
Sono trascorsi quarant'anni, ma la Luisona è ancora lì, a guardarci benevola e indigeribile dalla bacheca del Bar Sport. Come sono ancora lì, invecchiati di nemmeno un giorno e identici a se stessi, il tennico, appoggiato con un gomito al fondo del bancone, proprio accanto all'uomo con cappello, il professore dal bell'accento partenopeo, il ragioniere innamorato della cassiera prosperosa e il playboy sparaballe, e poi il nonno in giacca e cravatta, con l'occhio fisso sullo schermo del televisore spento, e il bimbo del gelato. Fuori, l'insegna del Bar Sport campeggia intermittente - anch'essa, una sicurezza. Quest'edizione speciale vuole rendere omaggio a un classico del comico che mantiene intatta la sua capacità di parlare di noi, dei nostri vizi, dei nostri tic e delle nostre debolezze, attraverso la lente deformante di Stefano Benni.
Un libro che affianca a 36 racconti di Erri De Luca altrettanti disegni (in bianco e nero e a colori) dell'artista Alessandro Mendini. Un duetto che rimanda a una nostra tradizione forte - basti pensare al connubio fra Rodari e Munari - e che qui comincia sempre con un'illustrazione, da cui poi il racconto prende liberamente l'abbrivio. "Quello che scrivo," dice De Luca, "dipende dal riflesso di uno che è preso alla sprovvista." E a stupire, a spiazzare sono quei disegni che fanno spalancare gli occhi come uno strappo nel cielo, fanno sentire nudi "come quei due nel primo giardino, dopo l'assaggio scippato dall'albero della conoscenza", perché "la suggestione è una manifestazione della verità". Erri De Luca e Alessandro Mendini iniziano quasi per gioco - ispirandosi ai disegni di un bambino caro a entrambi - e poi via via stabiliscono fra loro un dialogo di forme e parole serrato e ricco di senso, tracciano sulla pagina le proprie paure, le tentazioni, le fiere ostinazioni, e tutto un vivace campionario di "mostruosità terrestri". Compongono dunque un libro di eroismi quotidiani che scandaglia, attraverso percorsi tutt'altro che logici e prevedibili, il nostro più profondo sentire: facendoci avvertire il fiato dei mostri dietro le nostre spalle e al contempo consegnandoci le chiavi del serraglio dentro cui tenerli a bada.
C'è un'adolescenza "spensierata e forse banale e forse scontata", e poi c'è la malattia che all'improvviso divora tutto. Alla fine di quello smarrimento, Chiara - la protagonista di questo romanzo, il primo di Chiara Gamberale, che dell'autrice porta il nome e il cognome - sente che per riemergere, per ritrovare il filo dell'identità, non deve insistere a guardare in faccia il buio, ma piuttosto spostare lo sguardo sulle persone che la circondano. Perché non ci esauriamo nel nostro dolore, anzi: forse la nostra vera essenza continua ad agitarsi ai bordi del dolore, che nel caso di Chiara è quello di una terribile forma di anoressia e bulimia, "un dolore lungo e magro, in bianco e nero". Così, è un teatro dell'assurdo quello in cui il lettore entra all'urlo di "bisogna essere intensi", una girandola di sogni, amicizie, paure, buio che fa capolino da una sensibilità spiccata e originalissima. Chiara appare attraverso i legami con gli altri, che sia la scrittura dei diciotto diarietti riempiti insieme a Cinzia sui banchi di scuola o l'amicizia quasi d'amore con Emiliano, che sia la professoressa Ricca del liceo Socrate oppure il cane Jonathan, a cui "importa solo che io sia e ci sia". Gli anni dell'adolescenza scorrono attraverso una scrittura che rivela in controluce tutta la sofferenza, la fatica di vivere che riempie ogni storia di senso e di gratitudine.
Lei è una giovane gitana in fuga dalla famiglia per sottrarsi al matrimonio combinato con un uomo anziano, lui è un orologiaio che sta campeggiando sul confine e la accoglie nella propria tenda. L'incontro inaugura un'intesa fatta di dialoghi notturni sugli uomini e sulla vita, uno scambio di saperi e di visioni - lei che crede nel destino, nei segni, nel dio delle cose, lei che addestrava un orso e lo amava come il migliore degli amici; lui che si sente un ingranaggio dentro la macchina del mondo e che quel mondo interpreta secondo le regole dello Shangai, come se giocare fosse un modo per mettere ordine nel caos. Un'intesa che durerà a lungo, anche da lontano, e finirà per modificare l'esistenza di entrambi: uno scarto nel gioco, un bastoncino che si muove. Erri De Luca si mette su piste poco battute, su vite che si annodano e si sciolgono. Lo fa con una storia densa e lieve, dove ogni parola schiude significati più profondi, ogni frase è una porta di accesso prima di tutto a sé stessi, e nel farlo ci invita a un gioco calmo, paziente e lucido, nel quale anche una mossa impercettibile può cambiare il corso della partita.
La storia degli anni d'oro della casa editrice Einaudi attraverso il racconto di uno dei suoi più prestigiosi collaboratori. Una sequenza di ritratti di figure come Natalia Ginzburg, Cesare Pavese, Italo Calvino, Davide Lajolo, Carlo Emilio Gadda, Leonardo Sciascia, Primo Levi, Gianfranco Contini, Delio Cantimori, Carlo Dionisotti. Le speranze, le ambizioni, le passioni di un editore. "I migliori anni della nostra vita" è a suo modo un libro epico, e come tutti gli epos si porta appresso un valore di esemplarità cui le nuove generazioni hanno diritto di accedere. Ferrero, saggista e scrittore, è stato direttore editoriale di Einaudi e Garzanti, e direttore letterario di Mondadori. Dal 1998 è direttore della Fiera del Libro di Torino.
Una degustazione di vini piuttosto mediocri è la scena sulla quale si intrecciano i destini di Camilla Baresani, giornalista-scrittrice, e di Allan Bay, noto giornalista enogastronomico e autore di diversi libri di cucina. Durante la cena, Camilla è silenziosa e preoccupata, mentre Allan Bay e i suoi amici Paolo e Antonio - rispettivamente un intenditore di vini e un esteta della tavola - parlano di una fastosa "cena delle meraviglie" che da sempre hanno in mente di organizzare: la fidanzata di Antonio e la moglie di Paolo, stufe di sentirli descrivere nei particolari un progetto che sembra destinato a rimanere per sempre tale, li prendono un po' in giro. È qui che Camilla si scuote dalle sue tetre riflessioni per sfidare i tre amici a tradurre finalmente in realtà la loro idea: se entro quattro giorni riusciranno a organizzare quella cena perfetta, in grado di stupire e divertire i commensali, lei la racconterà nel suo libro. I tre uomini dapprima cercano di farsi concedere più tempo, ma Camilla è irremovibile e comincia così la fase esecutiva di quel progetto tanto lungamente accarezzato: c'è da fare la spesa,da decidere i vini,da scegliere le suppellettili. Teatro di questa mise en scène è la casa di Allan Bay, mentre la voce narrante è quella di Camilla che descrive con ironica leggerezza le ansie, i problemi, i piccoli incidenti di quella preparazione caotica e al tempo stesso precisa.
Nell'arco di dieci anni, 1997-2007, Giovanni Agosti ha accompagnato il lavoro di Giovanni Frangi, uno dei maggiori artisti italiani di oggi, nel segno di una comprensione che va ben oltre l'amicizia. Lungo il filo dei testi, che rappresentano tappe e punti a capo, si vede scorrere in presa diretta un pezzo di storia dell'Italia recente, tra città diverse (Roma, Firenze e soprattutto Milano). Ci sono molti paesaggi, descritti e dipinti; molti libri; molti film; un po' di musica. Mentre si rende visita a parecchi modelli illustri di critica, non solo del nostro paese, si assiste al progressivo mutare della ricerca artistica di Frangi e della scrittura che la rappresenta, in una fuga progressiva dalla superficie limitata del quadro in direzione di una più complessa rappresentazione approssimativa della realtà. E, al tempo delle giovinezze permanenti, il libro diventa, senza che l'autore e l'artista lo abbiano voluto, testimonianza primaria del difficile passaggio alla mezza età. È dunque, e prima di tutto, un buon viatico per il mestiere più difficile: l'invecchiare con decenza.
In breve
“Di fronte a montagne pericolanti, a precipizi ignoti, sopra lo spazio abbagliante del ghiacciaio, Annetta era un nulla, figurina labile disegnata a margine di un foglio. Insignificante vita nascosta nella distanza da quel mondo che solo poche ore prima l’aveva applaudita. Eppure, lo sapeva, ce l’avrebbe fatta. Bastava partire, senza pensarci.” La vera storia dell’aeronauta Giuseppe Charbonnet e della sua giovane sposa che il giorno del loro matrimonio spiccarono il volo a bordo di un aerostato. Un viaggio che fu un’odissea, tra tempeste e manovre azzardate, e un rovinoso atterraggio su una montagna sconosciuta.
Il libro
Torino, domenica 8 ottobre 1893. È il giorno della vita per Anna Demichelis, diciott’anni, bellissima, di umili origini. Si sposa con l’“ammiraglio dell’aria” Giuseppe Charbonnet, grande appassionato di aerostatica che ha promesso a tutta la cittadinanza uno spettacolo sensazionale: dopo la cerimonia spiccherà il volo con la moglie a bordo dell’aerostato Stella. Al grido di “Viva gli sposi aeronauti!”, il pallone si alza, diventa sempre più piccolo fino a sparire nel cielo. Sarà un’odissea, tra tempeste, manovre azzardate, un rovinoso atterraggio su una montagna che nessuno conosce. E poi la discesa lungo ghiacciai inondati di sole e minati da invisibili crepacci. Finché – qualcuno sostiene – interverrà una mano celeste a indicare la via. Il filo di questa storia vera, che occupò le cronache dei giornali per settimane, oggi si unisce con quello lasciato dall’autore durante le ricerche nei luoghi più remoti delle Alpi Graie, dove si svolsero i fatti e si condensò il mistero finale.
Ne esce un intreccio narrativo fulgido, sorprendente. Il romanzo di chi la montagna l’ha vissuta, scalata e raccontata.
E così accade che una studiosa come Chiara Frugoni lasci i sentieri della ricerca e torni a quelli di ciottoli che conducono a Solto, un piccolo paese dell'alta bergamasca, e alla casa dei nonni materni, dove ha passato tutte le estati della sua vita. Vi torna per raccontare un tempo che è stato quello dell'infanzia. Con un fortissimo senso delle radici e affidandosi alla nettezza dei sentimenti, Chiara Frugoni ricorda questo villaggio contadino prima della sua definitiva trasformazione: attingendo soprattutto a memorie private, ai personaggi famigliari che vogliono uscire da fotografie e quadri per prendere la parola e tornare a ripercorrere i propri destini. Chiara Frugoni illumina i bellissimi occhi chiari dello zio dottore, elegante anche per sentieri e strade infangate, scolpisce la laboriosa severità di Censo, il falegname, evoca la ruvida nonna Teresa e il pio nonno Serafino, si attarda su Diodata, sorella del nonno, scrittrice travolta dalle teorie dannunziane, vessillo di un'emancipazione senza libertà, morta chiedendo una coppa di champagne, rammenta in un nostalgico ritratto la misteriosa nonna Dina. La costellazione di personaggi si complica e si approfondisce lungo un arco temporale di un secolo. In questa "autobiografia con figure" si dispiega un mondo scomparso che è chiamato a dirci di cosa non deve andar priva la nostra memoria.
1936. Leo Piccioni ha appena superato l'esame di maturità. Ha il corpo sbilenco e fuor di squadra dell'ultima adolescenza, ma ha anche un temperamento eccitabile e nervoso. La sua famiglia medio borghese è soddisfatta e protettiva. Il padre si perde nei suoi studi e nei suoi esperimenti di biologia, la madre si compiace della merlettata rispettabilità delle convenzioni. Per fortuna c'è la zia Ester. Matura signorina con molta pratica del mondo, cova nella sua stanza i segreti incipriati di una femminilità a suo modo libera e ribelle. Antimussoliniana, lettrice di Freud in originale, cinefila, si lascia corteggiare da uomini sposati e non. E ha grandi idee in testa. Idee che arrivano quando scopre che il nipote ha, non si sa come, il potere di far scomparire cose. E persone. Durante la trasferta del padre in campagna per il periodico approvvigionamento di rane-cavie, nel casolare dove ha provato i primi spasimi d'amore, Leo ha sorpreso l'amor suo, la bella Argentina, e l'amico suo, Adriano, pomiciare forte. Ha guardato Adriano con intensità e collera e Adriano è sparito. Leo ha poi riprovato con portacenere e soprammobili e si è confidato con zia Ester. E zia Ester l'ha trasformato in mago: malgrado l'opposizione famigliare, gli ha costruito una carriera nei teatri d'avanspettacolo. Mentre sorpresa e sconcerto superano le pareti della casa Piccioni restano pur tuttavia inquietanti interrogativi...
L'autore racconta questa avventura di esplorazione, sul piano sensoriale e su quello intellettuale, fatta di scosse e di rimescolamenti, di un europeo trapiantato con tutto il proprio carico concettuale dal Vecchio Mondo nella sconosciuta Chicago. Come un detective, l'autore si trova d'improvviso a indagare i vari piani di realtà, esterni e interiori, che scopre via via che si addentra nella città che più di tutte porta i segni dell'"americanità". Il racconto ci trasmette un misto di sconcerto e commozione, ma il sentimento prevalente resta la meraviglia che afferra il lettore davanti ai protagonisti della storia americana, a questo popolo nuovo e giovane, e lo stupore non privo di sgomento innanzi alla potenza del capitalismo.
Con le armi del grande narratore, Ermanno Rea conduce un'indagine in forma di diario sulle ragioni del suicidio di Francesca Spada, giornalista culturale de "l'Unità" e critico musicale. A ospitare la vicenda è una Napoli lacerata dalla guerra fredda. L'inchiesta è resa difficile dalla distanza temporale da eventi avvenuti oltre trent'anni prima, in un momento in cui le coscienze si confrontavano in modo ossessivo con la politica. Una stagione per certi versi drammatica in cui si intersecano le ragioni esistenziali dei protagonisti, il destino di una città come Napoli (il cui porto era controllato di fatto dagli americani), le incertezze di una generazione appena uscita dalla guerra, alle prese per di più con un Partito comunista ancora fortemente ancorato all'identità stalinista. A poco a poco, con un andamento concentrico, si fa luce sulla complessità dei fatti che spinge la giovane giornalista al suo atto estremo. Da storia privata quindi l'indagine si fa storia collettiva di un'intera classe politica, di una generazione, delle sue speranze e dei suoi valori.