
Il piccolo Ruben è un "giudeo cacasotto": così lo deridono i compagni di classe, fino a quando un giorno la scuola gli viene per sempre preclusa. Ma lui non ne fa un dramma. Meglio le lezioni private di clarinetto dal professor Nussbaum, uno che suonava con i Wiener Philarmoniker prima che lo cacciassero perché ebreo. Meglio gironzolare per le strade della città. Meglio starsene a casa, nonostante il clima in famiglia si faccia ogni giorno più cupo e agitato. Una notte, però, tutto precipita, arrivano i soldati e si possono raccogliere solo le cose più importanti, perché non c'è tempo, alla stazione c'è un treno che aspetta. Auschwitz ingoia gli ebrei, ma non Ruben. Il ragazzo viene salvato da un ufficiale delle SS, Klaus von Klausemberg, un raffinato melomane che si invaghisce del suo talento musicale. Il militare lo prende sotto la sua protezione, gli dà una certa libertà all'interno del lager, lo ospita nell'ospedale del campo. Ruben vive così una prigionia dorata e Klausemberg diventa per lui una specie di padre, protettivo e prodigo di consigli, oltre che un amico con cui suonare il prediletto Mozart. La tragica verità del lager affiorerà poco alla volta, insinuerà in Ruben prima dubbi e sospetti, poi inquietudini e orrori, in un crescendo di scoperte sconvolgenti, che, al momento della liberazione, si trasformeranno in un lutto assai difficile da elaborare. Solo due decenni più tardi, rivivendo attraverso un diario postumo la tragedia di Auschwitz, Ruben potrà scacciare i fantasmi.
Elezioni presidenziali del settembre 2027: in un'Italia futuribile (ma verosimile) devastata dal cambiamento climatico, non si presenta a votare quasi nessuno. Il pressoché totale astensionismo dà il via a una valanga di emergenze che si traducono in una crisi della democrazia, apparentemente irreversibile quando il premier eletto dal popolo - leader decisionista di una coalizione di destra - sembra svanire nel nulla. Mentre la magistratura indaga su una misteriosa serie di attentati, l'economia crolla e l'Unione Europea guarda con inorridita preoccupazione all'Italia: la Penisola è vittima di una escalation che la rende una democratura passatista e xenofoba e prendono piede le voci di complotti internazionali. A rovesciare le sorti potrebbe essere l'eroico gesto di un capitano della guardia costiera, immigrato albanese naturalizzato: un uomo d'ordine in crisi di coscienza. Un ritratto ironico della politica italiana, uno specchio deformante delle sue pulsioni più profonde e un lucido avvertimento su ciò che potremmo diventare: questo libro ci spiega che la fantapolitica non è poi così lontana come sembra.
Andrea detto Osso, Martina detta Pupetta, Marco detto Gaga, tre trentenni senza grazia di Dio, funzionano così: non sopportano le minchiate. Le minchiate e i pidocchi. E Lortica, il piccolo paese siciliano dove sono cresciuti e da cui sono andati via per inseguire studi lavori e amori, a Roma Berlino e Praga, ne è infestata. Il sindaco racconta minchiate, ma anche il comandante dei carabinieri, persino un ministro della Repubblica. Alla minchiata più grossa, una menzogna sui fratelli Bonanno, che a Lortica volevano aprire un negozio di fiori e per questo sono stati ammazzati dai pidocchi, i tre amici decidono di tornare in paese con un piano: istituire una squadra di sabotatori delle minchiate e mettere tutto a soqquadro assieme all'aiuto di Mario detto Mario, quarantenne scorbutico e idealista. Tra discoteche scalcagnate, musica elettronica rock e tarantelle, pupi cannoli e templi greci, il mare d'agosto e le campagne riarse, Montalbano e Il Gattopardo, attentati all'ordine pubblico e scazzottate indimenticabili, questa brigata di antieroi riesce a far esplodere molti luoghi comuni sulla Sicilia e sull'Italia. Fino a una rocambolesca sfida finale e una risposta tutta loro alla domanda: come li scacciamo questi pidocchi?
Andrea detto Osso, Martina detta Pupetta, Marco detto Gaga, tre trentenni senza grazia di Dio, funzionano così: non sopportano le minchiate. Le minchiate e i pidocchi. E Lortica, il piccolo paese siciliano dove sono cresciuti e da cui sono andati via per inseguire studi, lavori e amori, a Roma, Berlino e Praga, ne è infestata. Il sindaco racconta minchiate, ma anche il comandante dei carabinieri, persino un ministro della Repubblica. Alla minchiata più grossa, una menzogna sui fratelli Bonanno, che a Lortica volevano aprire un negozio di fiori e per questo sono stati ammazzati dai pidocchi, i tre amici decidono di tornare in paese con un piano: istituire una squadra di sabotatori delle minchiate e mettere tutto a soqquadro assieme all'aiuto di Mario detto Mario, quarantenne scorbutico e idealista. Tra discoteche scalcagnate, musica elettronica rock e tarantelle, pupi, cannoli e templi greci, il mare d'agosto e le campagne riarse, Montalbano e "Il Gattopardo", attentati all'ordine pubblico e scazzottate indimenticabili, questa brigata di antieroi riesce a far esplodere molti luoghi comuni sulla Sicilia e sull'Italia. Fino a una rocambolesca sfida finale e una risposta tutta loro alla domanda: come li scacciamo questi pidocchi?
«Non c'è un problema che un farmaco non curi, mamma lo dice sempre. A casa nostra non si parla, si prendono medicine. Così lei mi dà il Dulcolax ogni sera perché sono una bambina grassa. Due compresse, quattro, otto. E io non so che legame ci sia tra il Dulcolax e una bambina grassa, visto che non dimagrisco...». C'è un peso che non si può perdere, anche quando l'hai perso tutto. Matilde lo sa: la mamma, bulimica, passa le giornate a vomitare; lei ha cominciato a ingrassare quando aveva sei anni ed è affamata da una vita. A scuola elemosina biscotti, a casa ruba il pane, e intanto sogna che le taglino la mano. Ottanta chili a sedici anni, a diciotto quarantotto; Matilde va in America a studiare, splende, ma la fame e la paura le vengono dietro. Finché, dopo la morte della madre, il tracollo finanziario del padre e una relazione violenta, supera i centotrenta chili. E quando esce, c'è sempre qualcuno che la guarda con disprezzo. Allora Matilde si chiude in casa per tre anni, e sui social si finge normale. Ma che vuol dire normale? Un romanzo tra due lingue e due culture, tra gli anni Settanta e oggi. Un libro vorticoso tra perfezionismo, autolesionismo, menzogna e dipendenze.
"King Horn" è certamente nata come opera di intrattenimento che mirava a soddisfare i gusti di un pubblico bramoso di storie che tenessero con il fiato sospeso: il protagonista, infatti, si trova perennemente in situazioni pericolose e deve dimostrare ogni volta grande spirito di iniziativa per superare i diversi ostacoli. I suoi fruitori originari non erano però necessariamente di umile origine e di scarsa cultura ed erano in grado di apprezzare non solo il tenore degli eventi narrati ma anche la qualità della narrazione. L'anonimo autore ha allora adottato una tecnica compositiva apparentemente semplice, ma coerente e rigorosa: concentrandosi sempre su un singolo gesto e un singolo episodio, mostra un gusto che si potrebbe definire cinematografico nel collegamento delle azioni che accrescono progressivamente la statura dell'eroe fino alla conquista finale di un regno e di una regina. Questa traduzione costituisce pertanto una rivalutazione di "King Horn", che la tradizionale definizione di testo "popolare" ha spesso relegato tra le opere minori, interessanti più come testimonianze di un'epoca che per le loro qualità letterarie. L'analisi testuale svolta dalla curatrice ha rivelato invece tanto coerenza nella trama quanto vivacità e dinamismo nel racconto, il che consente di apprezzare le doti narrative del poeta e di rivalutare in generale l'attività del "jongleur", figura tipica dello spettacolo medievale.
Nella vita di una vedova insoddisfatta e della bella figlia adolescente, in una torpida cittadina americana senza nome e senza tempo, fa irruzione l'eccentrico e affascinante erpetologo Mitchell Flach. Porta con sé una passione insolita, un irridente anticonformismo, e un piccolo serpente selvatico. E ogni equilibrio minaccia di esplodere. Partito dagli Stati Uniti per l'Europa, T. M. Rives ha viaggiato tra Francia, Spagna, Romania e Danimarca, imparando molti mestieri e molte lingue, non ha più fatto ritorno in America e questo suo primo romanzo è stato pubblicato per la prima volta in Francia.
Immerso nella sordida atmosfera di un bordello della provincia di Vigo, un vecchio rievoca i suoi trascorsi di carceriere durante la guerra civile spagnola. Una galleria di iniquità ancor prima che di volti: le detenzioni arbitrarie, i maltrattamenti, le percosse, i prelevamenti notturni. Dentro le mura del carcere decide della vita e della morte dei prigionieri il caporalmaggiore Herbal. Questi non è cattivo, anzi, a modo suo è forse un uomo giusto, ma ligio ai regolamenti. A un certo punto, però le vite dei due si dividono: l'uno, dopo quindici anni di carcere, si trasferisce in Messico; l'altro abbruttito dalla vita di caserme e carcere, finisce a sua volta in prigione per aver ucciso un uomo...
Quelle di Rivas sono storie sbalzate in un mondo perduto tra le nuvole. Eppure contengono un brivido di concretezza, affondano dolcemente spietate nei sentimenti, nelle incomprensioni e negli stupori, mischiando ossessioni ultramoderne e atavici dolori. Rivas è soprattutto autore di racconti e qui sono riuniti i migliori delle tre raccolte più conosciute, sotto il titolo di un testo che ha ispirato nel 1999 il film di José Luis Cuerda La lingua delle farfalle, vicenda imperniata sul rapporto tra uno scolaro e un anziano maestro rurale, tra le contraddizioni della Spagna allo scoppio della Guerra civile.
Immerso nella sordida atmosfera di un bordello della Grazia spagnola, il vecchio Herbal si ritrova tra le mani un lapis rosso che gli fa venire in mente i suoi trascorsi di carceriere durante la guerra civile e le terribili iniquità di cui è stato complice e insieme testimone. Il lapis apparteneva a un detenuto, un pittore che se ne serviva per disegnare i volti dei suoi compagni di prigione. La memoria di Herbal ricompone immagini di crudeltà, torture, tradimenti, esecuzioni sommarie, un gruppo di passioni umane e disumane e una struggente storia d'amore. Ma nel ricordo del vecchio carceriere riemerge la più profonda paura del sovvertimento e l'ancestrale angoscia del nuovo che serpeggia nell'anima e nella storia.
Ezra Pound (Hailey 1885, Venezia 1972) è uno degli spartiacque della letteratura del Novecento: con l'epica dei suoi "Cantos" ha osato una "Divina Commedia" per il nostro tempo ed è stato, inoltre, un impareggiabile e generoso "cacciatore di talenti". Fu tra i primi a riconoscere e promuovere il genio di Joyce, T.S. Eliot e Hemingway. Eppure, il suo nome divide ancora ed è circondato da fantasmi e logori cliché che impediscono di toccare il cuore profondo della sua poesia e della sua umanità. Alessandro Rivali ha incontrato la figlia di Pound, Mary de Rachewiltz, nel castello di Brunnenburg, dove lei andò ad abitare nel dopoguerra, mentre il padre era detenuto nel manicomio criminale St. Elizabeths di Washington, accusato di tradimento dal governo americano. Proprio il castello avrebbe dovuto rappresentare un luogo dello spirito, una sorta di "EzUversity". Del resto Mary aveva appreso da Pound quanto alto fosse il valore dell'insegnamento; lui, prima della guerra, aveva chiesto alla giovanissima figlia di affrontare la traduzione di alcune parti dei "Cantos". La speranza di Mary era che, una volta libero, il padre potesse trovare rifugio nel silenzio di Brunnenburg e tornare a dedicarsi a ciò che più amava. L'approdo al castello nell'estate del '58 segnò in effetti una tappa decisiva nel lavoro di Pound, l'ultimo scorcio della sua vita lo avrebbe dedicato al compimento del "Paradiso", la parte finale del suo poema: frammenti così densi di verità e tenerezza da diventare il suo testamento più sincero. Ancora una volta era Dante la misura della sua ambizione. Ed è proprio intorno alla sezione conclusiva dei "Cantos" e al senso di solitudine che Pound avvertì al suo ritorno in Italia che ruotano queste conversazioni tra Alessandro Rivali e Mary de Rachewiltz, iniziate ormai più di nove anni fa. Un avvincente romanzo familiare e, allo stesso tempo, una immaginifica ascensione al Paradiso di Pound, per scovare infine quella luce che "come un barlume ci riconduca allo splendore".