
Marc, scultore affermato, è un quarantacinquenne di successo che non si fa mancare nulla: donne, alcol, droghe - fin quando il figlio Alexandre si suicida nel bel mezzo di una festa. L'incontro con Gloria sembra offrirgli una possibilità di riscatto. Decide di portarla a casa e prendersi cura di lei. Ma la ragazza scompare dopo avergli distrutto Vappartamento. Perché lo ha fatto? Chi è? Marc non immagina quanto della propria vita possa ancora volare in pezzi. Un Philippe Djian lucido e mortale come la lama di un rasoio.
Fatemeh ha quindici anni, e negli occhi e nel cuore si porta il ricordo della zia, uccisa sulla pubblica piazza. La sua colpa? Aver fatto l'amore con lo zio materno di Fatemeh quando era stata già promessa in sposa a un altro, un mullah. Adulterio, quindi, pur senza essere sposata. "La muta": così veniva chiamata questa zia tanto bella quanto silenziosa, che aveva scelto il silenzio come "arte di vivere", perché "tacere significava forse non tradire la verità", fatta di traumi troppo dolorosi da dire. E adesso tocca a Fatemeh, la nipote fedele. Sposata a quello stesso mullah cui era stata promessa in sposa la muta, costretta a subire la violenza sessuale di un uomo che non ama e le angherie delle sue altre mogli, ha ucciso il marito e il frutto di quell'amore violento - una bambina che avrebbe a sua volta subito il destino delle donne iraniane. In carcere, dunque, mentre attende la pena atroce che ha già portato via la muta, Fatemeh scrive il racconto della sua vicenda e rievoca quella della zia. Donne sole, impotenti, ma accomunate dalla volontà di opporsi al fondamentalismo islamico.
Anand e Nisha vivono felici nella Valle d'Argento, dove stanno studiando per apprendere le varie arti magiche che gli consentiranno un giorno di diventare Guaritori come il loro amato Maestro Abhaydatta. Un giorno Anand ha una visione paurosa e premonitrice: una povera donna di un villaggio remoto dell'India chiede disperatamente aiuto per liberarsi dallo spirito malvagio che ha soggiogato gli abitanti. Abhaydatta riceve l'incarico di partire per questa pericolosa missione e, pur contravvenendo agli ordini, Anand decide di non lasciarlo solo. In compagnia di Nisha e della Conchiglia magica, i due attraversano un portale magico e affrontano un viaggio nel tempo e nello spazio. Vengono catapultati in un'epoca lontana, nel Bengala dei nawab musulmani, dove assumono identità diverse da quelle originarie e dove tutto sembra obbedire a leggi inconsuete. Per sconfiggere il male che minaccia di distruggere il regno del passato e il villaggio del presente, sarà necessario l'aiuto di un altro oggetto magico, uno specchio, e la collaborazione inattesa di un giovane principe. E naturalmente servirà tutta la forza e il coraggio di cui Anand e i suoi compagni di avventura sono capaci.
Gli undici racconti che compongono il volume, propongono ritratti di donne indiane emigrate in America, tutte ugualmente "in bilico" perché vivono sulla propria pelle il conflitto fra l'antica società patriarcale e nuove vite dove sperimentare soddisfazioni e dolori inediti. Molte di loro sceglieranno di deludere le aspettative tradizionali, di andare a convivere, di liberarsi di un marito crudele o più semplicemente di indossare abiti occidentali. Ricomporre le loro esistenze secondo nuovi schemi non sarà né facile, né indolore.
La madre di Rakhi ha un dono: sa interpretare i sogni delle persone e leggere il loro destino. Rakhi invece, nata e cresciuta in America, si sente esclusa da tutto ciò che è indiano. Combatte ogni giorno con l'ex marito per l'affetto della figlioletta Jona, combatte per far sopravvivere il ristorante che ha aperto con l'amica Belle. Ma le sue battaglie sembrano di colpo superate di fronte agli eventi tragici della Storia, che la guidano verso una comprensione più profonda di sé e del proprio destino.
C'erano una volta due bambini: un futuro re e un povero bramino. I due crebbero insieme nella scuola di un grande saggio, ma venne il giorno in cui dovettero separarsi tra le lacrime. Il futuro re fece allora una promessa: quando si fossero rincontrati, metà delle sue ricchezze sarebbero state dell'altro. Poi gli anni passarono, e quando gli amici si rincontrarono si scoprirono acerrimi nemici; e la promessa che entrambi ricordavano non venne mantenuta; e il seme della Grande Guerra fu gettato. Comincia così l'epopea del Mahabarata, l'antico poema che tra mito e favola, tra racconto d'amore e trattato filosofico condensa la millenaria cultura indiana in un pantheon unico di eroi: da Krishna, il dio incarnato, a Vyasa, il profeta che ha già visto e scritto ogni cosa; da Dhri, nato dal fuoco per vendicare il vecchio padre, a Karna, eroe invincibile per gli uomini ma condannato dal suo oscuro passato. Un tesoro di storie ancora poco conosciuto che Chitra Divakaruni torna a raccontare per i lettori occidentali. È però nel ritratto della principessa Panchaali, causa prima e testimone privilegiata del conflitto, che la sapienza narrativa dell'autrice tocca il suo apice: scegliendo di affidare il racconto a una donna, alla donna più amata e odiata della mitologia indiana.
Abbiamo tutti una storia da raccontare. "Non credo che nessuno possa trascorrere la vita senza che gli capiti almeno una cosa speciale", dice Urna ai suoi compagni di viaggio. Ma è un viaggio da fermi quello che la ragazza e altre otto persone sono costrette a compiere. Si sono incontrati per caso solo poche ore prima, in una sala d'attesa nell'ufficio consolare di una città americana: a parte il funzionario e la sua segretaria, sono tutti lì per ottenere un visto per l'India. Devono partire quando all'improvviso il terremoto scuote l'edificio facendolo crollare: "fu come se un gigante avesse appoggiato le labbra sulle fondamenta e si fosse messo a urlare". Così quelli che dovevano essere viaggiatori per l'Oriente si ritrovano intrappolati tra le pericolanti mura di uno stanzino, con il rischio che il soffitto crolli da un momento all'altro, l'acqua invada i locali o una fuga di gas faccia esplodere tutto. Una nonna cinese che ha vissuto tanti anni in India e la sua nipotina punk e occidentalizzata, una coppia di bianchi unita più dalle reciproche debolezze che dall'amore, un giovane musulmano in cerca di risposte e un veterano ancora ossessionato dalle domande, due colleghi infedeli e Urna, una studentessa universitaria che sta preparando un esame sui Racconti di Canterbury... E proprio Urna ha un'idea: perché ognuno non racconta la propria storia, anzi la storia di una cosa speciale che è accaduta nella loro vita?
Orfana di entrambi i genitori, Korobi è stata cresciuta dai nonni come si conviene a una ragazza indiana di buona famiglia. Seria e rispettosa, porta però nel nome, "oleandro" in bengalese, la forza ostinata delle piante che sua madre tanto amava. È proprio questa tenacia a sostenerla quando, travolta da una rivelazione scioccante, a un passo dal matrimonio decide di partire per gli Stati Uniti nella speranza di far luce sulle proprie origini. A sua disposizione ha un mese di tempo e l'aiuto di Desai, un investigatore privato con base a New York. Poi dovrà rientrare in India e sposarsi. Ben presto, però, messo alla prova da una combinazione esplosiva di pressioni e fraintendimenti, il rapporto con il fidanzato Rajat comincia a vacillare. Parallelamente cresce la complicità con Vic, lo scanzonato nipote e assistente di Desai, che la accompagna e sostiene nelle delicate fasi della ricerca. Alla fine di un viaggio pieno di insidie e verità scomode, Korobi, più matura e consapevole dei propri desideri, imboccherà la sua strada senza lasciarsi tentare dall'alternativa più semplice.
C'è una storia d'amore importante, durata un anno e osteggiata da tutti, il primo grande amore e la sua fine. Perché Antonio è nero e per i genitori di lei il ragazzo sbagliato. E poi c'è la famiglia di Antonio, gli amici, la scuola e altri attimi del cuore. Ci sono incontri, amori, momenti che fanno crescere, istanti indimenticabili. "Fuori piove, dentro pure, passo a prenderti?" è la vita di un ragazzo raccontata di getto, inseguendo le emozioni, passando da un'immagine all'altra. Pagine cariche di sentimento, frasi che colpiscono il cuore e destinate a essere scritte e riscritte. Un racconto fatto di momenti singoli, come singole canzoni, che insieme fanno la playlist di una vita.
Questa è la storia di un ragazzo che non ha mai avuto la sua età. Non ha neanche un nome, e per comodità lo chiameremo Zero. In realtà non ha mai avuto nulla. Perché la sua è una vita tutta in sottrazione, che ha sempre tolto e ha dato poco. Zero non ha cittadinanza, non ha madre, non ha soldi, e non si concede neanche il lusso di pensare al futuro. Zero ha dovuto capire in fretta che certe cose non si possono chiedere ai genitori, che ciò che è giusto non è patrimonio di tutti. Perché la vita non ha nessun obbligo di darti quello che credi di meritare e non lo ha nemmeno chi ti ha messo al mondo. Gli anni di Zero, dai sette ai diciotto, i capitoli che scandiscono il romanzo, sono duri, sono anni che hanno il sapore della povertà e della periferia. Ma sono anche anni passati ad attraversare strade in bici, con il cellulare attaccato a una cassa per permettere agli altri di sentire la musica. In piedi sui pedali, a ridere in mezzo alla via. Pomeriggi a giocare a pallone, a sperimentare il sesso e a bruciarsi per amore. Sono anni passati in quartiere consapevoli però che l'unico modo per salvarsi e garantirsi un futuro è andare via perché se nuoti nel fango, alla fine ti sporchi. Ma quello che c'è fuori fa paura. Ci sono gli sguardi indiscreti sui bus, le persone che tengono più stretta la borsa quando ci si avvicina, le ragazze che aumentano il passo e cambiano strada quando ti incontrano. C'è un Paese che non ti riconosce, gente che non si ricorda che essere italiani non è un merito ma un diritto. Fuori c'è la frase che ti ripeteva sempre la mamma e che ti rimbomba in testa "i bianchi nei neri ci vedono sempre qualcosa di cattivo". Ma di Zero ce n'è uno, nessuno e centomila e con Non ho mai avuto la mia età Distefano ci regala uno spaccato dell'esistenza di tutti quegli Zeri che con la vita si sono sempre presi a pugni in faccia, consapevole che ce la devi fare sempre anche quando non ce la fai più.
Quando negli anni Venti conobbe Carl, Elisabeth Rother era veramente un fiore... un fiore germanico: folti capelli castani, naso fine, occhioni azzurri e labbra perfettamente scarnite. Bastava guardarla per capire che la sua famiglia doveva aver avuto ascendenze nobiliari. Carl, invece, aveva gli occhi ancora più grandi ma neri, un naso adunco, le ossa spesse. Suo padre era proprietario di un negozio di ferramenta in una cittadina dell'Alta Slesia. Nella sua famiglia gli uomini portavano lo zucchetto e le donne la parrucca, poiché erano ebrei da innumerevoli generazioni. Quando Carl ed Elisabeth si sposarono, Carl indossava l'uniforme, con tanto di medaglie e spadino alla cintola. Sembrava il classico gentiluomo tedesco dalle credenziali morali ineccepibili. E, del resto, era un medico rispettabile, un chirurgo di prim'ordine. Per la famiglia di Elisabeth, però, quel matrimonio non era soltanto un errore, era il primo passo verso il baratro. Ma Elisabeth amava il suo sposo ebreo, l'amava così tanto che quando nel '37 divennero tragicamente evidenti gli effetti della legge nazista "per la protezione del sangue e dell'onore tedesco", scappò col suo amato marito in America, nel New Jersey, una terra nuova ma barbara, una terra che non conosceva nobiltà, mentre i suoi fratelli diventavano gerarchi del regime.