
Da più di tre secoli, quando le tenebre della notte sono rischiarate dai lumi delle candele, nelle antiche sale del castello di Canterville si aggira inquieto lo spettro di Sir Simon. Terrificante e diabolico, non c'è efferatezza che non abbia compiuto pur di terrorizzare gli incauti inquilini. Eppure, quando arriva il turno di una sfrontata famigliola di americani, i suoi occulti poteri vengono sconfitti a colpi di fionda e scetticismo. Il povero spettro sta per essere sopraffatto dalla stanchezza e dalla malinconia, ma la dolce Virginia ascolterà il suo lamento e cambierà per sempre il suo destino. Età di lettura: da 9 anni.
Ambientato nella Londra del XIX secolo, ha come protagonista un giovane da cui è impossibile non restare affascinati. I lineamenti del viso di Dorian sono talmente belli, da attirare l'attenzione del pittore Hallward, che decide di fargli un ritratto. Dorian, sempre più ammaliato dalla sua stessa bellezza, comincia a provare una sorta di attrazione-invidia verso il ritratto. ll pensiero del tempo che passa lo distrugge, l'idea che lui invecchierà, mentre il suo ritratto resterà fedele alla bellezza di quel momento, gli provoca talmente tanta indignazione e gelosia, che fa una sorta di patto con il demonio grazie al quale il quadro sarebbe invecchiato al posto del suo volto, rendendo così eterno il suo splendore. In seguito ad una tormentata storia d'amore Dorian perde lucidità e commette atti atroci. Ma si rende conto a quel punto che il quadro comincia ad invecchiare come ci fosse una correlazione non con la sua età ma con la sua anima.
Esattamente 110 anni fa, il 30 novembre del 1900 moriva a quarantasei anni Oscar Wilde, umiliato dalla povertà e dalla malattia, uno dei geni più rari e brillanti della letteratura e del teatro moderni.
Piano B edizioni presenta La disciplina del Dandy una selezione di saggi dell'intellettuale irlandese, uno Wilde diverso dal romanziere e drammaturgo apprezzato in tutto il mondo, e che in questi lavori mostra il suo talento di osservatore acuto e intelligente degli uomini e dei costumi degli uomini, passando in rassegna, quasi da antropologo e filosofo, temi come etica, morale, bellezza e politica.
Vivere è la cosa più rara al mondo. La maggior parte della gente esiste, ecco tutto.
Chiunque può simpatizzare col dolore di un amico, ma solo chi ha un animo nobile riesce a simpatizzare col successo di un amico.
Ne La disciplina del Dandy l’arte della provocazione e il gusto del paradosso, la scrittura aforistica, l’immediatezza e la vivacità del periodo, si confrontano con i temi della bellezza e del rapporto tra morale e arte, come in La decadenza della menzogna, o nelle teorie politiche anarchiche e sorprendenti ne L’Anima dell’uomo sotto il socialismo, uno dei lavori meno conosciuti e più sottostimati di Wilde. Completano il volume Impressioni dall’America – ironico resoconto sugli usi e costumi americani e le due raccolte di aforismi pubblicate per riviste studentesche e in forma anonima: Alcune massime per l’istruzione dei troppo istruiti e Frasi e filosofie ad uso dei giovani. Il volume si chiude con la Prefazione a Il ritratto di Dorian Gray, scritta da Wilde per rispondere alle accuse e alle polemiche in seguito alla pubblicazione de Il Ritratto di Dorian Gray.
E’ l’individuo e l’individualità ad essere centrale e ad emergere come in tutta la sua produzione saggistica, il singolo uomo libero da condizionamenti morali, politici e artistici, l’uomo innamorato della vita e della bellezza, il dandy, di cui Wilde auspica l’affermazione come superiore “modello” di uomo.
Le buone intenzioni sono state la rovina del mondo. I soli che hanno compiuto qualche cosa nel mondo sono stati coloro che non avevano nessuna intenzione.
Il "De profundis" (1897) è fra le ultime opere del grande autore irlandese. Composta in parte durante la sua detenzione nel carcere di Reading, si presenta in forma di lettera indirizzata al giovando amante Bosie. È un testo ricco di motivi e provocazioni intellettuali, ove non manca il consueto atteggiamento di ribellione contro il conformismo bigotto della società dell'epoca vittoriana, ma neppure un certo vittimismo di matrice romantica, né quel gusto per la teatralità e l'istrionismo - la maschera e il volto - che, a dispetto delle circostanze, sempre contraddistingue la scrittura di Oscar Wilde. Centrale rimane comunque nell'opera il tema dell'inevitabile isolamento dell'artista moderno. Introduzione di Silvia Mondardini.
Quando nel 1973 uscì “I due allegri indiani”, l'aggettivo “demenziale” non ancora entrato nel lessico della critica italiana: il primo film dei Monty Python sarebbe stato distribuito solo un anno dopo, “Hellzapoppin” e “La guerra lampo” dei fratelli Marx erano noti a una sparuta minoranza di cinofili e gli unici esempi di «demenzialità» proposti alle italiche genti erano i personaggi di “Alto gradimento”. Inoltre, Rodolfo Wilcock era un ospite assai singolare della nostra letteratura, quasi un alieno. Cresciuto alla scuola di Borges, già autore di parecchi libri nel suo Paese, si era reinventato come scrittore in una lingua, l'italiano, che aveva a sua volta reinventato con una estrosità, o meglio, una sfrenatezza, paragonabile solo a quella che Nabokov aveva inoculato nella lingua inglese. Forse perciò ci sono voluti anni prima che Wilcock venisse riconosciuto per quello che è: un maestro del fantastico e del grottesco - e un maestro della prosa italiana. “I due allegri indiani” si potrebbe definire un «romanzo rivista» , nel doppio senso della parola: perché è articolato nei trenta numeri della rivista «Il Maneggio» , diretta e redatta dal protagonista del romanzo stesso, che muta continuamente nome; perché ogni numero di questa rivista è come un susseguirsi esilarante di sketch di avanspettacolo, il cui autore fosse però un letterato abilissimo, un genio della satira. Gli indiani del romanzo sono da intendere, infatti, per lo più come italiani e, come scrisse Enzo Siciliano, «i fatti curiosi, i “minima moralia” recitati con ghigno sulfureo, la babele irrefrenabile dei referti, l'insensatezza programmatica dei trenta episodi che dovrebbero comporre il romanzo, concernono il costume italiano, i vizi del vivere all'italiana - vizi politici, letterari, psicologici, sessuali, religiosi» .Ma attenzione: “I due allegri indiani” è soprattutto una fonte continua di divertimento: si ride a ogni pagina, a ogni episodio, a ogni sberleffo, a ogni nuova invenzione verbale.
"Così giunse nelle mie mani 'La sinagoga degli iconoclasti', in un inverno freddo e umido, e ricordo ancora il piacere enorme che le sue pagine mi diedero, e anche il conforto, in giorni nei quali tutto faceva presagire solo tristezza. Il libro di Wilcock mi restituì l'allegria, come riescono a farlo solo i capolavori della letteratura che sono al tempo stesso capolavori dello humour nero, come gli aforismi di Lichtenberg o il 'Tristram Shandy' di Sterne ... Oggi, diciassette anni dopo, esce in seconda edizione. Se volete ridere, se volete migliorare la vostra salute, compratela, rubatela, fatevela prestare, ma leggetela". (Roberto Bolaño)
Nel 1942, a Leopoli, una SS morente chiede ad un ebreo il perdono per i crimini che ha commesso. A rifiutare questa grazia al giovane nazista è Simon Wiesenthal, che dopo la guerra diventerà l'implacabile "cacciatore dei nazisti" . A distanza di tempo quel rifiuto continua a turbare Wiesenthal: ne discute con gli amici, va a visitare l'anziana madre della SS, infine decide di raccontare quella vicenda per chiedere e sé stesso e ad altri testimoni e intellettuali se ha commesso un errore, negando il perdono.
La vicenda di Max e Helen è una struggente storia d'amore realmente accaduta. Nata nei terribili anni della guerra e segnata dalla deportazione nazista nei campi di concentramento, è diventata per Simon Wiesenthal, il cacciatore di nazisti per antonomasia, il simbolo di ciò che la Storia di quel periodo ha significato per i destini delle singole persone, travolti dall'onda della morte e della distruzione. Wiesenthal è a un passo dall'incastrare Schulze, oggi un rispettabile dirigente d'azienda di Karlsruhe, che si è macchiato di orribili delitti sul fronte orientale durante la seconda guerra mondiale. Ha solo bisogno di un testimone per corroborare il suo impianto accusatorio. Per questo rintraccia Max. Lui sa, lui ha visto di cosa è stato capace Schulze, spietato e sadico aguzzino. Ma non può testimoniare contro di lui. Nonostante tutto, non dirà una sola parola per inchiodarlo alle proprie responsabilità. Perché quella che narra Max, ora medico a Parigi, è anche la sua grande storia d'amore con Helen. Al momento del loro arresto erano fidanzati. Furono poi deportati nel lager di Zalesie, nei pressi di Lublino. Finita la guerra, Max l'aveva cercata disperatamente quando, nel '58, era riuscito a tornare in Polonia. E tuttavia, ritrovandola, l'aveva perduta per sempre.
Doriel Waldman, ebreo polacco che vive a New York, è un uomo solo, prigioniero dei ricordi e della memoria. L’Olocausto è una ferita insanabile nel suo passato. Vorrebbe dimenticare, ma non ci riesce. Dimenticare le fughe, i nascondigli, l’esistenza clandestina in un piccolo villaggio polacco, nascosto insieme al padre nel granaio di un contadino. Dimenticare la madre, una donna troppo bella, una prigione per i figli, che ha scelto la lotta partigiana trascurando la famiglia. Dimenticare i fratelli, vittime dei nazisti. Dopo la salvezza, la vita di Doriel è stata un continuo peregrinare, dalla Polonia all’Asia, militante in varie organizzazioni di aiuto ai diseredati, e poi viaggi di studio in Israele, in Africa. Insonne, solitario. Le tappe di un’esistenza che descrivono il percorso di un esilio.
Ma adesso ha deciso di fermarsi e mettere la sua vita in mano a una donna. È la psicoanalista Thérèse Goldschmidt. Lo prende in cura e accoglie le sue ossessioni e i suoi fantasmi, i sogni e gli incubi, le cose mai dette e le speranze. Forse non gli restituirà la pace del cuore, ma potrà curare i suoi ricordi.
Un romanzo magistrale, insieme racconto di vita e meditazione, dove, mescolando memoria e invenzione, Elie Wiesel approfondisce i temi chiave della sua vita di uomo e di scrittore: la lotta incessante tra memoria e oblio, la ricerca di una patria e di una identità, la responsabilità di essere sopravvissuti e il dovere di ricordare, in modo che l’orrore non si ripeta. Mai più.
Yedidyah è un giovane giornalista che lavora a New York nella redazione di un quotidiano. La sua specialità è la critica teatrale, è sposato con un'attrice ed è molto ben introdotto nel mondo del teatro newyorkese. Nessuno è più bravo di Yedidyah nel raccontare i successi effimeri, le glorie dimenticate, il fascino racchiuso nella nascita di una nuova stella e la malinconia che colora il suo crepuscolo. Ecco perché rimane estremamente sorpreso quando il suo capo gli affida un compito molto diverso dal solito: occuparsi della cronaca del processo di Werner Sonderberg, un giovane tedesco residente negli Stati Uniti. È stato accusato dell'omicidio di Hans Dunkelman, un suo lontano zio, trovato morto in fondo a un crepaccio nei monti Adirondack. Di fronte al giudice Sonderberg si è dichiarato colpevole e insieme non colpevole, scatenando l'attenzione morbosa di tutti i media. Perché Hans Dunkelman, che pareva solo un distinto anziano gentiluomo europeo, nascondeva molti segreti, riguardanti la sua vera identità e il suo coinvolgimento nella tragedia dell'Olocausto. Segreti che lui e il nipote hanno dovuto affrontare sull'orlo di quel crepaccio. Segreti che lo stesso Yedidyah ha paura di affrontare nel suo articolo, perché lo riportano indietro nel tempo, alla storia della sua famiglia, a una cicatrice che il tempo non ha ancora sanato. E che forse mai potrà sanare.
A New York, in un’afosa domenica di luglio, un uomo viene investito da un taxi e resta gravemente ferito. Risvegliatosi dal coma in un letto d’ospedale, assiste, spettatore indifferente e quasi ostile, ai disperati tentativi di guarirlo da parte dei medici e della donna che lo ama. Se il presente — il mondo inconsapevole dei vivi, con la sua promessa di serenità, l’amore di Kathleen, la benevola curiosità di un giovane dottore, l’affetto degli amici — vuole imporgli le sue ragioni, un passato di distruzione e morte lo reclama a sé e pretende i suoi diritti. In un caleidoscopio di ricordi, in cui all’infanzia nel villaggio ebraico si mescolano le esperienze della guerra e del dopoguerra, sfilano dinanzi a lui i volti delle vittime, gli uomini e le donne annientati durante l’Olocausto. Le voci dei morti, eco di un mondo scomparso per sempre, risuonano ben più reali e forti di quelle dei vivi, imponendogli l’imperativo della memoria, il dovere della testimonianza.
Vivere è una colpa, perché vivere significa dimenticare, significa accettare che, anche dopo Auschwitz, siano possibili la felicità e l’amore. In questo breve romanzo, teso ed essenziale, Elie Wiesel ripropone la lotta tra le ragioni della memoria e le ragioni della vita, la tragedia di chi è sopravvissuto e non riesce a perdonarselo.
Palestina, una calda sera d'autunno, un anno imprecisato tra la fine della Seconda guerra mondiale e il riconoscimento dello Stato di Israele. Là resistenza ebraica lotta in Terra Santa contro il mandato britannico. Gli inglesi impiccheranno all'alba il prigioniero David Ben Moshe, i clandestini ebrei risponderanno giustiziando a loro volta un ostaggio. L'ingrato compito tocca al giovanissimo Elisha, emigrato in Palestina dopo aver vissuto l'inferno dei lager. Durante la notte che precede l'esecuzione, la mente del ragazzo è visitata dai ricordi e vive il dramma di un'intera civiltà e di tutto un popolo...