
"Una storia semplice" è una storia complicatissima, un giallo siciliano, con sfondo di mafia e droga. Eppure mai - ed è un vero tour de force - l'autore si trova costretto a nominare sia l'una sia l'altra parola. Tutto comincia con una telefonata alla polizia, con un messaggio troncato, con un apparente suicidio. E subito, come se assistessimo alla crescita accelerata di un fiore, la storia si espande, si dilata, si aggroviglia, senza lasciarci neppure l'opportunità di riflettere. Davanti alla proliferazione dei fatti, non solo noi lettori ma anche l'unico personaggio che nel romanzo ricerca la verità, un brigadiere, siamo chiamati a far agire nel tempo minimo i nostri riflessi - un tempo che può ridursi, come in una memorabile scena del romanzo, a una frazione di secondo. È forse questo l'estremo azzardo concesso a chi vuole "ancora una volta scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia".
Il dolore puro è difficile da raccontare. Ma qui qualcuno ci è riuscito, con una precisione e un’onestà che ci lasciano ammirati, arricchiti. Questo è un libro che riguarda da vicino chiunque abbia avuto nella sua vita un dolore. C.S. Lewis pubblicò nel 1961, sotto lo pseudonimo di N.W. Clerk, questo breve libro che racconta la sua reazione alla morte della moglie. Illustre medioevalista e amatissimo romanziere, amico di Tolkien e come lui dedito alle incursioni nel fantastico, C.S. Lewis si è sempre dichiarato innanzitutto uno scrittore cristiano. Ma un cristiano duro, nemico di ogni facile consolazione. E ciò apparirà immediatamente in questo libro perfetto, dove l’urto della morte è subìto in tutta la sua violenza, fino a scuotere ogni fede. Non c’è traccia di compiacimento o di compatimento per se stessi. C’è invece un’osservazione lucida, che registra le sensazioni, i movimenti dell’animo che appartengono al segreto di ciascuno di noi – e che spesso non vogliamo riconoscere.
Nei primi anni del dopoguerra, mentre si andava delineando quella integrazione planetaria nel nome della tecnica che oggi è sotto gli occhi di tutti, Ernst Jünger elaborò questo testo, apparso nel 1951, oggi più affilato che mai. La figura del Ribelle jüngeriano corrisponde a quella dell’anarca, del singolo braccato da un ordine che esige innanzitutto un controllo capillare e al quale egli sfugge scegliendo di «passare al bosco» – dissociandosi, una volta per sempre, dalla società. Il Ribelle jüngeriano sente di non appartenere più a niente e «varca con le proprie forze il meridiano zero». Tutta l’eredità del nichilismo, del radicalismo romantico e della furia anti-moderna si concentra in questa figura, qui osservata come facendo ruotare un cristallo. Letto oggi, questo testo appare di una impressionante preveggenza, quasi un guanto di sfida gettato in nome di una libertà preziosa: «la libertà di dire no».
Un colpo di pistola chiude la vita di un ricco imprenditore tedesco. E' un incidente? Un suicidio? Un omicidio? L'esecuzione di una sentenza? E per quale colpa? La risposta vera è un'altra: è una mossa di scacchi. Dietro quel gesto si spalanca un inferno che ha la forma di una scacchiera. Risalendo indietro, mossa per mossa, troveremo due maestri del gioco, opposti in tutto e animati da un odio inesauribile che attraversano gli anni e i cataclismi politici pensando soprattutto ad affilare le proprie armi per sopraffarsi. Che uno dei due sia l'ebreo e l'altro sia stato un ufficiale nazista è solo uno dei vari corollari del teorema.
Il romanzo, nato dall'incontro della scrittrice con una Napoli uscita in pezzi dalla guerra, è in realtà la cronaca di uno spaesamento. La città infatti diventa uno schermo sul quale l'autrice proietta ciò che lei stessa definisce la propria nevrosi: una nevrosi metafisica, una impossibilità di accettare il reale, un orrore del tempo che ogni cosa corrode. Tutto il libro è un grido contro questo orrore, da cui lo sguardo vorrebbe potersi distogliere e non può. Questa edizione è accompagnata da due testi scritti dall'autrice, ripensando questo libro edito la prima volta nel 1953.
Il libro si apre su una "scena della vita di provincia", grottesca e quasi allucinata, finché "dal fondo dell'oscurità" il protagonista si sente guardato da "due occhi neri, dilatati e selvaggi", che lo gettano nello stupore e nel terrore. "Una ragazza ad ogni modo" osserva subito dopo. Così ci appare Gurù, la fanciulla-capra, che presto condurrà il giovane Giovancarlo e il lettore fra i "lunari orrori" di creature diafane, fantomatiche, e fin nelle viscere della terra, nel regno arcano delle Madri. Con "La pietra lunare", suo primo romanzo (1939), Landolfi presentava già tutti i registri fondamentali di un'opera che rimane, come scrisse Zanzotto, "uno dei punti di riferimento più radiosi del nostro Novecento letterario".
Quando il Sommario apparve a Parigi, nel 1949, Cioran era un oscuro apolide, che aveva già pubblicato in Romania opere importanti, ma ignorate da tutti. La cultura francese inclinava per l'engangement e le sue molteplici bassezze, che sarebbero poi venute alla luce con decenni di ritardo. Cioran era perfettamente solo e, con queste pagine, scopriva una lingua, il francese, di cui si rivelava subito maestro. Non alla maniera di Sartre ma piuttosto a quella di Chamfort e di Pascal. Con un solo gesto Cioran presentava tutto se stesso. Così non meraviglia che questo libro abbia avuto la ventura di incontrare come traduttore in tedesco uno dei poeti più alti del secolo: Paul Celan.