
Autore
Frederic Prokosch
Risvolto
«In Voci, il mio libro di memorie, mi sono sforzato di cogliere la verità delle mie varie vittime, così come ho tentato di cogliere la fugace iridescenza delle mie farfalle. Ma, nello sforzarmi di cogliere quella verità, mi sono sorpreso a brancolare in un paesaggio di fantasmi meravigliosi, quel fregio sonnambolico di silhouettes erranti e di sfondi mutevoli che compone il nostro ‘passato’. Per essere veritieri, bisogna sempre mentire un poco, così come per mentire bisogna essere un poco veritieri. E il passato non risuscita che in un chiaroscuro onirico dove gioia e dolore diventano le maschere molteplici che celano i volti e le voci degli anni scomparsi per sempre, con il solo fine di riapparire in un nuovo camuffamento»
Frederic Prokosch
Fin da ragazzo, Prokosch elaborò un’arte sottile nello stanare gli scrittori che amava. Li sorprendeva ogni volta nel luogo giusto e al momento giusto, registrava, implacabile, le loro battute e oggi, a distanza di decenni, ce le ripropone in minuscoli pastiches, dove con sbalorditivo mimetismo viene fatto riecheggiare lo stile di ogni singolo autore – stile della pagina e della persona. Leggere questo libro, scritto da un sapiente romanziere e collezionista di farfalle, che ha attraversato il secolo con gli occhi, e gli orecchi, ben aperti, vuol dire ripercorrere, esilarati e leggeri, tutta la letteratura del Novecento. Già un parziale elenco degli incontri qui raccontati può dare un’idea della sovrabbondante ricchezza di queste memorie, anche se soltanto la lettura ci confermerà quanto sia giustificata la pretesa di Prokosch in questo suo libro: «penetrare nella natura segreta dei fluidi che finiscono per addensarsi in opere d’arte». Ben intagliate come altrettanti cammei, le scene raccontate da Prokosch accompagneranno d’ora in poi la nostra immagine di certi autori, qui amabilmente costretti a rivelarsi.
Eccone alcuni: Virginia Woolf nel suo antro della Hogarth Press; Auden che parla di Kafka in un bagno turco; James Joyce in visita nella libreria di Sylvia Beach; Wallace Stevens che parla di squash; E.M. Forster sul prato del King’s College; Walter de la Mare che evoca elfi e fantasmi; Brecht in un bar a New York; Thomas Wolfe alle prese con le bacchette in un ristorante cinese; Gide in vestaglia di velluto rosso; Colette, fra tanti cuscini, che elenca le sue farfalle preferite; T.S. Eliot sulle rive del lago di Nemi; Maugham che balbetta vicino alla tomba di Cecilia Metella; Dylan Thomas a Ostia; Gertrude Stein che discetta sugli ortaggi; Ezra Pound che si infuria giocando a tennis, perché una certa signorina Piaggio lo batte; Hemingway sottoposto a interrogatorio da Lady Cunard; Marianne Moore che riflette sugli armadilli; Santayana che riceve in convento; Mario Praz che riceve nella sua casa di via Giulia; Norman Douglas che depreca i suoi colleghi più giovani in un caffè di Capri; Karen Blixen che parla degli spiriti dell’Africa; Nabokov che si abbandona ai suoi ricordi di entomologo.
"Risvegli" è il racconto sconvolgente di come alcuni pazienti vennero risvegliati, mediante un farmaco somministrato da Sacks stesso, dopo quarant'anni di sonno.
Nelle visioni di William Blake, la "terra di Ulro" designa un luogo di sofferenza e costrizione che molto somiglia a quello che Milosz ha attraversato, dalle turbolenze degli anni dell'anteguerra all'invasione nazista della Polonia, al regime sovietico, all'esilio. Ma per tutta la vita Milosz ha pensato che scrivere potesse servire anche a infrangere i cancelli di quel luogo sinistro. Il libro è una autobiografia intellettuale.
Ha ventidue anni, Margherita Pieracci (la Mita a cui sono indirizzate queste lettere), allorché, nel novembre del 1952, chiede a Vittoria Guerrini, che ne ha allora ventinove (e che adotterà poi, fra altri pseudonimi, quello di Cristina Campo), di poterla incontrare per parlare con lei della "Pesanteur et la grace", dalla cui lettura è uscita profondamente turbata. Comincia così, sotto il segno e nel nome di Simone Weil, un'amicizia che avrà fine solo con la morte di Vittoria, ventiquattro anni dopo, e si nutrirà di uno scambio di lettere affettuoso e costante. In questo volume vengono raccolte le 240 lettere scritte a Mita fra il 1956 e il 1975.
Con questo volume si completa la raccolta di saggi riuniti da Auden sotto il titolo "La mano del tintore". Qui Auden passa dalla più generale riflessione sulla pratica letteraria, sul leggere e sullo scrivere, all'analisi di generi, testi e fenomeni specifici, con quel suo consueto procedere per avvicinamento concentrico che gli consente di introdurre e sviluppare, per associazione o per analogia, tutta una serie di "punti di fuga" che commentano, dilatano e arricchiscono il discorso critico.
Un romanzo di avventure intellettuali e picaresche attraverso le follie del boom economico e le metamorfosi della società e del paesaggio, delle illusioni e dei caratteri. Notti senza fine di giovani che discutono dei loro autori e dei loro amori fino all'alba, progettando grandi opere letterarie, teatrali e musicali. Affetti, utopia, irrisioni e rivolte contro un oppressivo establishment culturale e politico. Ma anche la verve della café society, quando Roma era una capitale cosmopolita e "passavano tutti di qui" e le donne erano "molto più belle e più intelligenti e spiritose e anche più alte degli uomini corrispondenti". E che cosa significa aver vent'anni e molti desideri, nell'Italia di Petronio, di D'Annunzio e di sempre...
Composto nel '68 e pubblicato l'anno successivo questo romanzo colse sul campo il senso più autentico di quella celebre figura giovanile: una decadenza romana archetipica, vissuta coi teatrini e i fumetti delle migliori avanguardie storiche. Contro ogni oppressione razionalistica, politica e scientifica, uno sfrenato cabaret "pop" dell'immaginazione e del desiderio.
In questa testimonianza, come già il titolo lascia intravedere, il biografato vi campeggia nei panni del più complesso tra tutti i personaggi nello stesso Joseph Roth. Non di rado è un Roth insolente e ingrato, geniale e un po' impostore, ora aggressivo ora vulnerabile, infantile e lucidissimo nei suoi giudizi sull'epoca, i contemporanei e la letteratura. Vediamo evocate l'infanzia e l'adolescenza di Roth, i suoi amori e le frequentazioni femminili, le discussioni al caffè con Stefan Zweig, Kesten, Musil, l'apprendistato da alcolista, l'idiosincrasia per psichiatri e psicologi, gli anni parigini dissoluti e distruttivi, l'irrompere del delirio e delle sconnessioni mentali.
Negli anni Sessanta la Szymborska, incuriosita dal divario fra l'attenzione rapita che i recensori riservavano ai libri "nobili" (narrativa, saggistica storico-politica, classici), destinati tuttavia a restare in buona parte sugli scaffali delle librerie, e il vasto successo riscosso da manuali del fai da te, almanacchi, libri di divulgazione scientifica, decise che valeva la pena di dedicare a questi ultimi la sua attenzione. Da allora il futuro Nobel per la letteratura iniziò un lavoro di scavo controcorrente che usò il libro come pretesto per divagazioni in punta di (caustica) penna.
Quando nel 1982, uscì "Alla conquista di Lhasa", molti trovarono semplicemente entusiasmante la rievocazione della corsa, fra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento, per la conquista di quello che ancora era, nell'immaginazione popolare, il Paradiso Perduto: il Tibet. In effetti le imprese di personaggi come Anne Royle Taylor - che nel 1892 dai teatri dell'East End passò ai sentieri himalaiani, arrivando, a dorso di mulo, a un passo da Lhasa -, o di Maurice Wilson - fermato dalle autorità inglesi in India poco prima di mettere in opera l'ultima fase del suo piano, che prevedeva di schiantarsi con un biplano Gipsy Moth alle falde dell'Himalaya per poi proseguire a piedi alla volta dell'inaccessibile capitale - restano nella memoria. Ma a chi lo sa davvero leggere il racconto di Hopkirk suggerisce anche qualcos'altro, e cioè ad esempio il senso di una credenza antichissima, secondo la quale chi conquista il Tibet conquista, semplicemente, il mondo, oltre alla strana sensazione che le tensioni globali, se accostate a quello che ancora oggi rimane il loro misterioso e segreto epicentro, non siano che epifenomeni marginali.
Per una volta non ci sono dubbi: Bela, il protagonista di questo romanzo, ha molti dei tratti che fecero di János Székely quello straordinario personaggio che fu. Uno che, nato povero in Ungheria all'alba del Novecento, riuscì (al pari di celebri conterranei come il produttore Alexander Korda, il regista George Cukor, gli attori Bela Lugosi e Zsa Zsa Gabor) ad arrivare a Hollywood, dove diventò un brillante soggettista e sceneggiatore, e vinse perfino un Oscar nel 1941. Il libro, pubblicato in inglese nel 1946 sotto pseudonimo, è stato definito dai critici americani "a mix of Charles Dickens and Vicki Baum": come dire, un po' Oliver Twist, un po' Grand Hotel. In realtà, tutto quello che potrebbe esserci di patetico nell'infanzia del piccolo Bela, abbandonato dalla madre nelle grinfie di un'orribile virago, è costantemente contraddetto dal tono del narratore, la cui ironia non viene meno neanche nei momenti più difficili. E quando infine, a quattordici anni, Bela raggiungerà la madre, anche sopravvivere nella Budapest degli anni Venti, e poi degli anni Trenta, si rivelerà un'impresa quasi disperata. Tanto più che dovrà continuamente barcamenarsi fra due mondi agli antipodi l'uno dall'altro: l'insanabile miseria del quartiere in cui abita e il lusso sfrenato, sfavillante di luci, del grande albergo in cui riesce a trovar lavoro.
Delle molte leggende alla cui nascita Bolaño stesso ha contribuito, l’ultima riguarda la forma che 2666 avrebbe dovuto assumere. Si dice infatti che l’autore desiderasse vedere i cinque romanzi che lo compongono pubblicati separatamente, e se possibile letti nell’ordine preferito da ciascuno. La disposizione, ammesso che sia autentica, era in realtà un avviso per la navigazione in questo romanzo-mondo, che contiene di tutto: un’idea di letteratura per la quale molti sono disposti a vivere e a morire, l’opera al nero di uno scrittore fantasma che sembra celare il segreto del Male, e il Male stesso, nell’infinita catena di omicidi che trasforma la terra di nessuno fra gli Stati Uniti e il Messico nell’universo della nostra desolazione. Tutte queste schegge, e infinite altre, si possono in effetti raccogliere entrando in 2666 da un ingresso qualsiasi; ma fin dall’inizio il libro era fatto per diventare quello che oggi il lettore italiano, per la prima volta, ha modo di conoscere: un immenso corpo romanzesco oscuro e abbacinante, da percorrere seguendo una sola, ipnotica illusione – quella di trovare il punto nascosto in cui finiscono, e cominciano, tutte le storie.

