
Ci sono Natalie e David, in America, che per adottare un bambino sono pronti a volare dall'altra parte dell'oceano, in un orfanotrofio che mette in esposizione i bambini su internet. Ci sono Annalisa e Fausto, in Italia, che invece per un'adozione devono attraversare un interminabile e umiliante percorso burocratico. C'è Andrea, che frequenta una palestra dove si predica la risurrezione dei corpi e vive in un appartamento da single che comincia a stargli stretto. Poi ci sono Laura e Carlo, che abitano la stessa casa ma vivono due mondi incompatibili. Lui non può rinunciare ai suoi wargames con gli amici, lei non riesce a stare un giorno senza Andrea. Ma i "piccoli animali" in cerca di qualcuno che si prenda cura di loro sono ovunque in questa storia, e partendo da secoli e continenti diversi si ritrovano all'incrocio dei desideri più profondi. Stalin, padre del comunismo e della capricciosa Svetlana, a forza di attenzioni costringe la figlia prediletta a meditare la fuga. Il cadavere di Lenin riposa in un mausoleo sotto la piazza Rossa, e viene costantemente accudito dagli imbalsamatori. Maurizio Torchio costruisce una storia in cui i legami si intrecciano e si moltiplicano all'infinito, un romanzo di idee e sentimenti che dimostra come tutti, in modi diversi, sognano di essere adottati da qualcuno.
Il gioco è questo: si chiede ad alcuni grandi scrittori del nostro tempo di scegliere un personaggio storico o mitologico o letterario o immaginario pensandoci bene. Perché deve trattarsi non di un personaggio qualsiasi, ma del loro personaggio: rovistando nel tempo lungo della Storia possono trovare un amore lontano, un maestro, un doppio, un nemico: in ogni caso uno a cui hanno delle domande da fare. E anche inventarsi le risposte diventa una forma d'interrogazione o di rispecchiamento, se ci si lascia guidare da un'ossessione, da una simmetria, dall'ironia o dalla complicità. Così Baricco e Victoria Cabello scelgono Rossini, Camilleri Venerdì di Robinson Crusoe, Vinicio Capossela Bach, Carofiglio Tex Willer, Emma Dante Polifemo, Lucarelli Edgar Allan Poe, Odifreddi Galileo Galilei, Scurati Garibaldi, Walter Siti Ercole, Pincio Kurt Cobain, Gianmaria Testa Fred Buscagline. Un gioco nuovo che si misura con la tradizione: erano i primi anni Settanta quando la Rai rivolse lo stesso singolare invito ad alcuni dei maggiori scrittori e intellettuali italiani, tra cui Italo Calvino, Umberto Eco, Leonardo Sciascia, Giorgio Manganelli, Vittorio Sermonti, Edoardo Sanguinetti.
Un libro scanzonato, leggero e dottissimo per chi ama la poesia e per le folle che dal 1991, dalle università ai teatri alla televisione, hanno cominciato o ricominciato ad amare Dante per come Benigni lo ha narrato. Il distillato del racconto orale con cui l'attore comico ha accompagnato tutte le sue letture dantesche. Che in modo allegro e pieno di vita ci parla di figure retoriche e di accenti, di bellezza e di amore, di religione, di Dio e del peccato. Un libro, infine, che col sorriso sulle labbra ci rende felici di parlare la stessa lingua di Dante Alighieri. Con uno scritto di Umberto Eco.
A venti chilometri in automobile dal lavoro e dal supermercato, come accade ai bordi di ogni metropoli, la città continua e diventa un altro luogo: Cortesforza. Come la contea di Yoknapatawpha in Faulkner e la Regalpetra di Sciasela, Cortesforza è un luogo tanto più vero quanto più è immaginario. Qui si vive un esodo eterno, e la giornata è ridotta a tragitti in tangenziale verso casa. Il lavoro non si vede più, è dappertutto, ha invaso i comportamenti quotidiani, affettivi. Per dare un senso alle proprie esistenze, gli abitanti di Cortesforza accendono un mutuo, traslocano in una zona nuova o "mettono in cantiere un figlio". Ogni volta, però, lo svelarsi improvviso di una seppur piccola possibilità provoca una sconfitta irreversibile. Una commedia umana raccontata con sguardo lucido, impietoso, privo di giudizi. Nessuna apocalisse: solo un'inevitabile, comune disfatta.
In una piccola città di provincia, dove tutti sanno e nessuno dice, una storia senza tempo che svela l'anima di un mondo condannato.
Sara non sa liberarsi da un padre che la detesta. L'illusione della fuga è ciò che le rimane, mentre la sua famiglia di diabolici avvocati, che stringe nel pugno la città intera, celebra la propria dissoluzione.
Sara vive la cattiveria, la grettezza, l'aridità di cui sono capaci gli uomini quando si tratta di tenere le donne nel ruolo che per secoli hanno costruito per loro.
La storia di Sara ci fa attraversare questo inferno domestico, affascinati da una ragazza che ne porta, con tenerezza e coraggio, le stimmate.
Una straordinaria metafora della cecità del potere.
Sara si è alzata prima dell'alba. Poche ore di sonno agitato. L'odore di mele e cannella filtra dal forno: il permesso di preparare la crostata è il suo regalo per Natale. Sorveglia dallo sportello lo zucchero sciogliersi in caramello bruno. «Sta cuocendo bene...» pensa. «Troppo morbida», si erano lamentati i suoi l'anno prima.
Sulla sedia, avvolta dalla vestaglia di lana, le mani attorno alla tazza calda di caffellatte, Sara è raccolta nella calma profumata: le stanze sono ancora spogliate di voci aspre. Natale può anche finire cosí.
«Nessuno saprebbe dirlo a parole, ma tutti sentono che dentro quel battere, quello scordamento di corde e tamburi, dentro il ballo di quella piccola anima senza scarpe, attraverso il corpo macilento di Archina che comincia a muoversi in modo sempre più convulso, si sta riassumendo ogni loro singolo progetto di salvezza terrena».
La terra è quella aspra e impenetrabile del Salento. Il tempo è quello in cui le tarante mordevano nelle campagne inoculando il veleno nei corpi dei pizzicati, e bisognava metterli «a ballare» per liberarli dal male.
Con il suo primo romanzo, Teresa De Sio ci porta nel cuore del Salento premoderno degli anni Cinquanta e del suo orizzonte mitico fatto di credenze ataviche, di erbe miracolose e fatali, diavoli ragni, ma anche di miseria, arroganza di casta e saggezza insospettata. Ci racconta una storia in cui l'amore è una dolcezza preclusa, e la felicità «una zattera» che non arriva mai, o quasi. È la storia di Archina Solimene, una bambina morsicata, di sua sorella Filomena, «mansueta come una mucca», del loro padre Nunzio, di donna Aurelia la vammàna, che ha suoi modi antichi per scacciare il male.
Al centro c'è una notte maledetta di Carnevale, una vicenda che finirà per travolgere la vita di molti e scompaginare l'esistenza stessa del paese di Mangiamuso. Intorno c'è una trama fatta di tanti destini, tanti personaggi. Come se fosse necessario lo sguardo di tutti (il pavido don Filino, la parrucchiera-maga-etilista La Saputa, le avare gemelle Santo, Severino ragazzo-lupo), per riuscire a evocare quel male segreto, senza consolazione, che né i suoni magici della pizzica né le diavolerie che arrivano «dritte dritte dal futuro» possono guarire.
Dopo aver suonato la musica della taranta, con il suo tempo «fuori portata», dopo aver a lungo studiato quel mondo, Teresa De Sio ne ha fatto un potente romanzo per voci sole, che finisce per sciogliersi in nerissima storia corale.
Oppressa da una frenetica gestione del tempo, la nostra epoca ha un grande bisogno di pazienza, virtù protagonista in questo libro di Paolo Pejrone, senza alcun dubbio nostro "giardiniere" per eccellenza, principale responsabile della nuova attenzione culturale che circonda piante e giardini. Il lavoro del giardiniere richiede un senso diverso del tempo e del vivere: "in giardino non c'è fretta", come recita uno dei capitoli del libro. Il tempo della natura non può essere forzato e costretto. E, in questo modo, l'astuzia della ragione ci conduce a una sorta di "piccola ecologia del bello": il bello diventa un mezzo per raggiungere il buono. Il curare i fiori, il crescere con delicatezza e attenzione piante e alberi si rivela, nella sua necessaria lentezza, un modo per cambiare il nostro atteggiamento verso il tempo. "La pazienza del giardiniere" vuole chiarire e ribadire la concezione, imperniata sulla semplicità, che Pejrone ha del giardino, aborrendo e esecrando ogni sofisticazione, sia concreta che metaforica. Il libro evidenzia poi il rapporto che la società civile deve avere con il verde pubblico, denunciando il dilettantismo e l'arroganza con i quali spesso si agisce nel costruire e curare giardini e altri spazi comuni.
Maria ha trentadue anni, è una ragazza come tante, vive da sola e ha delle storie occasionali. Da tre anni ha deciso di aiutare a morire le persone che lo desiderano: malati terminali che vogliono abbreviare l'agonia, persone le cui sofferenze intaccano la dignità di essere umano. Pur lavorando in clandestinità, nell'ambiente medico è piuttosto famosa e molti si affidano a lei. Uomini e donne che aspettano le istruzioni per abbandonare la vita senza soffrire. Sono incontri strazianti in cui l'attesa della fine del dolore coincide con la separazione definitiva tra un marito e una moglie, tra una madre e un figlio. Un giorno però a richiedere il suo servizio è un settantenne in buona salute, che ritiene semplicemente di aver vissuto abbastanza. L'incontro metterà in discussione le convinzioni di Ilaria e la coinvolgerà in un dialogo serrato lungo il quale la relazione tra i due sembrerà infittirsi di sottintesi e ambiguità affettive.
«Ecco, intanto che scrivevo I malcontenti mi è venuto da pensare che io stavo cercando di raccontare la storia della relazione tra due quasi trentenni che provano a entrare, come si dice, nel mondo, e che questo tentativo, che ha a che fare con un festival strampalato, viene raccontato da uno che abita sotto di loro, uno che di questo tentativo vede in un certo senso solo i riflessi, i raggi che partono da quell'appartamento e arrivano fino a lui in forma di suoni, confessioni, reticenze e richieste d'aiuto.
E m'è tornata in mente la scena centrale di un film di Lubitsch, che è una scena in cui il protagonista maschile, innamorato di una donna misteriosamente scomparsa, invitato a pranzo da un amico, scopre che la moglie del suo amico è la donna di cui lui è innamorato. Questo pranzo viene raccontato da Lubitsch senza riprendere i protagonisti né la sala da pranzo: viene raccontato dalla cucina, in modo perfettamente esaustivo, attraverso i commenti di cuoco, cameriere e maggiordomo sullo stato in cui tornano indietro le varie pietanze, e lo spettatore ha l'impressione di essere davanti a un triplo salto mortale molto ben eseguito.
Ecco, intanto che scrivevo I malcontenti mi è venuto da pensare che la relazione tra Nina e Giovanni, a esser capaci, bisognava raccontarla come quel pranzo di Lubitsch.
Il mondo in cui si muovono Nina, Giovanni e gli altri personaggi che ci son nel romanzo è un mondo stranissimo, un mondo nel quale il compito di chi ha meno di quarantacinque anni non è di contribuire a un perfezionamento del mondo stesso, né (ci mancherebbe) a un ribaltamento o a un qualsivoglia cambiamento di rotta.
In questo mondo, quello che da venticinque anni si chiede a chi a questo mondo si affaccia, è di mettersi lì e di non rompere troppo i maroni.
E loro, bravissimi, si mettono lì e non rompono troppo i maroni».
La storia di un amore che frana raccontata da un vicino di casa.
La storia di una generazione viva e irrisolta.
La storia di un festival meraviglioso e impossibile: il festival dei Malcontenti.
«Si ricordava che era occupato a pensare a una cosa alla quale non aveva mai pensato, che camminare con una finestra sottobraccio ti toglie tutto l'imbarazzo che uno ha di solito nel camminare. È come se tu avessi una guida, - diceva Giovanni, - avendo una finestra sottobraccio, è come se il tuo andare avesse un senso».
La storia di Tönle Bintarn, contadino veneto, pastore, contrabbandiere ed eterno fuggiasco è l'odissea di un uomo che tra la fine dell'Ottocento e la Grande Guerra rimane coinvolto nei grandi eventi della Storia e combatte una battaglia solitaria per la sopravvivenza.
L'anno della vittoria, continuazione ideale della Storia di Tönle, è quello che va dal novembre 1918 all'inverno successivo e racconta di una famiglia e di un paese che devono risollevarsi dall'immane naufragio della guerra.
A concludere la Trilogia dell'Altipiano, Le stagioni di Giacomo: in una contrada uscita stremata dalla Grande Guerra, un giovane cerca di sopravvivere facendo tanti mestieri, per ultimo il recuperante.
Nel silenzio dei monti, alla ricerca di residuati bellici, Giacomo impara a conoscere la natura e a decifrarne il linguaggio segreto.
Con uno stile secco e incisivo, una leggerezza e un ritmo davvero unici, in questi tre romanzi composti in tempi diversi eppure legati fra loro da nessi molto forti, Rigoni Stern ci restituisce un mondo di memorie ancora integro, dando voce alle cose, alle persone, alla natura nei loro aspetti piú autentici, testimonianze di un'umanità di confine che vince nonostante la Storia.
«Una bambina brutta è grata a tutti per il bene che le vogliono, sta al suo posto, ringrazia per i regali che sono proprio quelli giusti per lei, è sempre felice di una proposta che le viene rivolta, non chiede attenzioni o coccole, si tiene in buona salute, almeno non dà preoccupazioni dal momento che non può dare soddisfazioni.
Una bambina brutta vede, osserva, indaga, ascolta, percepisce, intuisce; in ogni inflessione di voce, espressione del viso, gesto sfuggito al controllo, in ogni silenzio breve o lungo, cerca un indizio che la riguardi, nel bene e nel male. Teme di ascoltare qualcosa che confermi quello che sa già, e cioè che la sua esistenza è una vera disgrazia.
Spera di sentire una parola che la assolva, fosse pure di pietà.
Una bambina brutta è figlia del caso, della fatalità, del destino, di uno scherzo della natura. Di certo non è figlia di Dio».
Rebecca è nata irreparabilmente brutta. Sua madre dopo il parto non l'ha mai presa in braccio e si è sigillata in se stessa. Suo padre ha lasciato che accadesse.
A prendersi cura di lei, la bella e impetuosa zia Erminia, il cui affetto nasconde però qualcosa di tremendo. E la tata Maddalena, saggia e piangente, che la ama con la forza di un bisogno.
Ma Rebecca ha mani perfette e talento per il pianoforte. L'incontro con la «vecchia signora» De Lellis, celebre musicista da anni isolata in casa, offre a Rebecca uno sguardo nuovo sulla storia di dolore che segna la sua famiglia, ma anche la grazia di una vita possibile.
La vita accanto racconta la nostra inettitudine alla vita, da cui solo le passioni possono riscattarci.
Con una scrittura limpida e colta. Con personaggi buffi e veri, memorabili. Con la sapiente levità di una favola.
Anno Domini 1555. Sopravvissuto a quarant'anni di lotte che hanno sconvolto l'Europa, un eretico dai mille nomi racconta la sua storia e quella del suo nemico, Q. Predicatori, mercenari, banchieri, stampatori di libri proibiti, principi e papi compongono l'affresco dei tumultuosi anni delle guerre di religione: dalla Germania di Lutero, al regno anabattista di Münster, all'Italia insidiata dall'Inquisizione. "Q" è l'esordio narrativo del rivoluzionario collettivo ora noto come Wu Ming.

