesimo, islamismo. Tuttavia è la ragione che ha tradotto quella stessa speranza d’immortalità nel rigore delle categorie filosofiche: a partire da Platone, che nella fine di Socrate elogia l’esercizio filosofico della morte, il tema dell’immortalità è stato diversamente declinato nei grandi sistemi metafisici, cercandone i segni, trovandone le prove.
Il filosofo ebreo-tedesco Moses Mendelssohn nella sua opera Il Fedone, qui proposta in prima edizione italiana a cura di Francesco Tomasoni, riprende le argomentazioni platoniche nutrendole delle riflessioni filosofiche successive per renderle più efficaci, riscrivendo il Fedone in tre dialoghi fra Socrate e i suoi amici affermando l’immaterialità dell’anima.
Lo spirito illuministico che risuona in queste pagine – il tentativo di elevare la figura di Socrate a universale o l’idea di Dio a concetto comune a tutte le culture e le confessioni religiose – destina loro una posterità: non a caso Kant le cita nella Critica della ragion pura. Su un tema tanto scandagliato, questi dialoghi rimangono un classico per la scommessa sulla ragione che vi traluce.