
"All'uomo non conviene considerare, riguardo a se stesso e riguardo alle altre cose, se non ciò che è l'ottimo e l'eccellente; e inevitabilmente dovrebbe conoscere anche il peggio, giacché la conoscenza del meglio e del peggio è la medesima" dice Platone in un passo del Fedone. Tuttavia, aggiunge Sgalambro in questo libro ad alta temperatura speculativa, la filosofia si è invece legata strettamente solo al "meglio", tanto da identificarvisi, e lo stesso Platone non ha affrontato minimamente la conoscenza del peggio che raccomandava. Vi è stato, certo, un "pessimismo che si è assunto il compito di trattare del pessimum, ma passando attraverso la sofferenza", e facendoci pagare i "lugubri stati d'animo del pessimista", mentre "solo dopo il dolore compare il vero pessimismo". Verso quest'ultimo, dunque, non può che condurci un "fanatico della verità" come Sgalambro: il metodo che Sgalambro utilizza assomiglia molto a un libero flusso di un pensiero erratico che si sviluppa attraverso contrappunti capaci di suscitare inattese accensioni nella mente del lettore. Ma per tornare sempre, lungo un percorso le cui diversioni compongono in realtà un disegno di mirabile coerenza, al tema dominante, fulcro di un'opera filosofica fra le più notevoli dei nostri tempi. E non senza un sentimento di contagiosa euforia.
L'autonecrologia, osserva Lodovico Terzi, "è trasgressiva, narcisistica, creativa, e presuppone due qualità squisitamente letterarie: il gusto del paradosso (come autore dell'annuncio funebre il morto ruba la parte al vivo) e un incoercibile protagonismo (nemmeno da morto il morto è disposto a cedere la parola)". Jonathan Swift, a cui non fanno difetto né l'uno né l'altro, va ben oltre e nel 1731 si diverte (con il suo solito spirito feroce) a mettere in scena la propria morte e tutte le reazioni che susciterà, negli estimatori come nei detrattori: dall'insofferenza dei congiunti per l'eccessivo prolungarsi dell'agonia, al compiacimento di chi al confronto con il moribondo si sente vivo e sano, allo sgomento di chi nella sua imminente dipartita vede profilarsi la propria, fino al "compianto" (si fa per dire) della regina in persona, che nel ricevere la notizia esclama: "Davvero se n'è andato? Era ora! / È morto, dici? Be', marcisca pure". La beffarda vena filosofica e morale che intride questo testo ha ispirato il traduttore a riprendere i vari temi toccati da Swift - l'amore e il potere, l'amicizia e l'ambizione personale, lo slancio morale e i meandri dell'ipocrisia - e a intercalare alla lettura dei versi (in quelle "pause naturali" che la lettura stessa sottintende) una serie di riflessioni, o digressioni. Ne risulta un piccolo libro originale, bizzarro e intrigante - una sorta di dialogo fra il grande scrittore satirico del Settecento e il suo estroso interprete moderno.
Mentre l'azione si dipana, mutandosi in un potente apologo, il Vice - il commissario di polizia protagonista di questo romanzo - tiene sempre nella mente l'incisione di Dürer intitolata "Il cavaliere, la morte e il diavolo", che lo ha accompagnato sulle pareti di tante stanze, nelle sue peregrinazioni da un ufficio all'altro, come se in quell'immagine si celasse il segreto di ciò che avviene intorno a lui. Solo che il mondo, ormai, sembra poter fare a meno del Diavolo. Forse perché "il Diavolo era talmente stanco da lasciar tutto agli uomini, che sapevano fare meglio di lui".
Il giornale dei sopralluoghi per "Bello, onesto, emigrato Australia" diventa l'ilare resoconto della nascita di un film, e della circospetta esplorazione di un continente lontanissimo. Il testo ritrovato di un maestro della commedia all'italiana - lo sceneggiatore principe di Alberto Sordi.
"Aprendo questo volume" scrive Margherita Pieracci Harwell "si ritroverà la Campo che conosciamo ... ma anche una affascinante figura nuova, di cui brilla a tratti la giocosità - che a detta di tutti ne iridava la conversazione, ma fin qui non avevamo visto trapassare nella scrittura - o d'improvviso scoppietta la maliziosa civetteria ... Sono la voce, queste lettere, di una limpida, calda, forte amicizia, prezioso residuo salvato all'estinguersi della gran fiamma di un amore che aveva formato e tormentato chi le scrive nell'arduo passaggio dall'adolescenza all'età illuminata dal sole al suo zenit". Cristina Campo e Leone Traverso (insigne grecista e germanista) avevano formato per anni "una coppia perfetta" - lui dotato di fascino, non solo intellettuale, lei di bellezza e di grazia - al centro di quella cerchia di scrittori fiorentini di cui nel dopoguerra facevano parte, fra gli altri, Tommaso Landolfi e Mario Luzi. Poi il rapporto si era incrinato, per chiudersi definitivamente nel 1956: troppo diversi, e lontani, il "rigore di spada" che contraddistingueva Cristina e la "mollezza veneta" che le sembrava di scorgere in lui. Tuttavia, a legare Cristina e Leone (a cui lei stessa aveva dato il soprannome di Bul) fu ancora per lungo tempo - e ne testimonia questa corrispondenza - una duratura comunione di gusti e di disgusti, la passione per la perfezione dello stile, e soprattutto la fedeltà profonda a una certa idea, alta ed esigente, della letteratura.
Infanzie 'favolose', ragazze 'deliziose', ville sepolte fra gli alberi, parchi, piscine, tennis, biblioteche, vigne in collina... Cacce, boschi, cantine sociali, partite a carte, lezioni d'inglese... Piste da ballo, lirica del Novecento, alberghi di sfollati, studi d'avvocato, licei bombardati, desolate vie provinciali negli anni più bui della guerra e del dopoguerra, crocicchi illuminati dalla luna, nonne con soldi, cavalli, spiagge, film con Greta Garbo, corse in automobile... Studi universitari fatti male, trasalimenti sessuali confusi, droghine fatte in casa... Fanciulline scatenate o svampite, ragazzini pensierosi e giovani scemini che incontrano il primo amore insieme al primo dolore... Dignitose parsimonie... È uno sconfinato patrimonio d'affetti sentimentali e ridicoli accumulati o sperperati fra le ultime estati lunghe in campagna e le prime vacanze brevi al mare...
Gadda, che come uno dei suoi celebri doppi - Angeloni, il solitario commendatore prosciuttòfilo del Pasticciaccio - apparteneva alla categoria di coloro che "vissero e morirono foglie secche", dei celibi intransigenti insomma, non ha mai proliferato né intrattenuto progenie alcuna, neppure in senso lato. Eppure il destino sembra averlo, per vie misteriose, risarcito. Negli anni Cinquanta, quando molti critici lo consideravano solo un "eccentrico", per non dire un umorista "cincischiato", Gadda trova in una piccola schiera di scrittori 'irregolari' e 'sperimentali', degli ammiratori disinteressati ed entusiasti. Fra quei 'nipotini' - secondo una definizione diventata col tempo categoria critica - c'è soprattutto Alberto Arbasino, che dal grande macaronico sembra avere ereditato non solo la derisoria violenza della scrittura, ma anche la cultura cosmopolita ed eclettica, lo humour travolgente, l'insofferenza per la grammatica dei Pedanti, l'estraneità, in altre parole, alla sciapa 'minestrina collettiva'. Finalmente, all'Ingegnere Arbasino ha dedicato un ritratto che forse è anche un autoritratto, dove ora gli lascia la parola e si sottrae come uno scrupoloso, zelante scrivano, ora si concede appassionati esercizi di lettura, ora mescola alla voce di Gadda la sua, regalando, briosi calembours, ricordi personali e amene celie, ironiche filologie e fonologie, "l'aura del tempo" che i giovani fans di allora cercavano di trasmettere a quel signore in blu ritroso ma pieno di curiosità.
Ne ha sempre avuti parecchi di guai, Antoni Sarmentu. Prima e dopo quel terribile giorno di settembre in cui salì al santuario della Madonna di Gonare a chiederle la grazia di trovare un marito per la figlia e di fermare il tumore che gli stava consumando la moglie. D'improvviso, al momento della comunione, cominciarono a cadere chicchi di grandine grossi come ghiande, e un fulmine penetrò nella chiesa e colpì proprio lui, Antoni, riducendolo come "uno stoppino bruciato" e lasciandogli, al posto della filigrana dorata della catenina di battesimo, "un sottile ricamo alla base del collo". Da quel giorno a Oropische tutti lo chiamarono Collodoro. Ma il fulmine (o forse la Madonna stessa) gli aveva lasciato un altro dono, più inquietante e più segreto: il temibile potere di guardare dentro la testa della gente, e di vedere i loro peccati. A cominciare da quelli del parroco, don Basiliu, che di tutti i peccatori del paese era il più abietto e il più infido. Ma il giorno di Ferragosto, ventiquattr'ore prima dell'esproprio delle terre di Monte Piludu, l'intero paese si metterà in marcia contro funzionari, carabinieri, speculatori. E sarà una battaglia memorabile.
La prima notte che Marco trascorre a Tokyo è sorprendentemente silenziosa - e il suo sonno "simile a quelli della convalescenza o della salvezza". Mai, tuttavia, la singolarità delle sue inchieste è stata così lampante, e mai il loro fascino così intenso: a raccontarci il Giappone, "pianeta rotante nel silenzio e nella solitudine della volta celeste", è infatti un doppio dell'autore, in fuga da un paese sconvolto da "millenni di furti, ricatti e assassinii". E a muoverlo è quello stesso bisogno di essenzialità, di rigenerazione, che innerva uno dei vertici della narrativa di Parise, i Sillabati. Attraverso il suo sguardo infantile, il lettore conoscerà le più diverse facce del Giappone: dai templi di Kyoto, dove si può percepire "il distacco dal corpo che avviene per poco ossigeno", ai lottatori di sumo, che sprigionano la più alta forma di espressività fisiologica; dall'atelier dove il vecchio Moriu-guchi dipinge chimono con sicurezza sublime, "simile al lavoro appena frusciante dei bachi da seta nei granai", ai cantanti di gagaku, nella cui voce risuonano i "movimenti lentissimi degli immensi blocchi gelidi dell'era glaciale". E scoprirà l'anima segreta di un paese che cela, dietro la maschera occidentale, un "classicismo cellulare".
Mario Brelich è stato uno scrittore del tutto anomalo nel paesaggio letterario italiano: e non solo perché l'intera sua opera narrativa è dedicata a figure ed episodi delle Sacre Scritture, ma anche (o forse soprattutto) perché ognuno dei "capitoli" di quest'opera ci appare come un oggetto tanto più malioso quanto più difficile da etichettare. Questa volta Brelich si misura con Giuditta -l'unica fra tutte le eroine dell'antichità ad "affidare la salvezza della sua città, del suo popolo e dell'avvenire del suo Dio esclusivamente alla propria bellezza" - e mentre ne ripercorre la vicenda con la consueta, affabile scioltezza, la indaga con gli strumenti più vari (non ultimo la psicoanalisi); e poiché ha la scienza del teologo e la grazia del narratore, riesce a farci penetrare nel mistero di questa seducente eroina-avventuriera, in quel miscuglio di castità austera e irresistibile sex-appeal che non a caso ha ispirato alcuni fra i più grandi dei "maestri antichi".
Quando incontra Umberto Boccioni, Vittoria Colonna ha trentacinque anni, e da quindici è la moglie di Leone Caetani di Teano. Un'unione, la loro, che suggellava il riavvicinamento fra due grandi dinastie romane acerrime rivali sin dal Medioevo; e tuttavia non esattamente felice: lei passa gran parte del suo tempo prendendo lezioni di pittura, viaggiando su e giù per l'Europa e frequentando il gran mondo; Leone si occupa delle sue terre di Cisterna o persegue i suoi studi di islamistica nella biblioteca di palazzo Caetani. Nel giugno del 1916, mentre Leone è al fronte, Vittoria trascorre le sue giornate nella quiete irreale dell'Isolino di San Giovanni, la più piccola delle Borromee, che ha affittato per l'estate, occupandosi del giardino e scrivendo lettere al marito. Umberto Boccioni (che all'epoca ha trentatré anni, è in attesa di tornare a combattere e sta consumando una difficile rottura con il gruppo futurista) è ospite dei marchesi della Valle di Casanova a Villa San Remigio, sulla sponda orientale del Lago Maggiore. Dopo un primo incontro dai Casanova, il tormentato Boccioni e la irrequieta nobildonna si vedranno ogni giorno. E, nel corso del mese di luglio, Boccioni sarà a due riprese ospite di Vittoria all'Isolino. L'ultimo soggiorno si conclude il 23 luglio; meno di un mese dopo, il 17 agosto, morirà a causa di una caduta da cavallo; nel suo portafogli, l'ultima delle lettere ricevute da Vittoria.
I giochi sono pericolosi quasi per definizione, ma a volte lo sono in un modo che alle definizioni si sottrae. Quando Irene riceve dall'America, nel suo bel cavolo di plastica, la bambola che aspettava, sa già che per quella creatura di stoffa vagamente orrifica dovrà essere, rispettando alla lettera le ferree regole imposte dalla fabbrica, una vera madre, così come vere madri già sono, o stanno per diventare, tutte le sue compagne di classe, al collegio del Sacro Cuore di Gesù. Quello che Irene ancora ignora è solo fino a che punto si spingerà la simulazione. Quanto a Luca, il protagonista del secondo racconto che compone questo libro, ha deciso che le giovanissime, esotiche abitanti della pineta dietro casa sua sono in realtà le Winx, e, sentendosi dire dalla più bella, Flora, quante monete dovrà sborsare per passare qualche minuto con lei, sa dove e come procurarsele. Ma ancora non sa in cosa esattamente consista il misterioso 'charmix' di quelle strane bambole. Benché separate nel tempo e nello spazio (la prima si svolge a Roma negli anni Ottanta, la seconda oggi, sul litorale del Lazio), le due storie di Letizia Muratori vanno considerate indivisibili. Lette in sequenza, si riveleranno infatti per ciò che sono: il copione di una commedia scalena e corrosiva, una storia quasi di fantasmi che costringe chi la legge a vedere il mondo adulto sempre e solo con gli occhi dei bambini - ma che per un singolarissimo gioco di sponda restituisce, di quel mondo, un'immagine che ferisce e persuade.