
In un paese non nominato eppure a tutti familiare, una successione di assassinii e di funerali ufficiali scandisce la vita pubblica. Con assoluta chiarezza, ma su un fondo tenebroso, si disegna in questa storia la fisionomia di un anonimo protagonista, quel potere che - nelle parole di Sciascia "sempre più digrada nella impenetrabile forma di una concatenazione che approssimativamente possiamo dire mafiosa."
Antoine, che con una parrucca bianca e una redingote di raso azzurro vola in pallone; Squerloz, il costruttore di barche che vive in cantina con un barbagianni, una civetta e un topo bianco; Edera, che tutti credono una qualsiasi ragazza bionda mentre in lei "c'è molto di più e che non si può dire perché è mistero"; Leopolda e Massimino, coi loro occhi di vetro, la pelle di stracci e un corteo di infinite, orribili malattie. Sono gli esseri che popolano il mondo del ragazzo di quindici anni e del suo inseparabile amico Fiore, che non si rassegna alla sua morte e continua a cercarlo. Un mondo di fiabesche macerie, giornate spopolate dai bombardamenti, riti al dio Moloch, cinema dai sedili di latta storti e scrostati.
Da una parte una madre asserragliata dalla solitudine, chiusa fra quattro mura che emanano freddo e infelicità, in una casa di campagna dove nulla pare funzioni. Dall'altra una figlia dalla vita scombinata, che sente ogni settimana il dovere, angoscioso e astioso, di visitare la vecchia madre. E che ora vuole risolvere i suoi crucci trovandole una badante. Ma la madre resiste. Il conflitto, al tempo stesso lacerante e orribilmente comico, culmina in una festa per anziani, sgangherata e grottesca, finché tutto si raggela in un'istantanea di vero dramma.
Due lunghi racconti in cui Flaiano rappresenta la crisi dell'individuo, sullo sfondo di una Roma sempre più desolata. In "Una e una notte", Graziano, giornalista in crisi, inviato sul luogo in cui è atterrato un disco volante, scoprirà quanto sia vana l'illusione che un evento straordinario possa mutare la propria vita e si convincerà che il suo disagio non ha via d'uscita. Anche Adriano, il protagonista dai forti tratti autobiografici della seconda storia, è un intellettuale in crisi. I suoi inquieti pellegrinaggi lo portano ad incontrare l'amico regista al lavoro (Federico Fellini) o sulle spiagge di Fregene dove incontra i semplici pescatori.
Il volume ricostruisce gli eventi del famoso "processo della collana" a partire dagli interrogatori del processo e dai numerosi studi condotti sull'argomento. Uno scandalo che ha affascinato memorialisti e romanzieri, drammaturghi e saggisti, storici ed eruditi.
Scritti fra il 1934 e il 1936 e subito raccolti in volume, i racconti di Angelici dolori irrompono nel panorama letterario dell'epoca con tutta la forza della loro conturbante eccentricità: "Io vedevo allora tutto il mondo come una stranezza e una meraviglia quasi non sopportabili, ove non si desse loro una espressione, una voce ordinata" spiegherà anni dopo la Ortese. E non è difficile immaginare con quale stupore i lettori accogliessero, da parte di una scrittrice poco più che ventenne e sconosciuta, le fiammate di ribellione contro la "terribile e invadente Civiltà" nemica dei sogni e della libertà; e la metamorfosi di Napoli in città "estatica", dove miracolosamente è dato vedere il quartiere pezzente del Pilar "scintillare di cupole colorate sul cielo d'oro, e i campanili con le bocche aperte, e i balconi delle case-streghe fioriti d'erba e fanciulle"; e la violenza inaudita di una passione che è gioia spaventosa, dolce morte, adorazione mistica, e che per la radicale sproporzione fra il valore totale dell'essere amato e quello irrisorio dell'amante sembra attingere alla lirica provenzale; e, più in generale, il clima di fantasmagorica réverie che ammanta scenari e personaggi, umani e angelici, traducendo in irrequietezza visionaria la più segreta ambizione della giovane Ortese: afferrare un'immagine e riprodurla "viva, grande, colorata, con tutti i caratteri precisi della realtà e tutti i deliziosi ondeggiamenti dell'irreale".
Tiepolo passò la vita a eseguire opere su commissione in chiese, palazzi, ville. Talvolta affrescando vasti soffitti, come per la Residenz di Würzburg o per il Palazzo Reale di Madrid. Intorno scorreva la vita di un'epoca - il Settecento - che lo apprezzò e ammirò, ma senza troppo preoccuparsi di capirlo. Così fu più facile per Tiepolo sfuggirgli, quando volle dedicarsi a effigiare il suo segreto, che tale è rimasto, in una sequenza di trentatré incisioni: i Capricci e gli Scherzi. Ciascuno di quei fogli è il capitolo di un romanzo nero, abbagliante e muto, popolato da personaggi disparati e sconcertanti: efebi fiorenti, Satiresse, Orientali esoterici, gufi, serpenti e anche Pulcinella e Morte. Li ritroveremo tutti nelle pagine di questo libro, insieme a Venere, Tempo, Mosè, numerosi angeli, Armida, Cleopatra e Beatrice di Burgundia: una variegata, zingaresca compagnia sempre in cammino, "tribù profetica dalle pupille ardenti", come suona un verso di Baudelaire. Oltre che un intermezzo smagliante nella storia della pittura, Tiepolo fu un modo di manifestarsi delle forme, un certo stile nell'ostentarsi della loro sfida. Le sue figure rivelavano una fluidità senza ostacoli e senza sforzi. Accedevano a tutti i cieli, senza dimenticare la terra, incarnando per un'ultima volta quella virtù suprema della civiltà italiana che è stata la "sprezzatura".
«Io ho una gamba di legno. Ragion per cui odio le donne»: così esordisce il protagonista di «L'eterna provincia» prima di travolgerci col disegno di una gelida vendetta: farà innamorare alla follia una donna e poi la umilierà con lo strumento della sua stessa menomazione per punire, attraverso di lei, tutte le donne. Ma al momento decisivo, quando la prescelta sarà nuda e pudica di fronte a lui, l'imprevedibile accadrà. Nella vita, del resto, tutto è incerto. contraddittorio. Persino gli affetti familiari e la letteratura offrono solo irragionevoli appigli, talché in «I due figli di Stefano» allo scrittore che ha appena perso il figlio indesiderato, un tesserino mostruoso e infernale, non resta che contemplare anche il naufragio del poema drammatico cui era affidata la speranza di sfuggire alla realtà quotidiana; e il «La dea cieca o veggente» la poesia è ridotta a gioco combinatorio, a roulette alla rovescia. La silloge di tredici racconti «In società» è apparsa per la prima volta nel 1962.
L'aborto, l'amor di patria, Carosello e l'insegnamento del latino, le raccomandazioni e il caso Tortora: su temi come questi Manganelli è intervenuto, nel corso degli anni Settanta e Ottanta, usando un'arma che gli era massimamente congeniale - il "corsivo fulminante". E da quei corsivi sbiechi e solitari emerge un ritratto dell'Italia che oggi più che mai lascia ammirati e scossi per la sua precisione.
Ma perché mai, dopo tanti anni passati in continente, Carmine Pullana era tornato al paese? Per scoprire, innanzitutto, che cosa era successo la notte in cui negli stagni davanti a Baraule era stato trovato il corpo straziato di Sidora Molas e nella rete di Martine Ragas, noto Polifemo, era rimasta impigliata "quella cosa informe che sembrava un coniglio scuoiato, una spugna rossa inzuppata di sangue", e invece era un neonato...
"All'uomo non conviene considerare, riguardo a se stesso e riguardo alle altre cose, se non ciò che è l'ottimo e l'eccellente; e inevitabilmente dovrebbe conoscere anche il peggio, giacché la conoscenza del meglio e del peggio è la medesima" dice Platone in un passo del Fedone. Tuttavia, aggiunge Sgalambro in questo libro ad alta temperatura speculativa, la filosofia si è invece legata strettamente solo al "meglio", tanto da identificarvisi, e lo stesso Platone non ha affrontato minimamente la conoscenza del peggio che raccomandava. Vi è stato, certo, un "pessimismo che si è assunto il compito di trattare del pessimum, ma passando attraverso la sofferenza", e facendoci pagare i "lugubri stati d'animo del pessimista", mentre "solo dopo il dolore compare il vero pessimismo". Verso quest'ultimo, dunque, non può che condurci un "fanatico della verità" come Sgalambro: il metodo che Sgalambro utilizza assomiglia molto a un libero flusso di un pensiero erratico che si sviluppa attraverso contrappunti capaci di suscitare inattese accensioni nella mente del lettore. Ma per tornare sempre, lungo un percorso le cui diversioni compongono in realtà un disegno di mirabile coerenza, al tema dominante, fulcro di un'opera filosofica fra le più notevoli dei nostri tempi. E non senza un sentimento di contagiosa euforia.
L'autonecrologia, osserva Lodovico Terzi, "è trasgressiva, narcisistica, creativa, e presuppone due qualità squisitamente letterarie: il gusto del paradosso (come autore dell'annuncio funebre il morto ruba la parte al vivo) e un incoercibile protagonismo (nemmeno da morto il morto è disposto a cedere la parola)". Jonathan Swift, a cui non fanno difetto né l'uno né l'altro, va ben oltre e nel 1731 si diverte (con il suo solito spirito feroce) a mettere in scena la propria morte e tutte le reazioni che susciterà, negli estimatori come nei detrattori: dall'insofferenza dei congiunti per l'eccessivo prolungarsi dell'agonia, al compiacimento di chi al confronto con il moribondo si sente vivo e sano, allo sgomento di chi nella sua imminente dipartita vede profilarsi la propria, fino al "compianto" (si fa per dire) della regina in persona, che nel ricevere la notizia esclama: "Davvero se n'è andato? Era ora! / È morto, dici? Be', marcisca pure". La beffarda vena filosofica e morale che intride questo testo ha ispirato il traduttore a riprendere i vari temi toccati da Swift - l'amore e il potere, l'amicizia e l'ambizione personale, lo slancio morale e i meandri dell'ipocrisia - e a intercalare alla lettura dei versi (in quelle "pause naturali" che la lettura stessa sottintende) una serie di riflessioni, o digressioni. Ne risulta un piccolo libro originale, bizzarro e intrigante - una sorta di dialogo fra il grande scrittore satirico del Settecento e il suo estroso interprete moderno.