
Nell’ultima pagina di rien ne va plus abbiamo lasciato Rocco Schiavone ferito in un lago di sangue. Ora è in ospedale dopo intervento di nefroctomia che ha subito, la stessa operazione che ha portato alla morte uno dei ricoverati del reparto, a quanto pare a causa di un errore di trasfusione. Così costretto all’immobilità, di malumore, Rocco comincia ad interessarsi a quel decesso in sala operatoria che ha tutta l'aria di essere l'ennesimo episodio di ma la San it a. Ma fa presto a capire che non può trattarsi di un errore umano anche perché si è fatto spiegare bene dal primario Filippo Negri le procedure in casi del genere. Per andare a fondo della questione sguinzaglia dal suo letto tutta la squadra, e segue l'andamento delle indagini, a partire dalle informazioni sul morto, Renato sirchia, un facoltoso imprenditore di salumi della zona, casa sfarzosa, abitudini da ricco, gran lavoratore. Dietro il lusso però si cela una realtà economica disastrosa, la fabbrica è piena di debiti e salta anche fuori una consistente assicurazione sulla vita. Rocco non riesce a stare a guardare e uscito di nascosto dall’ospedale incontra la moglie e il figlio di sirchia, Lorenzo, fresco di studi aziendali e con idee di conduzione assai diverse da quelle del padre. Le cose però non sono così semplici come appaiono e Schiavone non si fa incantare dalla soluzione più facile. Attorno a lui, le luci del Natale, i neon del reparto (non si sa quali lo de prima no di più), i pantaloncini, unico cibo commestibile, gli infermieri comprensivi, il vicino di letto intollerabile e soprattutto i suoi che vanno e vengono incessantemente, lo coprono nelle sue fughe, lo assecondano e non aspettano altro che il vicequestore ritorni in servizio. Soprattutto Antonio scipioni, che sta sostituendo Rocco ma che è alle prese con situazioni amorose da commedia degli equivoci, le tre donne con cui ha intrecciato relazioni amorose e che era riuscito a non fare mai incontrare, ora rischiano di ritrovarsi tutte e tre ad Aosta. L’unico a potergli dispensare dei consigli è proprio Schiavone.
Una famiglia del Nord Italia, tra l'inizio di un secolo e l'avvento di un altro, una metamorfosi continua tra esodo e deriva, dalle montagne alla pianura, dal borgo alla periferia, dai campi alle fabbriche. Il tempo che scorre, il passato che tesse il destino, la nebbia che sale dal futuro; in mezzo un presente che sembra durare per sempre e che è l'unico orizzonte visibile, teatro delle possibilità e gabbia dei desideri. E questo il paesaggio in cui vivono e muoiono i personaggi di Giorgio Fontana, i Sartori, da quando il primo di loro fugge dall'esercito dopo la ritirata di Caporetto e incontra una ragazza in un casale di campagna. Poi un figlio perduto in Nordafrica, due uomini sopravvissuti e le loro nuove famiglie, per arrivare ai giorni nostri: quelli di una giovane donna che visita la tomba del bisnonno, quasi a chiudere un cerchio. Quattro generazioni, dal 1917 al 2012, che si spostano dal Friuli rurale alla Milano contemporanea affrontando due guerre mondiali e la ricostruzione, la ricerca del successo personale o il sogno della rivoluzione, la cattedra in una scuola e la scrivania di una multinazionale. È circa un secolo, che mai diventa breve: per i Sartori contiene tutto, la colpa, la vergogna, la rabbia, la frenesia, il viaggio. Sempre lo scontro e quasi mai la calma, o la sensazione definitiva della felicità. Ma i Sartori non ne hanno bisogno, e forse nella felicità neppure credono. Perché se in ogni posto del mondo bisogna battersi e lottare allora è meglio imparare ad accettare le proprie inquietudini, e stare lì dove la vita ci manda il racconto dei Sartori affronta il fardello di un passato che sembra aver lasciato in eredità solo fatica e complessità, persino nei più limpidi gesti d'amore. Se gli errori e le sfortune dei padri ricadono sui figli, come liberarsene? Esiste una forza originaria capace di condannare un'intera famiglia all'irrequietezza? Come redimere se stessi e la propria stirpe? La risposta a queste domande è nella voce di un tempo nuovo, nello sguardo di chi si accinge a viverlo, nelle parole di uno scrittore di neppure quarant'anni che ha voluto affrontare con le armi della letteratura la povertà e il riscatto, la fede e la politica, il coraggio dei deboli e la violenza dei forti.
Questo libro è stato pubblicato nel 1937, due anni prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Racconta una storia che era ancora tutta da scrivere proiettandoci in un mondo in cui i nazisti hanno vinto e creato un impero, dove le donne sono considerate alla stregua degli animali e vengono tenute in cattività, nell'abbrutimento fisico e morale. La loro sola funzione sociale è quella della riproduzione e per questo vengono ripetutamente stuprate per dare alla luce i figli del nuovo impero. Siamo nel 720 dopo Hitler, il meccanico inglese Alfred si reca in pellegrinaggio in Germania per visitare i luoghi sacri dell'hitlerismo, che è diventata una vera e propria religione, officiata dalla casta amministrativo-sacerdotale dei Cavalieri. In questa occasione conosce il contadino tedesco Hermann e ne diventa amico. Alfred è più che scettico rispetto al Credo nazista e immagina una rivolta non-violenta che possa cambiare un mondo retrocesso all'economia feudale, in cui Hitler è visto come un Dio alto sette piedi, dai lunghi capelli biondi e dagli occhi azzurri. I dubbi di Alfred trovano conferma da parte del Cavaliere che amministra la terra lavorata da Hermann, un vecchio di nome Friedrich von Hess. Il Cavaliere rivela ad Alfred come da secoli i nazisti abbiano operato una distorsione storiografica talmente sistematica da esigere la distruzione dapprima di tutti i libri che contraddicevano la loro «versione dei fatti», poi dello stesso Urtext del nazismo, infine di tutto il resto: al punto che i tedeschi sono ormai analfabeti (si permette invece agli «eccentrici» inglesi di leggiucchiare qualche manuale tecnico). Ma von Hess custodisce anche un segreto che si tramanda di padre in figlio, e conserva addirittura una fotografia del vero Adolf Hitler... Un romanzo preveggente, che ci riporta al "1984" di Orwell, ma che anticipa altri celebri romanzi ucronici come "Fatherland" di Robert Harris, "La svastica sul sole" di Philip K. Dick, "Il racconto dell'ancella" di Margaret Atwood.
Dopo aver risolto brillantemente il caso della parruccaia (Stella o croce), Angela Mazzola, poliziotta dell’Antirapine a Palermo, viene convocata alla Sezione omicidi. C’è un lavoro per lei, si tratta di infiltrarsi in una delle zone più animate del centro storico e raccogliere informazioni su un omicidio avvenuto qualche giorno prima. Il morto è Ernesto Altavilla, rampollo di una famiglia dell’alta borghesia: nessuna pista, niente testimoni. Inizia così una indagine che porta Angela a Ballarò, quartiere composito: mercato storico di giorno, taverna di sera, luogo di spaccio e di riciclaggio di merce rubata la notte, locali di ogni tipo e tantissimi quelli etnici, grazie anche alla accoglienza che Ballarò ha riservato agli stranieri. È in questi vicoli che Angela si conquista la fiducia di Jamal, un ragazzo nigeriano che lavora nel locale dove Ernesto è stato freddato da un colpo di pistola, e di Shamira, la donna di cui la vittima si era innamorato. Angela viene così a conoscere la realtà della comunità nigeriana grazie proprio a Jamal, che le racconta le storie del suo paese, e quelle dell’Ascia nera, l’organizzazione composta di stranieri che è diventata a tutti gli effetti una mafia e pare avere contatti con la criminalità locale. Da Ballarò l’indagine si va spostando nelle zone della Palermo bene e anche nei salotti della famiglia della vittima, che qualche segreto nasconde. Qualche tempo prima infatti gli Altavilla hanno subito un furto di opere d’arte, ma si sono ben guardati dall’avvertire la polizia, preoccupandosi semmai di recuperare la merce rubata con metodi discutibili. Angela si sente messa alla prova, è la sua grande occasione per fare il salto di qualità all’interno della polizia e non trascura nulla, né si lascia intimidire dalla baronessa e dalla figlia. L’intuizione, i metodi non proprio ortodossi, una buona dose di sfacciataggine e di fantasia saranno le doti giuste per questa sbirra allegra e credibile, né eroina, né votata solo alla professione, che si è fatta da sé e alla sua autonomia ci tiene, come al bicchiere di vino nella sua terrazza all’Arenella, e all’inseparabile labrador Stella. Tutt’intorno la Palermo di oggi, multietnica e accogliente sì, ma anche violenta e dura.
«Si nasce per caso in un luogo, che può diventare scelta, destino. E destino di scrittura è stata per me Caltagirone, l’immaginaria Calacte della maggior parte di questi racconti. Storie soprattutto di donne – ribelli non rassegnate – di cui spesso resta solo un gesto, un dettaglio, impigliato in vecchi libri o nelle scritture di cronisti locali: frammenti dell’immemore genealogia delle madri, che arrivano a me, si insediano in me, fino a quando non restituisco loro parola e identità. Ricostruendo, tra immaginario storico e tracce documentali, il pensare e l’operare di Catarina, Francisca, Annarcangela, Ignazia, ma anche delle protagoniste degli altri racconti, la mia vita si è fusa con la loro in una sorta di transfert, di autobiografia traslata nel tempo dell’esclusione dal linguaggio che ha caratterizzato l’identità di genere; dove però è possibile ritrovare sorprendenti storie di coraggio e di resistenza alla discriminazione e all’ingiustizia» (Maria Attanasio, dalla Nota introduttiva).
Raccogliere in un unico volume questi racconti, variamente editi tra il 1994 e il 2014, corrisponde alla necessità di dare più completa conoscenza ai lettori di una scrittrice appartata ma la cui opera è accompagnata oggi da una crescente attenzione, da una continua curiosità. Il volume mette assieme: la lunga novella, quasi un breve romanzo, Correva l’anno 1698, che dissotterra la vicenda di Francisca, uomo-femmina, «masculu fora e fimmina intra»; la bellissima Lo splendore del niente – storia di potenza flaubertiana di Ignazia Perremuto, di superba e nobile famiglia, che a lussi, amori e doveri propri del suo stato preferisce contemplare il nulla, prefigurando le ribellioni alla sottomissione femminile –, oltre a più rapide escursioni attraverso destini di donne del Settecento. Recuperati, tutti, dalle antiche cronache e riportati in vita da una scrittura che suscita immagini a ogni rigo.
Tre racconti scritti negli anni Ottanta dall’inventore della «commedia all’italiana». I personaggi, poveracci come tanti, vittime e artefici di situazioni un po’ paradossali, ma capaci di sentimenti e di una straordinaria arte di arrangiarsi, appartengono a un umorismo colto e popolare, sensibile socialmente e divertito, empatico verso i tipi umani e un po’ pessimista, che affonda in una grande tradizione tutta letteraria. Tutti ricordano i film di cui Furio Scarpelli (assieme al socio Age o da solo) è stato sceneggiatore. Molti dei migliori titoli della Commedia all’italiana e di quell’epoca in cui in questa confluiva il Neorealismo, da La Grande Guerra a L’armata Brancaleone, da I soliti ignoti a C’eravamo tanto amati a Il postino, portano la sua firma. A differenza di altri paesi, in Italia lo sceneggiatore è anche il più delle volte lo scrittore della storia – si chiama «trattamento» – che diventerà pellicola. Dunque Scarpelli era naturalmente uno scrittore, ma era in più un narratore per vocazione e per scelta in racconti che non sarebbero stati destinati al cinema ma erano letteratura pura. Così è in questi tre racconti. Ivano, geometra nullafacente, tanto amato dalla madre e dalle sorelle e dalla concorrente fidanzata; Bastiano, il pescivendolo burino, buono e arricchito, che rivela una ferocia beffarda quando viene gabbato; Anna e i due compari balordi e suonati delle notti romane: sono tutti personaggi su cui istintivamente sovrapponiamo il volto degli attori che fecero grande il cinema italiano. Ma dopo un poco leggendo, dalla piega malinconica dalla sonda psicologica dall’attenzione verso le ironie della vita, capiamo che appartengono a un umorismo colto e popolare, sensibile socialmente e divertito, empatico verso i tipi umani e un po’ pessimista, che affonda in una grande tradizione tutta letteraria.
Andrea Camilleri se ne è andato il 17 luglio, ci ha lasciato il suo scritto su Caino che aveva completato e per il quale aveva immaginato tutto: la scena e gli intermezzi musicali, i filmati da proiettare sullo schermo, i testi da interpretare di persona e quelli da far recitare. È il primo libro che pubblichiamo dopo la sua morte, con grande commozione e rimpianto. L’autodifesa di Caino è un testo potente, profondo; risponde alle incessanti domande sul bene e il male e affonda le sue radici nella sterminata cultura di Camilleri, nella sua sensibilità letteraria, artistica, musicale, nella sua passione per il mito. Caino, il primo assassino della storia, l’emblema stesso del Male, è chiamato a giudizio, Camilleri vuole che siano i lettori ad emettere il verdetto, i testimoni a carico sono tanti, ma non mancano quelli che Caino può convocare a suo sostegno. Ma sono soprattutto le parole di autodifesa dell’assassino di Abele a fare il punto e fornirci una nuova versione dei fatti, la sua. Ricorda Camilleri che «nella tradizione ebraica, e in parte anche in quella musulmana, esistono una miriade di controstorie che ci raccontano un Caino molto diverso da quello della Bibbia. In alcune di quelle antiche narrazioni lo scontro tra i due fratelli ne rovescia in qualche modo le posizioni». Camilleri continua a intessere la storia fornendo al lettore altri dati, altri elementi per giudicare, a mostrarci l’altra faccia di Caino: «C’è tutta una parte del mito che è affascinante ma totalmente ignorata: è quella del Caino fondatore di città, inventore dei pesi e delle misure, della lavorazione del ferro, ma soprattutto quella di Caino inventore della musica; “…una volta che me ne stavo disteso in un canneto sentii il vento che entrava e usciva dai buchi delle canne producendo un rumore”». Ecco il flauto, ed ecco il primo tamburo ricavato da una pelle di capra…
«La macchina puzza di fumo vecchio e cane bagnato, ogni tanto Carella pensa che quello sia l’odore della polizia». Si è messo a caccia. Da solo, senza dirlo a nessuno. Ferie arretrate, un po’ di soldi da parte, una vecchia faccenda da sistemare. Una di quelle per cui Carella - lo sbirro, il segugio che contesta gli ordini e fa sempre di testa sua - può perderci il sonno. Si è appostato con la macchina di fronte al carcere di Bollate, a osservare il suo uomo mentre esce dalla galera dopo cinque anni di reclusione. Carella chiude gli occhi, si sente calmo, freddo e calmo. «Ti prendo», si dice. «Sono la Franca, Ghezzi, si ricorda?». Il sovrintendente Ghezzi se la ricorda bene. Era l’inizio della sua carriera, sono passati trent’anni, un’indagine che l’aveva portato al suo primo arresto. Per il giovane Ghezzi quella donna era stata bellissima. Le fossette scavate nelle guance, il mistero e l’erotismo di una che faceva le marchette, simpatica e innamorata del suo uomo. Erano una bella coppia. E ora l’uomo è scomparso, e la donna è tornata, davanti casa addirittura, e vuole l’aiuto di Ghezzi. Come fa a tirarsi indietro? Persino la Rosa, la moglie, l’ha capito subito. «Tu fai il difficile, ma domani mattina sei già lì che fai domande, ti conosco».
A cinque anni di distanza dal suo primo, fortuito, caso criminale, Pellegrino Artusi è ospite di un antico castello che un agrario capitalista ha acquisito con tutta la servitù, trasformando il podere in una azienda agricola d'avanguardia. È stato invitato perché è un florido mercante, nonché famoso autore della Scienza in cucina e l'arte di mangiar bene. Oltre al proprietario, Secondo Gazzolo, con la moglie, completano il gruppo altri illustri signori. Il professor Mantegazza, amico di Artusi, fisiologo di fama internazionale; il banchiere Viterbo, tanto ricco quanto ingenuo divoratore di vivande; il dottor D'Ancona, delegato del Consiglio di Amministrazione del Debito Pubblico della Turchia; Reza Kemal Aliyan, giovane turco, funzionario dello stesso consiglio; il ragionier Bonci, assicuratore con le mani in pasta; sua figlia Delia che cerca marito ma ancor più avventure. Riunisce tutti non solo il fine conviviale, ma anche un affare in fieri. Sono infatti gli anni d'inizio secolo in cui la finanza europea si andava impadronendo del commercio internazionale del decadente Impero Ottomano. Accade che, tra un pranzo, un felpato attrito di opinioni e interessi, un colloquio discreto, viene trovato morto un ospite; è chiuso a chiave in camera da letto ma il professor Mantegazza è sicuro: è stato soffocato da mani umane. Circostanze che non collimano, passaggi segreti, colombi viaggiatori, tresche clandestine, fanno entrare ed uscire dalla scena, o agire coralmente, i personaggi, con la vivacità di un teatro brillante. E si adatta al luogo una sfumatura di gotico, in ironico contrasto con l'atteggiamento scientista all'epoca di gran voga. Marco Malvaldi, l'autore, si sente a proprio agio nell'ambiente fiduciosamente positivistico dell'epoca, rappresentato con allusiva esattezza (nell'epilogo del romanzo si spiega come tutto il contorno è storicamente vero). D'accordo con il suo eroe Pellegrino Artusi considera la buona cucina una branca della chimica, una scienza complessa, rigorosa e stuzzicante quanto la sublime arte dell'investigazione.
Nel 1924 il Giro d'Italia rischia va di non partire. Gli organizzatori non erano in grado di far fronte alle richieste economiche delle squadre e queste risposero con una diserzione in massa. Celebri campioni come Girardengo, Brunero, Bottecchia non avrebbero gareggiato; gli atleti dovevano iscriversi a titolo personale e la corsa rischiava di passare inosservata, con grave danno per gli sponsor. Occorreva qualcosa di eclatante, e si decise di accogliere la richiesta di una donna di trentatré anni che insisteva da tempo per partecipare. Si tratta va di Alfonsina Strada, aveva già affrontato due Giri di Lombardia. Il tracciato della competizione attraversava la penisola per oltre 3.000 chilometri, gli iscritti furono 108, al via se ne presentarono novanta, e fra questi c'era Alfonsina. Solo in trenta completarono la gara. Il romanzo racconta la sua storia, dai tempi duri e affamati di Fossamarcia, nei pressi di Bologna dove n acque nel 1891, fino al 13 settembre del 1959, giorno della sua morte. In mezzo ci sono due guerre mondiali, la Marcia su Roma cui prese par te uno dei suoi fratelli, e poi D'Annunzio che le regalò una stella d'oro, Mussoli ni che volle darle un'onorificenza da lei mai ritirata, una medaglia che la zarina Alessandra le appuntò personalmente al petto. E gli anni passati a esibirsi nei circhi d'Europa e due matrimoni, il primo a 14 anni, l'unico modo per andar via di casa perché i genitori le volevano impedire di gareggiare. Il giovane marito era Luigi Strada, di professione meccanico, uomo dalla psicologia molto fragile. Le offrì un amore sincero, lei ne mantenne per sempre il cognome. Dalla povertà alla fama all'oblio, Alfonsina è stata una pioniera della parificazione tra sport maschile e femminile. Simona Baldelli ha trovato lo sguardo e la voce per trasformare la sua epopea in un romanzo attento alle verità della Storia e sensibile alle sfumature dei sentimenti, creativo nella struttura e libero di intrecciare i fatti concreti con l'invenzione necessaria al gesto letterario. Accade allora che nelle sue pagine Alfonsina prenda vita e ci mostri, nella scoperta di un'impresa faticosissima e anticipatrice, il ritratto di una donna che mai volle porsi dei limiti.
Dopo anni di cinema Di Gregorio arriva finalmente alla letteratura con tre novelle, che confermano il suo talento e sorprendono per la naturalezza, come se dietro il regista da sempre si fosse celato lo scrittore. Sono storie di famiglie indolenti e camminate solitarie, di italiani medi che pensano soprattutto a se stessi, di romani che tirano a campare, di madri amatissime e ingombranti. Personaggi e situazioni che mai cadono nello stereotipo, tratteggiati in una lingua ricca e originale, in apparenza senza tempo e che invece affonda nella contemporaneità, nei suoi problemi, nei suoi paradossi.
Viola, romana trapiantata a Palermo per un combinarsi di caso e di scelta, è un «volto televisivo», una giornalista tv. Ha un disturbo della percezione (lei preferisce «una particolarità»), la sinestesia: ogni cosa, ogni luogo, ogni persona che guarda si unisce, per lei, a una musica e la musica a un colore; ma non tutti, alcuni non hanno musica e quindi colore, «meglio tenersi lontani». A questo si accompagna una più grave malattia degenerativa, «neuroni bucati» che, senza disabilitarla, determinano il suo modo di muoversi e l'approccio alla realtà. Nel pieno di un'ondata di scirocco è morta strangolata Romina, una ventenne di buona famiglia. È immediatamente sospettato Zefir, un popolarissimo cantautore. Viola vaga per tutti i luoghi coinvolti dal crimine, conducendo la sua vita movimentata, curiosando nelle case e nelle giornate di ogni tipo di gente. Santo, l'ex caporedattore, trincerato dietro tenaci silenzi la mette in contatto con un suo amico, un poliziotto che lei chiama Zelig perché cangiante di colore, il quale sembra sfruttare le sue intuizioni, le sue visioni, l'abilità di profittare del caso. L'inchiesta diventa una storia in una prima persona insolita, né flusso di coscienza né descrizione; un registrare emozioni, eventi e coincidenze lontani, mischiati a pensieri contemporanei su se stessa, sulla città, su fatti e persone, con spirito ironia sarcasmo pena cinismo amore, sentimenti tutti orientati all'obiettivo di rubare la verità a una realtà frammentaria. "Conosci l'estate?" scandaglia senza trovare fondo il tema della colpa e dell'innocenza. E dietro la vicenda gialla traspare il vero cuore del romanzo: il ritratto commovente, quasi un diario, di una donna che avverte che in lei «si sta allargando il buio», che è lei «quella diversa» e perciò attraversa la vita in modo totale con tristezza e divertimento, malinconia ed entusiasmo, dolore e godimento. Di queste contraddizioni Palermo è il simbolo oltre che il luogo, «città ossimoro»: i suoi odori, la sua compassione e ferocia; e l'Altra Palermo disillusa, «più ipocrita e indifferente di prima». Ma è a Viola che non si può non voler bene.