
Come Zeus, sotto forma di toro bianco, rapì la principessa Europa; come Teseo abbandonò Arianna; come Dioniso violò Aura; come Apollo fu servo di Admeto, per amore; come il simulacro di Elena si ritrovò, insieme a quello di Achille, nell'isola di Leukè; come Erigone si impiccò; come Coronis, incinta di Apollo, lo tradì con un mortale; come le Danaidi tagliarono la testa ai loro sposi; come Achille uccise Pentesilea e si congiunse con lei; come Oreste lottò con la follia; come Demetra vagò alla ricerca della figlia Core; come Core guardò Ade e si vide riflessa negli occhi di lui; come Giasone morì, colpito da una trave della nave Argo; come Fedra smaniò invano per Ippolito; come gli Olimpi scesero a Tebe per partecipare alle nozze di Cadmo e Armonia...
Sono trascorsi 500 anni da quando il veneziano Aldo Manuzio pubblicò questo sfuggente romanzo, ritenuto il più bel libro della storia della stampa, ma l'opera mantiene intatto il suo fosco fascino. E non cessa di suscitare stupore, interrogativi e acri polemiche. Risolta la questione dell'autore, che Giovanni Pozzi ha identificato in un Francesco Colonna frate indocile e libertino, resta il mistero del linguaggio che fa del "Polifilo" uno spericolato e intrepido esperimento senza passato e senza futuro. Ma che cosa narra? Una storia d'amore. Polifilo ritrova in sogno l'amata Polia superando una serie di prove iniziatiche: un viaggio dell'anima, intrapreso in lotta con Amore per raggiungere la vera Sapienza.
Giorgio Manganelli è stato a Firenze nel 1984, vincendo tenaci resistenze che lo tenevano lontano dalle città "belle", irrimediabilmente diffidente nei confronti di monumenti e musei. Il volume raccoglie i reportages frutto di quel viaggio: sorta di Baedeker grazie al quale il lettore non vedrà i monumenti della città toscana, li "leggerà", decifrando l'occulta rete di rimandi che li lega. Ma Firenze è solo uno dei nuclei di questo viaggio che tocca, oltra alla Toscana, l'Emilia, le Marche e il Sud, in particolare l'Abruzzo, per Manganelli "grande produttore di silenzio".
Candido Munafò nasce in una grotta della Sicilia la notte dello sbarco degli americani, nel 1943. E questo romanzo ci fa seguire le vicende della sua vita sino al 1977 in una serie di capitoletti che rimandano a quelli del Candide di Voltaire. La forma del conte philosophique, particolarmente congeniale a Sciascia, gli permette di prendere la giusta distanza - e dà un passo leggero, aereo a questo libro, che per altro è forse il più intimo e segreto fra tutti i suoi romanzi. "Le cose sono sempre semplici" mormora talvolta Candido. E sarà appunto il suo desiderio di nominare le cose con il loro nome a procurargli varie disavventure. Questo giovane mite, testardo e riflessivo finisce per apparire, agli occhi del mondo, come un "piccolo mostro".
Ad Abacrasta di vecchiaia non muore mai nessuno. Tutti gli uomini, arrivati a una certa età, si impiccano con una cinghia. Le donne usano la fune. Al bambino che chiede il perché la nonna risponde che quando la Voce chiama tu non puoi fare altro che ubbidire. Un giorno, però, in paese è arrivata, non si sa da dove, una donna cieca, con i capelli lucidi come ali di corvo e i piedi scalzi. Ha detto di chiamarsi Redenta Tiria, e di essere figlia del sole. Da allora, ad Abacrasta, la gente ha smesso di impiccarsi.
Il volume raccoglie una serie di saggi, a partire da quello che dà il titolo al libro, dedicato alle ninfe, esseri delicatissimi e oscuri, fascinosi e terribili, provocatrici dell'ossessione primigenia, l'ossessione erotica. A questo si affiancano saggi che toccano temi disparati come la letteratura dei Brahmana, "Lolita" da Nabokov, "La finestra sul cortile" di Hitchcock, l'idea di bibliografia come forma, dell'editoria come genere letterario (partendo da Aldo Manuzio, grande editore rinascimentale, per arrivare a Kurt Wolff, che fu l'editore di Kafka).
Un alone di mistero circonda da sempre i fatti accaduti nelle poche, terribili, convulse ore di Dongo. A distanza di anni nessun enigma è stato risolto tranne, forse, grazie a questa indagine di Luciano Canfora, la presenza di Goffredo Coppola (filologo valente della prima metà del Novecento) nella colonna Mussolini e quindi davanti al plotone d'esecuzione. La fine di Coppola è per Canfora l'inizio di una storia ripercorsa a ritroso in cui entrano in scena i protagonisti della vicenda - "mostri sacri" dell'accademia italiana fra le due guerre, da Pasquali a Vitelli, fino alla figura misconosciuta di Medea Norsa - che ruota attorno alla scoperta di un papiro greco di enorme importanza.
È il 1960 e alcuni giovani italiani di buone letture decidono di snobbare le Olimpiadi di Roma e di visitare invece Olimpia e gli altri luoghi della grecità mitica, in un viaggio di formazione che anticipa il turismo di massa. I leggendari monumenti vengono percorsi da un'instancabile café society milanese e francese che si è formata soprattutto sulle Elene ed Elettre ed Ecube e Antigoni rifrescate da Giraudoux, Cocteau, Stravinskij, Anouilh, Poulenc, Sartre... Ecco quindi una "conversation pièce" d'epoca - allora "sofisticata" oggi forse archeologica - fra il Partenone, Olimpia, Delfi, Micene e Mikonos...
Come un Cicerone dalla sorprendente dottrina, affabile ma mai conciliante, Benedetto Croce fa scoprire al lettore il volto segreto della sua città: le vestigia della dominazione spagnola e le vite smodate dei soldati che vi furono di stanza; gli scomparsi "seggi" e l'epopea dei lazzari, fanaticamente devoti a san Gennaro e al re; il vocio assordante dei venditori; personaggi come il sacerdote archivista don Dima Ciappa, "religiosissimo uomo" che fece uccidere un giovane rivale in amore, e gemme come il palazzo Cellamare a Chiaia, dove si sedimentano secoli di storia, di vita artistica e letteraria. I saggi qui raccolti sono apparsi in origine tra la fine dell'Ottocento e gli anni Cinquanta.
"La primavera di Cosroe" era un meraviglioso tappeto, ricamato di smeraldi, che il re persiano Cosroe II faceva distendere nella sala della sua reggia, per ricordare le gioie della primavera quando le nevi e le noie dell'inverno lo assillavano. Anche questo libro è un tappeto, tessuto di parole invece che di pietre preziose. L'artigiano che l'ha composto racconta la costruzione della città di Persepoli, storie di re luminosi e nascosti, di re benigni e crudeli. Dal culto del fuoco alle "Mille e una notte": un viaggio attraverso la civiltà iranica.
L'autore di "La leggenda di Redenta Tiria" narra la storia di un amore che vive al di là della morte e di una feroce vendetta. Sin dalla prima pagina il lettore si trova immerso in un mondo arcaico e crudele, quello della Barbagia fra le due guerre. È qui che Mintonia e Micheddu si conoscono e si amano con la necessità prepotente ed esclusiva che è propria degli amori infantili. E continueranno ad amarsi anche quando Micheddu dovrà darsi alla macchia, anche quando Mintonia, "femmina malasortata", dovrà vederlo solo di nascosto e passare ore di angoscia a pensarlo braccato.
Per anni, quando i suoi viaggi erano soprattutto quelli del filobus romano 62, da via Nomentana a piazza San Silvestro, Manganelli coltivò un sogno temerario: spingersi sino alle isole Faeròer. Nel 1978, vincendo timori e angosce, con una valigia munita di tutto quanto un "frequent flyer" giudicherebbe forse inessenziale - un Dickens come amuleto e "blande mani chimiche" che sappiano coccolare nei momenti difficili -, lo scrittore partì alla volta dell'arcaica Islanda, prima tappa della sua incursione nel grande Nord. E l'esito di quel viaggio è questo reportage: lo sguardo del traveller sembra capace di svelare la segreta essenza dell'"isola pianeta", dove il mondo è preumano, folle e criptico.