
I più noti sono quello americano, gigantesco, che corre lungo il confine meridionale degli Stati Uniti e quello israeliano che si snoda attraverso la Cisgiordania. Ma di muri ve ne sono molti altri. Il Sud Africa del post-apartheid mantiene una barriera elettrificata di sicurezza lungo il confine con lo Zimbabwe. L'Arabia Saudita ha ultimato la costruzione di una struttura di pilastri in cemento alti più di tre metri sul confine con lo Yemen e sta per iniziare quella di un muro lungo il confine con l'Iraq. L'India ha costruito barriere che "murano fuori" il Pakistan, il Bangladesh e Burma e "murano dentro" il territorio che contende al Kashmir. La Cina sta murando fuori la Corea del Nord, ma anche i nord coreani stanno costruendo un muro, parallelo a un tratto di quello cinese, per tenere fuori la Cina. E altri muri stanno nascendo. Ma perché gli Stati-nazione manifestano una vera e propria passione per la costruzione dei muri? Cosa nasconde quella paradossale, dura, ottusa fisicità dei muri?
Quello di una bimba di due anni che esplora e sovverte il suo ambiente quotidiano è detto gioco, ma che cosa ci autorizza a usare la stessa parola per il calcio o per gli scacchi? E che dire di quanti hanno parlato dell'arte, della letteratura e della filosofia come di sublimi giochi intellettuali? Ermanno Bencivenga si inoltra nel labirinto delle mille accezioni del termine gioco, fra sentieri tortuosi, svolte impreviste e vicoli ciechi.
Facciamo un esempio, pensiamo a quanto spesso è difficile scegliere cosa mangiare in un ristorante cinese, per il semplice fatto che ci sono tantissime opzioni. Ci troveremo davanti a più problemi: il desiderio di fare la scelta ideale, il pensiero di come gli altri giudicheranno la scelta, quali tipi di scelte potrebbero fare gli altri, la sensazione che non vi sia nessuno al quale delegare la decisione, il timore di non poter fare una scelta veramente libera. Siamo incoraggiati da più parti a considerare la nostra vita come un insieme di scelte da fare: dai prodotti sugli scaffali dei supermarket alle nostre carriere professionali, le nostre relazioni e i nostri corpi, tutta la nostra vera identità sembra esistere solo per poter scegliere. Abbiamo fatto propria l'impazienza del capitale. Prevale il desiderio continuo di profitti immediati. Non sono solo le aziende e la finanza che fanno pressione per gestire ogni rischio e massimizzare i profitti. Tutti noi siamo invitati a comportarci come le aziende: fare un piano per gli obiettivi della nostra vita, compiere investimenti a lungo termine, essere flessibili, ristrutturare l'impresa della nostra esistenza, e prendere i rischi necessari per incrementare gli utili. Ma paradossalmente questa apparente libertà di scegliere crea una maggiore ansia, un senso di inadeguatezza e colpa.
"Ci chiediamo se spiegare le cose si avvicini troppo a giustificarle e, se è così, dove dovremmo fermarci. Ci preoccupiamo su come mantenere un impegno di giustizia quando il mondo intero non lo fa. Ci chiediamo quale sia lo scopo di dare senso teorico al mondo quando non possiamo dare un senso alla miseria e al terrore. Possiamo farlo con ironia, asciuttezza o passione, ma in ogni caso troviamo il modo per considerare una parte trascurata del problema come il senso stesso della vita. Concentrarsi su tali questioni non consiste nel sostituire il pensiero critico con il buonismo. Al contrario: i testi qui discussi dovrebbero rivelare che poche cose danno adito a un pensiero di profondità e rigore tali da togliere il fiato e che, soprattutto, danno adito al dialogo, il vero inizio della filosofia": da queste considerazioni prende avvio la riflessione di Susan Neiman sul problema del male. Che senso ha un mondo dove gli innocenti soffrono? Quale fede in un potere divino o nell'umano progresso resiste a non catalogare il male? Il male è forte e radicato o banale e mediocre? Fino a quando l'impossibile può divenire possibile in termini di brutalità e violenza? In un serrato confronto con molte voci della filosofia degli ultimi tre secoli - da Voltaire e Rousseau a Kant, da Leibniz a Schopenhauer, passando per Nietzsche e Freud, fino a giungere ai contemporanei Adorno, Camus, Arendt e Rawls - Susan Neiman dimostra come il male non abbia una essenza costante.
"Per quanto cambi il contesto esterno, per quanto profondamente possano variare i costumi, per quanto la tecnologia possa alterare la nostra percezione dello spazio e portare nelle nostre case fiumi inesauribili di informazioni, per quanto la società si trasformi (in meglio o in peggio non importa) fino a diventare irriconoscibile, il fatto di essere umani ci obbliga a domandarci come dovremmo rapportarci al prossimo. Perché siamo umani grazie al fatto che altri umani ci donano umanità. E che noi gliela restituiamo." A vent'anni dal suo successo editoriale, "Etica per un figlio", Savater torna a parlare con i giovani delle sfide etiche che la società, la politica di oggi e i cambiamenti tecnologici pongono loro: "Dobbiamo essere preparati, per poter essere protagonisti delle nostre vite e non semplici comparse".
Gli animali sono fra noi, la nostra vita è impossibile senza la loro, eppure non riusciamo davvero a vederli. Siamo doppiamente ciechi: non sappiamo quasi niente dell'animalità degli animali non umani e ignoriamo la nostra. Sinora la filosofia si è limitata a tracciare il confine fra loro, gli animali, e noi, gli umani. Non riusciamo a guardarli senza confrontarli con noi: non parlano, non pensano, non ridono e così via. È come cercare di capire l'Homo sapiens chiedendosi se abbia o no piume o branchie. "Filosofia dell'animalità" cerca di immaginare che forma di vita sia quella animale. Ma soprattutto delinea i contorni dell'animalità umana e quel che abbiamo tagliato e tagliamo fuori da noi stessi ogni giorno per poter diventare, e definirci, umani.
Ogni generazione condivide il destino del proprio tempo, recupera il passato e si proietta nel futuro. La morte implica la trasmissione dei beni materiali da una generazione all'altra, ma quanto si riceve in eredità non sono soltanto cose: un intero mondo di simboli e principi si perpetua e si trasforma in questo passaggio secondo la prevalente logica del dono e della restituzione. Se in una delle canoniche divisioni della vita umana - quella tripartita in giovinezza, maturità e vecchiaia - la preferenza era data alla maturità, simbolo di pienezza e culmine dello sviluppo dell'individuo, oggi la gioventù e la vecchiaia si dilatano e la maturità si restringe. I giovani tendono a rimanere più a lungo a casa, i vecchi cercano una seconda giovinezza e restano spesso produttivi dopo il pensionamento. Anche per effetto della crisi del welfare state muta pertanto la trama dell'esistenza individuale e dei rapporti di solidarietà tra le diverse età della vita. Si indeboliscono, in particolare, i legami sociali e la fiducia tra le generazioni. Si potrà introdurre tra loro un nuovo, più equo e lungimirante patto? Quali saranno le modalità di restituzione di risorse materiali e immateriali - cose, sicurezza, affetti, autonomia - alle giovani generazioni?
L'Unione economica e monetaria è stata disegnata secondo le concezioni ordoliberali del patto di stabilità e progresso. È stata pensata come l'elemento portante di una costituzione economica che avrebbe dovuto stimolare, oltrepassando le frontiere nazionali, la libera concorrenza degli attori del mercato e organizzare regole vincolanti per tutti gli Stati membri, neutralizzando le differenze di competitività esistenti nelle varie economie. Sennonché l'ipotesi che bastasse una libera e regolata concorrenza per raggiungere un benessere egualmente distribuito si è rivelata presto sbagliata. Disattese le condizioni ottimali per una moneta unica, le diseguaglianze strutturali delle varie economie nazionali hanno finito per aggravarsi; e continueranno ancora ad aggravarsi, finché la politica europea non la farà finita con il principio per cui ogni Stato nazionale deve decidere sovranamente da solo, senza guardare agli altri Stati associati.
Sembra che il mantra del 'non c'è alternativa' sia destinato a dominare i nostri modi di pensare. Non c'è alternativa alle politiche di austerità, al giudizio dei mercati, alla resa al capitale finanziario globale, alla crescita delle ineguaglianze. Non c'è alternativa alla dissipazione dei nostri diritti e delle nostre opportunità di cittadinanza democratica. In nome di un realismo ipocrita, la dittatura del presente scippa il senso della possibilità e riduce lo spazio dell'immaginazione politica e morale. L'esito è un impressionante aumento della sofferenza sociale. Abbiamo un disperato bisogno di idee nuove e audaci, che siano frutto dell'immaginazione politica e morale. Che non siano confinate allo spazio dei mezzi e chiamino in causa i nostri fini.
Protagonista indiscusso della cultura internazionale, riconosciuto in tutto il mondo per l'originalità delle sue tesi e la finezza della sua scrittura, autore di libri diventati best sellers: è Roland Barthes, uno degli intellettuali più importanti del Novecento. Per primo ha indagato la società dei consumi, dalla moda all'alimentazione, dai viaggi al discorso politico, dall'arte alla fotografia; per primo ha divulgato i principi di una nuova disciplina, la semiologia. Molti suoi concetti si sono rivelati centrali nella cultura contemporanea come le intuizioni sul diffondersi della narrazione e del discorso autobiografico e sentimentale, la centralità del fruitore, la necessità del piacere e di un approccio estetico al mondo quotidiano. La sua opera è un prezioso strumento di rilevazione, una potente messa a fuoco di ciò che oggi va sotto il nome di 'società della comunicazione'.
Quando entriamo in relazione con gli altri, non ne usciamo mai indenni. La nostra affettività si scontra con la realtà del mondo. Con la materialità del nostro corpo. Con la resistenza che gli altri oppongono al nostro desiderio. E il mondo non esita ad addomesticare la vita obbligandoci, molto spesso, a reprimere i nostri sentimenti, a renderci conformi alle aspettative degli altri, a sottometterci al giudizio collettivo. E se la nostra verità fosse proprio lì, in quell'imperfezione che ci portiamo dentro e che cerchiamo a tutti i costi di negare? E se fosse solo nel momento in cui rinunciamo alla perfezione che possiamo vivere pienamente?
Il naturalismo contemporaneo si fonda su una concezione filosofica e metodologica della conoscenza largamente diffusa, che tende ad assimilare la conoscenza umana a un processo naturale, in fondo non dissimile da una reazione chimica, un terremoto o una duplicazione cellulare. Questa visione della conoscenza determina una serie di profonde implicazioni concettuali sul rapporto tra filosofia e scienza, arrivando non di rado a influenzare l'immagine pubblica della scienza stessa in una direzione scientista e antifilosofica. Il volume rappresenta un'introduzione al naturalismo e un'analisi critica dei suoi fondamenti e delle assunzioni fondamentali, mettendone in luce anche le conseguenze fuorvianti e distorsive tanto sull'identità della filosofia e della scienza quanto sul significato culturale dei loro rapporti reciproci.

